LE RIVOLTE SPONTANEE.
La rivolta spontanea è latente in tutte le carceri e spesso esplode con una violenza che farebbe paura se non fosse pienamente comprensibile e giustificabile politicamente. In tutte le carceri del mondo avvengono rivolte, anche nei paesi cosiddetti “avanzati”. In Italia, specie negli ultimi anni, la rivolta in un carcere è ormai una notizia che non fa più scalpore. Per l'alto numero dei reclusi, le rivolte più importanti sono state quelle dei grandi giudiziari (Le Nuove, aprile 1969 – San Vittore, aprile 1969 – Le Nuove, marzo 1971), Però non bisogna sottovalutare la forza morale delle piccole rivolte, in carceri minori: fra mille persone può essere molto più facile che in venti o trenta con la sicurezza matematica di essere tutti individuati, quindi denunciati, trasferiti, eccetera.
Qual è il residuo politico di una rivolta?
A livello generale la rivolta è utile alla massa detenuta psicologicamente, praticamente, politicamente. A livello singolo (con percentuali da decimazione) spesso porta duri svantaggi, ma questo anche fra gli stessi detenuti è considerato il prezzo da pagare per continuare a sentirsi uomini.
Ecco l'utilità psicologica: quando scoppia la rivolta, tutti i detenuti, addirittura anche quelli di altre carceri, ritrovano la propria dignità, il rispetto di se stessi. Non sto parlando di culto della forza o della virilità, ma culto di qualcosa di più: la propria dignità umana. Nella rivolta i detenuti trovano il coraggio e la forza di fare cose che magari per anni hanno desiderato di fare, si liberano dall'incubo di non essere più uomini. A livello pratico, le rivolte, anche se, come abbiamo detto, arrecano a molti detenuti anni di galera in più, sono state la spinta maggiore che ha portato molti direttori a concedere tutta una serie di piccole agevolazioni e che soprattutto ha costretto l'opinione pubblica a prendere atto del problema carcerario. Esiste poi un rapporto diretto rivolta-riforma, e cioè senza le rivolte di riforma probabilmente non si sarebbe neppure parlato; ora, è evidente che all'interno della riforma carceraria esistono punti che costituiscono dei passi in avanti rispetto al regolamento fascista, ed è indubbio che queste conquiste hanno avuto come motore essenziale le rivolte carcerarie. La rivolta è utile politicamente (e non considerando le ultime di quest'anno, che non sono state solo utili, ma “caratterizzate” e gestite politicamente), perché soltanto con l'allontanamento dei secondini, l'abbattimento delle porte e divisioni interne in muratura, i detenuti si trovano fisicamente tutti uniti e padroni della situazione. Fuori del carcere c'è la polizia e i carabinieri, pronti ad intervenire coi gas: allora si collabora tutti insieme a fare barricate, a salire sui tetti per lanciare tegole e slogans, si combatte tutti insieme quando entrano i poliziotti. Insomma, magari solo per poche ore, tutte le divisioni saltano e ci si ritrova tutti uniti, repressi allo stesso modo, ma tutti decisi a reagire allo stesso modo. È un dato di fatto che durante tutte le rivolte non è mai successa una lite o un ferimento tra detenuti.
Una volta assodata questa utilità, esaminiamo i difetti delle rivolte spontanee, che sono soprattutto due: la mancanza di organizzazione e chiarificazione politica prima, e l'estrema improbabilità che rimangano, dopo, dei residui organizzativi. Vale a dire, una rivolta non è una lotta continua. Cosa intendiamo per “lotta” lo chiariranno molto bene ed esaurientemente i documenti e gli scritti del nucleo di San Vittore.
LE RIVOLTE DEL 1969.
- Cronaca della rivolta alle Nuove.
Torino, 11 aprile 1969.
Precedenti – Giugno 1968. Venivano portate avanti parole d'ordine piuttosto avanzate sulla riforma delle carceri e contro la carcerazione preventiva (e non va dimenticato che sia alle Nuove che a San Vittore aveva avuto una certa importanza il contatto con gli studenti arrestati per le lotte universitarie), d'altra parte si poteva rilevare un carattere episodico dovuto sia alla mancanza di organizzazione interna, sia all'importanza eccessiva che vi ebbero motivi di contenuto immediato.
La rivolta si estese a San Vittore e a Poggioreale.
