"IL" problema di Hegel: dire l'indicibile. (a costo di parlare in dialetto...)
Una nota pubblicata su Facebook
"IL" problema di Hegel è quello di trovare un principio semplice attraverso cui spiegare tutto. In questo modo la filosofia può finalmente divenire una scienza.
Kant (con Locke) sostiene che la nostra conoscenza va distinta in due aspetti: (1) conoscenza "immediata"(intuizione) - passiva - di natura sensibile --esaminata nell'Estetica trascendentale (2) conoscenza "mediata"(pensiero) - attiva, spontanea - di natura concettuale -- esaminata nella Logica trascendentale.
Inoltre, Kant rifiuta l' "intuizione intellettuale" di Platone: i concetti non si possono apprendere in modo immediato per intuizione, solo per mediazione (il pensiero per Kant è sempre "pensiero verbalizzante" ed è formato da "giudizi", secondo la logica tradizionale)
In particolare l' "esistenza" non è un attributo/predicato, di natura concettuale (nella dialettica trascendentale questo è l'argomento decisivo per la confutazione della prova ontologica), ma un fatto.
Hegel non solo rifiuta l'intuizione intellettuale, ma anche l'intuizione sensibile (questa infatti mina alla radice il razionalismo, immettendo l'arbitrio del "fatto" nel reale). Hegel deve basarsi sul solo "concetto per mediazione" (è un "panlogismo") e ripensare il "fatto" come un concetto.
La logica sillogistica tradizionale (quindi anche la logica trascendentale di kant) era però inadeguata: come rendere possibile la "differenza" delle cose, la loro singolarità, rifiutando l'intuizione sensibile?
Così Hegel inventa una nuova logica, dialettica, fondata sul principio speculativo dell'Aufhebung, diversa da quella tradizionale, allo scopo di render conto delle singolarità attraverso il solo "ragionamento" (operazione per mediazione che letteralmente è sinonimo di "calcolo" e che per Hegel è qualcosa di assoluto, che non dipende da nulla, lo Spirito è praticamente un calcolo che calcola se stesso all'infinito attraverso l'Aufhebung, una cosa simile ad una "funzione di punto fisso", un "calcolo", che ha però una natura strana).
Una volta escogitato il trucco (la nuova logica), Hegel deve mostrare che funziona: deve riuscire a dimostrare che la nuova logica "spiega" ed "è" essa stessa quella cosa che Woody Allen chiama "il gigantesco". E nel gigantesco c'è il divenire, ci sono le differenze, c'è azione! Si tratterebbe di una "logica concreta" perché tutto deve essere "concetto", senza residui: anche l'azione, la prassi, è concettuale-logica, dunque il reale è razionale ma anche il razionale è reale. L'identità parmenidea di pensiero ed essere deve sottostare all'idea fissa di Hegel secondo cui il pensiero (e quindi anche la realtà) (cioè il "gigantesco") è sempre mediazione=movimento=fatica="il duro lavoro del concetto" e non può mai essere colto immediatamente. Le parti mediate non possono mai essere comprese davvero senza la mediazione stessa, dunque è sempre l'intero e non la parte ad essere il vero oggetto di comprensione.
(fra l'altro il Gigantesco hegeliano non è un infinito "potenziale", come quello degli antichi, l'illimitato/apeiron, che Hegel attribuisce ancora a Fichte e che chiama "cattivo infinito", ma è un infinito sempre "attuale", come quello di Cantor)
Ma i suoi tentativi di dimostrare che il trucco funziona sono sempre maledettamente deboli, sembrano favole, ...è frustrante. Così Hegel alle sue lezioni e nei suoi scritti usa parole dialettali (dialetto svevo), soffre nel cercare le parole giuste
(che per lui ovviamente sono importantissime, visto che il dire e il fare sono della stessa natura... il suo panlogismo crede fermamente nella "potenza" del pensiero, del ragionamento, del dire, dei concatenamenti di parole rigorosi, anche se grammaticalmente errati, come quasi sempre in filosofia: Hegel vuole che l'azione sia concettuale e che il concetto sia azione.