Metà gennaio 1969. Rivolta di minor rilievo, in occasione della “controinaugurazione” dell'anno giudiziario.
Aprile 1969. La rivolta. Non a caso è cominciata nel giorno dello sciopero generale per i fatti di Battipaglia, col ribadire la richiesta di riforma e con una azione di denuncia e di appello all'opinione pubblica. Si è continuato con la critica a tutto l'ordinamento giudiziario, alla giustizia di classe (negli slogans e nelle dichiarazioni ai giornali i detenuti introducevano spesso duri attacchi all'istituto della difesa d'ufficio, e soprattutto a quello della custodia preventiva, che sono due nodi fondamentali del sistema classista della giustizia italiana).
A dirigere, a parte i primi due giorni in cui comandavano i “capoccia”, vecchi detenuti abbastanza compromessi col direttore, e a lanciare parole d'ordine fu un “comitato di base” costituito da elementi giovani che si impossessarono del ciclostile per diffondere una “carta rivendicativa” in cui si proponeva l'elezione di un comitato delegato a fare una conferenza stampa e l'impegno di astenersi dai danneggiamenti nel caso le autorità avessero preso impegno di non dar corso a punizioni e trasferimenti. Le autorità non si assunsero impegni. In seguito a ciò, nell'ultimo giorno il comitato non riuscì minimamente a indirizzare la rivolta, che si fece violentissima. Bisogna ricordare che, nella fase non violenta e protestataria la polizia già seguì una tattica di brutale repressione, imbottendo il carcere di bombe lacrimogene. La giusta violenza dei carcerati fu non solo una risposta alla repressione, ma anche un tentativo pratico-politico di riforma carceraria a modo loro. Infatti fu distrutta la cappella (la religione è una delle chiavi del cosiddetto sistema rieducativo basato sulla violenza); l'ufficio matricola; l'ufficio fascicoli personali, dove il detenuto riceve il marchio di reietto; l'infermeria simbolo della discriminazione classista interna, in quanto è noto che le persone di elevata condizione (o che possono pagare) vi sono ricoverate sine die. Furono distrutte le fogne del 1857 e le tubature d'acqua antiquate, i miseri “impianti” per l'igiene, con lo scopo dichiarato di farle costruire nuove e come denuncia di una condizione di vita disumana. Furono resi inservibili i macchinari delle lavorazioni su cui si fatica otto ore per guadagnare 350 lire al giorno. Le autorità dapprima reprimono duramente, poi invece è il trionfo del paternalismo e delle promesse a buon mercato.
Conclusione: l'ordine è ristabilito, col trasferimento punitivo verso carceri lontane: questo significa aggravare l'isolamento del recluso e prolungare di molto la detenzione preventiva, visto che i giudici istruttori rimangono a Torino ed in questo modo le procedure si allungano di anni.
Dopo una rivolta a pagare rimangono sempre e solo loro, i detenuti. E sono anni di galera in più.
- Cronaca della rivolta di San Vittore.
Milano, aprile 1969.
12 aprile: incontro tra il procuratore della repubblica ed i rappresentanti dei detenuti. Nei giorni precedenti, per due volte i detenuti non entrano in cella dopo l'aria: si protesta contro i buglioli, le bocche di lupo e il letto di contenzione; contro il codice penale fascista; contro la carcerazione preventiva. Il procuratore promette i servizi igienici e più colloqui coi parenti. Dice no all'abolizione della censura sulla posta, alle licenze extra, alla riduzione delle pene (non dipendono da lui, si sa). Le notizie da Torino e da Marassi di Genova fanno esplodere il quinto raggio (ore sedici di lunedì 14). La parola d'ordine: riforma dei codici, rispetto dell'uomo. Alle sedici e trenta tutto il carcere è in rivolta, in mano ai detenuti. La T.V. si affretta a mostrare lo spettacolo a tutti gli italiani: attorno alle mura i P.S. con elmi e fucili; in alto, aggrappati alle sbarre, i rivoltosi gridano slogans alla gente sulla strada. Alle ventidue, duemila tra P.S. e C.C. circondano San Vittore: la battaglia è iniziata; la forza pubblica entra in carcere, tegole, inferriate e sassi lanciano i detenuti; raffiche di mitra, colpi di pistola, centinaia di bombe-gas la polizia. Fiamme dappertutto, la battaglia dura quindici ore. In piazza Filangieri, davanti a San Vittore, dalle finestre del Beccaria piovono bicchieri, piatti, panini e cartelli: “siamo tutti uniti con voi!”, “sciopero della fame”, “giù le mani dai minorenni”, “la morte viene data troppo spesso”. Decine e decine di feriti, cento persone gravemente ferite tra cui una trentina di agenti. Le guardie prese in ostaggio sono liberate sane e salve. Alle sette del mattino di martedì 15 aprile, la resa definitiva: su San Vittore è issata una bandiera bianca. I detenuti con le mani in alto contro il muro sotto il tiro dei mitra, detenuti incatenati subito trasferiti in altre carceri, poliziotti in barella: il carcere quasi completamente distrutto, il folto pubblico benpensante del “Corriere” e della T.V. abbandona lieto ed eccitato il campo di battaglia: lo spettacolo è finito, i “nostri” sono arrivati (da Padova, Gorizia, Bolzano, Bologna) “celeri”, la virtù ha trionfato, i sonni possono essere di nuovo tranquilli.
- Lettera di un compagno dopo la rivolta di San Vittore (2).
Milano, aprile 1969.
... A sera quando cessammo ogni resistenza fummo incolonnati, ci fu impedito di prendere qualsiasi vestito od oggetto personale, dovemmo passare attraverso un cordone formato da celerini e guardie carcerarie, i quali cominciarono a percuoterci selvaggiamente con manganellate, pugni, calci, cinghiate, ed alcuni secondini con catene munite di lucchetto all'estremità. In queste condizioni tra nuove percosse potemmo raggiungere l'ufficio matricola. Il pestaggio era cieco e indiscriminato, il livore, la rabbia sadica, la vendetta si abbatteva contro tutti senza alcuna distinzione tra giovani e vecchi e malati ricoverati all'infermeria del quarto raggio. Parecchi di noi nonostante fossero caduti a terra sfiniti dalle botte, sommersi dall'acqua che fuorusciva dalle tubazioni ed allagava il pavimento, continuarono ad essere colpiti selvaggiamente alla cassa toracica ed anche alla testa, tanto che gli stessi pompieri accorsi per spegnere il fuoco, cercarono inutilmente di impedire questi gesti inumani. C'è da dire che i pompieri a più riprese manifestarono ad alta voce la condanna delle azioni dei celerini e secondini, furono le uniche persone che in quel giorno ci confortarono in modo umano.
Giunti in “matricola” fummo ammanettati a cinque per cinque e caricati sui camions militari e trasportati a Genova. Sui camions si trovavano persino dei detenuti che indossavano solo le mutande, tutti i visi erano pesti, sanguinanti, gonfi, occhi neri, costole incrinate, mal di testicoli, atroci mal di capo, ma nonostante le ripetute richieste ed invocazioni di soccorso medico, la scorta ce lo negò. Un detenuto nonostante avesse ricevuto un colpo di sbarra all'avambraccio ed avesse l'osso che sporgeva dalla carne, non venne curato ma fu ammanettato come tutti. Quando giunse a Pescara gli misero settantacinque punti.
Giunti a Genova fummo calati nella stiva di una nave, dove tutto era buio e sporco, costretti a mangiare ammanettati e dormire con le manette, per terra, come bestie. Rimanemmo così per dodici ore. Sbarcati a Cagliari verso le tre e mezzo, con i camions 62/8 della celere, fummo accompagnati a Mamone. Qui trovammo schierati tutti i secondini, il direttore e il maresciallo F. F., il quale ci fece un piccolo discorsetto la cui sintesi era: “voi siete dei ribelli, toglietevi i grilli dalla testa, noi abbiamo domato bestie più feroci di voi, state attenti che la Sardegna lascia brutti segni”. Finito il discorsetto, fummo tutti ammucchiati in una stanza, fummo denudati, eravamo senza mutande, nonostante facesse un freddo della malora. Fummo perquisiti minuziosamente, accuratamente, ci fecero piegare a novanta gradi in avanti, le guardie scostarono le chiappe del culo e controllarono il buco. I secondini avevano nei nostri riguardi un comportamento duro, arrogante, derisorio, quando li chiamavamo per qualsiasi bisogno facevano finta di non capire rispondendoci in dialetto sardo.