Altri distinguono nettamente prassi e teoria, al massimo la prassi del teorizzare può essere un tipo di prassi fra le altre ma non è tutta la prassi: ci sono cose che la teoria non può fare, la teoria è impotente di fronte al fatto, che gli è costituivamente esterno e che irrompe -per molti filosofi etichettati come "irrazionalisti"- a sorpresa, perché impensato e impensabile. Per Wittgenstein "si deve tacere di ciò di cui non si può parlare")
insomma, ecco cosa dice un suo allievo (H.C.Hotho): «se ne stava seduto con il corpo rilassato, il capo chino e come di malumore e continuando a parlare sfogliava i lunghi quaderni in folio, cercando avanti e indietro, su e giù; il continuo raschiarsi la voce e tossire disturbava il fluire del discorso; ogni proposizione se ne stava a sé, isolata messa fuori con sforzo districandosi da altre: ogni parola, ogni sillaba si liberava solo dopo una lotta per passare da una voce vuota di toni metallici al largo dialetto svevo, come se ognuna fosse la cosa più importante per attingere infine un accento stupendamente risolutivo […]. Balbettando al principio egli procedeva con sforzo, si fermava di nuovo in sospeso, parlava e rifletteva intensamente, la parola esatta sembrava dovesse mancare del tutto ed ecco improvvisamente veniva con certezza infallibile, sembrava comunissima e invece era inimitabilmente appropriata, inusitata eppure l’unica corretta […] sommessamente e cautamente, per passi intermedi in apparenza insignificanti il pensiero, riassumendo mirabilmente e con cura quel che precede, per sviluppare attraverso profonde trasformazioni il momento seguente, conseguiva all’improvviso e in modo ormai inarrestabile la sua meta»
Naturalmente il pensare, visto che non è intuizione ma un sapere per mediazione, deve poter essere detto tutto (attraverso la mediazione delle parole). Il "dire l'indicibile", secondo Hegel, è allora la mossa che dimostrerà la validità della nuova logica e fonderà la filosofia come scienza. Si tratta di un dire che è sottoposto a se stesso, nel suo farsi, perché deve comprendere ogni cosa detta mentre la dice ed il movimento stesso (l'azione) del dire. È un dire che fa qualcosa e un fare che si dice da solo facendo. È un "dire" più orale che scritto, quello del filosofo, secondo Hegel (e secondo Platone, Socrate...), non "chiaro e distinto" perché deve esprimere la vita della cosa stessa, che sfugge alla "correttezza" (adaequatio rei et intellectus) perché diviene. È un dire che ha bisogno di immagini, di un linguaggio "pittografico" come quello dialettale. Horkheimer addirittura sosteneva che per comprendere Hegel è necessario conoscere il dialetto svevo, averne vissuto il gesto linguistico.
Dire il Gigantesco è ogni volta un'esperienza inedita, una ricapitolazione dell'assoluto, un'impresa titanica ...che non può non fallire.
C'è almeno un problema: la dialettica non deve essere ARBITRARIA. Quali sono i criteri che di volta in volta Hegel usa per scegliere i "momenti" nel dispiegare il Gigantesco? Interesse personale... gusto... sono reali, dunque razionali?... non basta. Hegel sceglie il negativo di qualcosa fra infiniti altri possibili ed afferma che è l'unico negativo: per Hegel ogni momento è un passo obbligato. Interviene lo stesso tipo di arbitrio che caratterizza la logica (dialettica) di Platone, quando ci mostra il doppio movimento della synagoghé (dal molteplice all'uno) e della diàiresis (dall'uno al molteplice): si fissa un genere e lo si divide in due specie, ognuna delle quali suscettibile di ulteriori divisioni dialettiche. MA: a due a due... e perché due?... e perché proprio quel genere e non un altro? ..perché va diviso in quelle specie e non altre? Si tratta ogni volta di una scelta arbitraria, ESTERNA alla logica?
Un doppio arbitrio:
(1) - Fissazione arbitraria di un criterio per evitare di procedere arbitrariamente.
(2) - Applicazione arbitraria del criterio per la selezione degli oggetti, perché il criterio non è sufficiente a determinare selezioni univoche.
Proviamo a giustificare il comportamento di Hegel usando i concetti del Wittgenstein di Gargani [http://www.facebook.com/posted.php?id=98250567538&share_id=136278549724259&comments=1#s136278549724259]: si tratta di un "mettere insieme", un "praticare l'inferenza", che è appunto di natura pratica. Le tre parti della logica triadica di Hegel sono tenute insieme dalla prassi, dal gesto, da un'oggettività vissuta come un senso comune.