La domenica 11 maggio, all'esterno per i civili era festa, il detenuto M. U. si era affacciato alla finestra per osservare cosa si svolgeva all'esterno. Sotto detta finestra, la sentinella di turno dopo aver puntato e armato il MAB disse al M. U. “scendi o ti faccio venire il mal di testa”. Il M. U. convintissimo che scherzasse disse “spara”, la sentinella sparò veramente una raffica di cinque colpi di cui quattro andarono a vuoto e uno andò a conficcarsi a 12 centimetri sopra la testa del M. U. – Giunse il maresciallo F. F. il quale chiese spiegazioni. Un detenuto dello stesso camerone, irato e incazzato per la sparatoria, soprattutto per le conseguenze che potevano avvenire, disse al maresciallo: “la guardia che ha sparato deve essere pazza e se la prendo la strozzo”. Il maresciallo con il sorriso ironico sulle labbra disse: “state calmi, ragazzi, non è successo nulla di grave”. Dopo circa un quarto d'ora, mentre eravamo ognuno nella propria branda a mangiare, fecero irruzione il maresciallo con un seguito di una trentina di guardie, in vero e proprio assetto di guerra: muniti di bombe lacrimogene, elmetto e sacchetti di sabbia, si avventarono cinque-sei guardie contro ognuno di noi, e ci condussero a calci, pugni e sacchettate sino alla portineria della centrale di Mamone, dove numerose altre guardie ci attendevano e ci ammanettarono stringendo i morsetti dei ferri, a tale punto che il sangue non riusciva ad affluire alle dita. Lì c'erano il direttore del carcere L., il cappellano del carcere, ai quali noi chiedemmo quale era il motivo di quel trattamento, ma ambedue non si degnarono nemmeno di rispondere. Ci fecero attraversare il piazzale, sempre percuotendoci fummo obbligati a salire su un autobus; mentre ci accingevamo a salire, il M. U. venne colpito alla nuca da uno sbirro e crollò svenuto ai piedi del cappellano, che impassibile davanti all'accaduto, si allontanò; io e un altro amico, benché ammanettati e minacciati e impediti di soccorrerlo, ci chinammo ed aiutammo nei limiti delle nostre possibilità, a far prendere posto sull'autobus al M. U. [...]. L'autobus prese la direzione di Nortiddi (una diramazione della colonia sita a 4 chilometri dalla centrale in un posto solitario e deserto) dove ci sono le sei celle di punizione. Ci fecero scendere uno alla volta, si scagliarono addosso e ci trascinarono a pugni, calci, e sacchettate, verso l'entrata dello stabile (un vero inferno). Io vidi tutta la scena dal finestrino dell'autobus, e quando il primo detenuto sparì nel corridoio dello stabile, sentii delle urla strazianti e terribili, nonché lamenti di dolore. Io fui l'ultimo a scendere ed avendo visto il trattamento subito dai miei compagni, pensai di fingere di stare male onde evitare nuove percosse, ma ciò non servì a nulla, perché non appena giunsi sulla porta dell'autobus, venni colpito alla nuca dai due pugni chiusi; il colpo subito mi fece cadere faccia al suolo. Mi coprivo come potevo il viso onde evitare le scarpate alla testa, ma fui colpito ugualmente e ripetutamente da scarpate e sacchettate in tutto il corpo e in particolar modo alle costole. Ancora oggi risento le conseguenze di questi colpi. Mi rialzai dolorante e stordito venni trascinato e trattato come gli altri detenuti. Sembrava una via crucis, finalmente giunsi alla cella, voglio precisare che mentre eravamo massacrati, gli sbirri ridevano e canticchiavano per deriderci. Davanti alle celle mi fecero spogliare completamente, mi ordinarono di piegarmi a novanta gradi ed io compresi la loro intenzione, in quel momento essendo privo delle manette mi coprii i testicoli con le mani, ma mi ordinarono di non assumere tale atteggiamento, e non appena tolsi le mani una guardia pugliese mi sferrò una scarpata, e svenni. Mi ritrovai in cella assieme a due altri miei compagni di sventura. Confesso che eravamo tutti conciati in stato pietoso. Dopo mezz'ora passò il maresciallo, il direttore, il dottore, quest'ultimo invece di assisterci ci disse “qui potete urlare fin che volete tanto il paese più vicino dista 20 chilometri” .