[Ma per Hegel questi sono di natura concettuale e sono agganciate dall'Aufhebung: pur ammettendo la non arbitrarietà del criterio (1), affermandone semplicemente la verità a priori, rimane comunque molto sospetto il modo in cui Hegel opera la selezione dei pezzi del suo ragionamento (2). Comunque possiamo dire: l'applicazione ci è data dal senso comune ...un "senso comune" di natura concettuale (?)]
Ma se si accetta questa concezione pragmatistica di Wittgenstein (la logica stessa come il pensare gestaltico di una forma di vita) come spiegazione dell'elemento arbitrario della logica dialettica hegeliana e platonica, non abbiamo più effettivamente bisogno delle ristrettezze e limitazioni di Hegel e Platone. È anzi l'intuizione sensibile ad irrompere con tutta la sua forza, come i cavalieri di Attila flagello del cosmo, e a fare in polpette l'Aufhebung. Qui infatti il Gigantesco-cosmo non è tutto concettuale ma tutto sensibile, non è tutto "dentro" ma paradossalmente è tutto "fuori", nel senso che ogni più piccolo elemento del ragionamento è collegato ad un altro SENZA un principio risolutore sovradeterminante, come l'Aufhebung, dettato in partenza (immanente o trascendente, logico o extralogico fa poca differenza). NON la fune tenuta insieme da una sola fibra che l'attraversa tutta (l'Aufhebung), MA la catena i cui anelli sono tenuti stretti direttamente e se andiamo a sondare l'abisso fra un anello e l'altro, per spiegare PERCHÉ stanno insieme, lo troviamo VUOTO: non può essere colmato da un principio risolutore, solo dal "fuori" indicibile della prassi.
È un mondo estremamente precario ed incerto quello di un empirista radicale, che ha la percezione tragicomica di quell'abisso (fra gli anelli della catena..., fra le parti di un tutto sensato...), dunque dell'impossibilità del riduzionismo assoluto, perché il principio cosmico a priori semplicemente non c'è. (in un tale contesto come fa ad esistere un cosmo, un cosmetico del caos, "un" tutto o "i" tutti, un qualcosa di "sensato"? A questo proposito avrei alcune idee ma non si possono trattare qui. Magari più avanti in bacheca....)
Si potrebbero dire moltissime altre cose, per esempio sul modo strano in cui inizia la Fenomenologia dello spirito e su come è stranamente strutturata. Ma ho scritto davvero troppo-troppo per una nota di facebook.
Kant (con Locke) sostiene che la nostra conoscenza va distinta in due aspetti: (1) conoscenza "immediata"(intuizione) - passiva - di natura sensibile --esaminata nell'Estetica trascendentale (2) conoscenza "mediata"(pensiero) - attiva, spontanea - di natura concettuale -- esaminata nella Logica trascendentale.
Inoltre, Kant rifiuta l' "intuizione intellettuale" di Platone: i concetti non si possono apprendere in modo immediato per intuizione, solo per mediazione (il pensiero per Kant è sempre "pensiero verbalizzante" ed è formato da "giudizi", secondo la logica tradizionale)
In particolare l' "esistenza" non è un attributo/predicato, di natura concettuale (nella dialettica trascendentale questo è l'argomento decisivo per la confutazione della prova ontologica), ma un fatto.
Hegel non solo rifiuta l'intuizione intellettuale, ma anche l'intuizione sensibile (questa infatti mina alla radice il razionalismo, immettendo l'arbitrio del "fatto" nel reale). Hegel deve basarsi sul solo "concetto per mediazione" (è un "panlogismo") e ripensare il "fatto" come un concetto.
La logica sillogistica tradizionale (quindi anche la logica trascendentale di kant) era però inadeguata: come rendere possibile la "differenza" delle cose, la loro singolarità, rifiutando l'intuizione sensibile?
Così Hegel inventa una nuova logica, dialettica, fondata sul principio speculativo dell'Aufhebung, diversa da quella tradizionale, allo scopo di render conto delle singolarità attraverso il solo "ragionamento" (operazione per mediazione che letteralmente è sinonimo di "calcolo" e che per Hegel è qualcosa di assoluto, che non dipende da nulla, lo Spirito è praticamente un calcolo che calcola se stesso all'infinito attraverso l'Aufhebung, una cosa simile ad una "funzione di punto fisso", un "calcolo", che ha però una natura strana).