Due giorni dopo ci convocò il direttore che era accompagnato dal cappellano e dal ragioniere della colonia, che ci disse di parlare e dire e dare elementi in nostra discolpa davanti al consiglio disciplinare. Io dissi che per discolparmi avrei dovuto avere una colpa, al che il direttore rispose: “Se confessi che volevate sequestrare una guardia, io non ti denuncio, se no ti denuncio”. Allora io risposi di denunciarmi pure che poi la magistratura avrebbe fatto luce sugli abusi inumani commessi. Stesse risposte diedero i miei compagni. Al pomeriggio verso le quindici, entrò il maresciallo in cella accompagnato dal brigadiere, sfottendomi mi disse che dovevo scontare tre mesi di punizione. Specifico che nelle celle di punizione dormivamo in tre sui paglioni per terra, senza lenzuola e una sola coperta sudicia e puzzolente; alla mattina a discrezione delle guardie ci concedevano al massimo dieci minuti d'aria. Paglione e coperta ci venivano tolti alle sei del mattino e riconsegnati alle sette di sera. Il vitto era dimezzato e guai se ci azzardavamo a chiedere un mescolo di sbobba in più, la risposta che ci veniva data era “non siamo all'albergo ma alle celle di punizione”.
Tre giorni alla settimana il vitto consisteva in 200 grammi di pane e acqua. Fumo e qualsiasi lettura erano proibiti. Preciso anche che per sfregio ci rapavano i capelli a zero. A mezzanotte portarono nella cella un altro mio compagno, il quale piangeva e aveva numerosi lividi sul viso e sul corpo. Costui ci raccontò che a metà strada tra Mamone e Nortiddi le guardie si fermarono in aperta campagna e ordinarono di baciare i gradi del maresciallo. Lui si rifiutò e venne malmenato. Io per protesta agli abusi subiti senza motivo, rifiutai il cibo per due giorni, venne il dottore che mi chiese la ragione dello sciopero della fame, gli spiegai, e ordinò in mia presenza al capoposto che sotto la sua responsabilità non mi dovevano dare da mangiare per cinque giorni. Dopo qualche giorno sentii nella cella a fianco della mia, che un mio compagno si era tagliato e aveva ingerito una scheggia di vetro, gridava di voler essere visitato, ma il brigadiere e le guardie dissero: “sei un bastardo, e anche se crepi non ce ne frega niente”. Il dottore venne a visitarlo dopo dieci giorni dopo l'accaduto, e per cura ordinò quindici giorni a dieta di riso e una patata suddivisa in quindici giorni. In queste condizioni trascorremmo trentadue lunghi giorni, che ci distrussero moralmente e fisicamente, finché una sera ci chiamò il direttore dicendoci che ci sospendeva i restanti due mesi di punizione. Fummo ricondotti a Mamone in condizioni estremamente pietose, tanto che i nostri compagni non ci riconoscevano. Anche al carcere centrale di Mamone le nostre pene non finirono, segnavamo visita medica e il medico ci prendeva in giro. Cito vari esempi: un nostro compagno di nazionalità austriaca, che durante la rivolta di San Vittore ricevette un colpo di sbarra sul bicipite destro, accusava ancora forti dolori, andò dal medico che gli prescrisse sale amaro. Un altro detenuto, che durante la rivolta di San Vittore prese un calcio nei testicoli, andò dal dottore e per cura gli prescrisse quindici giorni di cella di punizione dicendo che aveva richiesto la visita medica senza reale bisogno e necessità.
Casi simili ne accaddero molti. Cercammo di denunciare all'esterno tutti gli abusi che subimmo ma fu impossibile. Finché il M. U. fu liberato, si recò alla procura ed espose denuncia sulle varie sevizie subite. Voglio precisare che allorquando mancavano cinque giorni alla liberazione del M. U., il direttore gli disse: “ti concedo di poter girare liberamente per i prati della colonia affinché tu possa riprendere un buon colorito respirando aria buona”. Il M. U. rifiutò.
Il nostro pellegrinaggio si concluse dopo sei mesi col ritorno a San Vittore, dove fummo di nuovo rinchiusi nelle celle di rigore. Racconto questi fatti a lei perché denunci all'opinione pubblica queste azioni veramente delittuose commesse dai “tutori dell'ordine”, protetti dalle divise e all'ombra della legge. Io non posso firmare questa dichiarazione perché solo io so cosa ho sofferto e quante botte ho preso, comunque ogni mia parola può essere verificata con l'inchiesta che il procuratore di Nuoro ha promosso.