Una volta escogitato il trucco (la nuova logica), Hegel deve mostrare che funziona: deve riuscire a dimostrare che la nuova logica "spiega" ed "è" essa stessa quella cosa che Woody Allen chiama "il gigantesco". E nel gigantesco c'è il divenire, ci sono le differenze, c'è azione! Si tratterebbe di una "logica concreta" perché tutto deve essere "concetto", senza residui: anche l'azione, la prassi, è concettuale-logica, dunque il reale è razionale ma anche il razionale è reale. L'identità parmenidea di pensiero ed essere deve sottostare all'idea fissa di Hegel secondo cui il pensiero (e quindi anche la realtà) (cioè il "gigantesco") è sempre mediazione=movimento=fatica="il duro lavoro del concetto" e non può mai essere colto immediatamente. Le parti mediate non possono mai essere comprese davvero senza la mediazione stessa, dunque è sempre l'intero e non la parte ad essere il vero oggetto di comprensione.
(fra l'altro il Gigantesco hegeliano non è un infinito "potenziale", come quello degli antichi, l'illimitato/apeiron, che Hegel attribuisce ancora a Fichte e che chiama "cattivo infinito", ma è un infinito sempre "attuale", come quello di Cantor)
Ma i suoi tentativi di dimostrare che il trucco funziona sono sempre maledettamente deboli, sembrano favole, ...è frustrante. Così Hegel alle sue lezioni e nei suoi scritti usa parole dialettali (dialetto svevo), soffre nel cercare le parole giuste
(che per lui ovviamente sono importantissime, visto che il dire e il fare sono della stessa natura... il suo panlogismo crede fermamente nella "potenza" del pensiero, del ragionamento, del dire, dei concatenamenti di parole rigorosi, anche se grammaticalmente errati, come quasi sempre in filosofia: Hegel vuole che l'azione sia concettuale e che il concetto sia azione.
Altri distinguono nettamente prassi e teoria, al massimo la prassi del teorizzare può essere un tipo di prassi fra le altre ma non è tutta la prassi: ci sono cose che la teoria non può fare, la teoria è impotente di fronte al fatto, che gli è costituivamente esterno e che irrompe -per molti filosofi etichettati come "irrazionalisti"- a sorpresa, perché impensato e impensabile. Per Wittgenstein "si deve tacere di ciò di cui non si può parlare")
insomma, ecco cosa dice un suo allievo (H.C.Hotho): «se ne stava seduto con il corpo rilassato, il capo chino e come di malumore e continuando a parlare sfogliava i lunghi quaderni in folio, cercando avanti e indietro, su e giù; il continuo raschiarsi la voce e tossire disturbava il fluire del discorso; ogni proposizione se ne stava a sé, isolata messa fuori con sforzo districandosi da altre: ogni parola, ogni sillaba si liberava solo dopo una lotta per passare da una voce vuota di toni metallici al largo dialetto svevo, come se ognuna fosse la cosa più importante per attingere infine un accento stupendamente risolutivo […]. Balbettando al principio egli procedeva con sforzo, si fermava di nuovo in sospeso, parlava e rifletteva intensamente, la parola esatta sembrava dovesse mancare del tutto ed ecco improvvisamente veniva con certezza infallibile, sembrava comunissima e invece era inimitabilmente appropriata, inusitata eppure l’unica corretta […] sommessamente e cautamente, per passi intermedi in apparenza insignificanti il pensiero, riassumendo mirabilmente e con cura quel che precede, per sviluppare attraverso profonde trasformazioni il momento seguente, conseguiva all’improvviso e in modo ormai inarrestabile la sua meta»
Naturalmente il pensare, visto che non è intuizione ma un sapere per mediazione, deve poter essere detto tutto (attraverso la mediazione delle parole). Il "dire l'indicibile", secondo Hegel, è allora la mossa che dimostrerà la validità della nuova logica e fonderà la filosofia come scienza. Si tratta di un dire che è sottoposto a se stesso, nel suo farsi, perché deve comprendere ogni cosa detta mentre la dice ed il movimento stesso (l'azione) del dire. È un dire che fa qualcosa e un fare che si dice da solo facendo. È un "dire" più orale che scritto, quello del filosofo, secondo Hegel (e secondo Platone, Socrate...), non "chiaro e distinto" perché deve esprimere la vita della cosa stessa, che sfugge alla "correttezza" (adaequatio rei et intellectus) perché diviene. È un dire che ha bisogno di immagini, di un linguaggio "pittografico" come quello dialettale. Horkheimer addirittura sosteneva che per comprendere Hegel è necessario conoscere il dialetto svevo, averne vissuto il gesto linguistico.
Dire il Gigantesco è ogni volta un'esperienza inedita, una ricapitolazione dell'assoluto, un'impresa titanica ...che non può non fallire.
C'è almeno un problema: la dialettica non deve essere ARBITRARIA. Quali sono i criteri che di volta in volta Hegel usa per scegliere i "momenti" nel dispiegare il Gigantesco? Interesse personale... gusto... sono reali, dunque razionali?... non basta. Hegel sceglie il negativo di qualcosa fra infiniti altri possibili ed afferma che è l'unico negativo: per Hegel ogni momento è un passo obbligato. Interviene lo stesso tipo di arbitrio che caratterizza la logica (dialettica) di Platone, quando ci mostra il doppio movimento della synagoghé (dal molteplice all'uno) e della diàiresis (dall'uno al molteplice): si fissa un genere e lo si divide in due specie, ognuna delle quali suscettibile di ulteriori divisioni dialettiche. MA: a due a due... e perché due?... e perché proprio quel genere e non un altro? ..perché va diviso in quelle specie e non altre? Si tratta ogni volta di una scelta arbitraria, ESTERNA alla logica?
Un doppio arbitrio:
(1) - Fissazione arbitraria di un criterio per evitare di procedere arbitrariamente.
(2) - Applicazione arbitraria del criterio per la selezione degli oggetti, perché il criterio non è sufficiente a determinare selezioni univoche.
Proviamo a giustificare il comportamento di Hegel usando i concetti del Wittgenstein di Gargani [http://www.facebook.com/posted.php?id=98250567538&share_id=136278549724259&comments=1#s136278549724259]: si tratta di un "mettere insieme", un "praticare l'inferenza", che è appunto di natura pratica. Le tre parti della logica triadica di Hegel sono tenute insieme dalla prassi, dal gesto, da un'oggettività vissuta come un senso comune.
[Ma per Hegel questi sono di natura concettuale e sono agganciate dall'Aufhebung: pur ammettendo la non arbitrarietà del criterio (1), affermandone semplicemente la verità a priori, rimane comunque molto sospetto il modo in cui Hegel opera la selezione dei pezzi del suo ragionamento (2). Comunque possiamo dire: l'applicazione ci è data dal senso comune ...un "senso comune" di natura concettuale (?)]
Ma se si accetta questa concezione pragmatistica di Wittgenstein (la logica stessa come il pensare gestaltico di una forma di vita) come spiegazione dell'elemento arbitrario della logica dialettica hegeliana e platonica, non abbiamo più effettivamente bisogno delle ristrettezze e limitazioni di Hegel e Platone. È anzi l'intuizione sensibile ad irrompere con tutta la sua forza, come i cavalieri di Attila flagello del cosmo, e a fare in polpette l'Aufhebung. Qui infatti il Gigantesco-cosmo non è tutto concettuale ma tutto sensibile, non è tutto "dentro" ma paradossalmente è tutto "fuori", nel senso che ogni più piccolo elemento del ragionamento è collegato ad un altro SENZA un principio risolutore sovradeterminante, come l'Aufhebung, dettato in partenza (immanente o trascendente, logico o extralogico fa poca differenza). NON la fune tenuta insieme da una sola fibra che l'attraversa tutta (l'Aufhebung), MA la catena i cui anelli sono tenuti stretti direttamente e se andiamo a sondare l'abisso fra un anello e l'altro, per spiegare PERCHÉ stanno insieme, lo troviamo VUOTO: non può essere colmato da un principio risolutore, solo dal "fuori" indicibile della prassi.
È un mondo estremamente precario ed incerto quello di un empirista radicale, che ha la percezione tragicomica di quell'abisso (fra gli anelli della catena..., fra le parti di un tutto sensato...), dunque dell'impossibilità del riduzionismo assoluto, perché il principio cosmico a priori semplicemente non c'è. (in un tale contesto come fa ad esistere un cosmo, un cosmetico del caos, "un" tutto o "i" tutti, un qualcosa di "sensato"? A questo proposito avrei alcune idee ma non si possono trattare qui. Magari più avanti in bacheca....)
Si potrebbero dire moltissime altre cose, per esempio sul modo strano in cui inizia la Fenomenologia dello spirito e su come è stranamente strutturata. Ma ho scritto davvero troppo-troppo per una nota di facebook.