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facciamola finita con la militanza

Questo scritto non e' una critica a nessuno in particolare, piuttosto un tentativo di ispirare qualche pensiero sulle sfide che ci aspettano nel caso fossimo veramente intenzionati a farla finita con questo sistema sociale.

Un militante e' qualcuno che principalmente si ritiene parte di una comunita' piu' ampia di, appunto, militanti. Egli si identifica per cio' che fa e per cio' che pensa nella sua vita come un altra persona, si identifica come dottore o insegnante, e cio' diventa una parte essenziale dell'immagine che ha di se'.

L'attivista e' un esperto del cambiamento sociale.

Se credi di essere un militante (o attivista) vuol dire che credi di sentire piu' di altri il bisogno di un cambiamento sociale, credi di sapere piu' di altri come raggiungere questo cambiamento, di essere nella parte che si da' da fare praticamente per ottenerlo. La militanza come tutti i ruoli ha la sua base nella divisione del lavoro.
Questa divisione e' la base della presente societa'. Gli esperti proteggono gelosamente le capacita' che sono loro monopolio.
Questa divisione vuol dire che molti rinunciano ad un compito che viene delegato ad alcuni. Il militante, ritenendosi esperto di sovversione, crede che le altre persone non facciano niente per cambiare le cose e sente la responsabilita' di cambiare lui stesso la societa'. L'attivista crede di tappare i buchi dell'inoperosita' altrui. Pensare di essere attivisti vuol dire credere che cio' che portera' al cambiamento dell'assetto sociale sono le nostre azioni , cosi' facendo si spregia l'opera di milioni di non-attivisti, scordandosi che la lotta di classe avviene ogni minuto.

Il ruolo di attivista e' quella strana forma psicologica con la quale ci relazioniamo agli altri. Una vera rivoluzione necessitera' di farla finita con tutti i ruoli, di riappropriarsi della vita. La militanza potra' benissimo portare al danneggiamento e forse anche alla chiusura di qualche azienda, ma per chiudere con il capitalismo non basta semplicemente estendere questa attivita' ad ogni settore (CON OGNI AZIENDA).
Per esempio quando gli animalisti attaccano i negozi di macellai nella loro campagna contro il massacro di animali negli allevamenti, aiutano probabilmente il moltiplicarsi dei centri commerciali e supermercati vari... Questo esempio e' un indicazione di come attaccare il capitale richiedera' piu' di un cambiamento quantitativo (piu' azioni, piu' militanti) ma piuttosto un cambiamento qualitativo, cioe' dovremmo trovare nuovi modi di intervenire. Pensando in termini di "attivismo" e di una "campagna" contro qualcosa crediamo che basti fare un azione contro il capitalismo (o mille) per indebolirlo, ma questa e' una pratica inadeguata.

L'Internazionale Situazionista sviluppo' una acuta critica dei ruoli e particolarmente del ruolo delmilitante. Questa critica era principalmente diretta verso la sinistra di allora, oggi si adatta di piu' all'attivista no-global ecc... Colui che si affida al ruolo ha a che fare con la non-autenticita'; riducendo la vita a cliche', vivendo nella scelta di modelli stereotipati. La supposta attivita' rivoluzionaria dei militanti e' una sterile routine, una costante ripetizione di poche azioni che non portano a nessun cambiamento. Probabilmente i militanti resisterebbero al vero cambiamento se esso arrivasse, un vero cambiamento porterebbe disordine nella loro piccola nicchia confortevole di agibilita' politica.

Proprio come i capi dei sindacati. Se tutti (o tanti) diventano rivoluzionari, come farete a sentirvi cosi' speciali? E' facile fare i militanti perche' questo ricade nei ruoli previsti dalla societa' e non la sfida, e' una forma concessa di dissenso, di opposizione. Anche quando vengono compiute cose illegali, la forma-attivismo in se -il ruolo- significa comunque che c'e' un'accettazione del funzionamento della societa', ci saranno sempre i dissidenti...no?

Questo non ha niente a che vedere con la vera rivoluzione che significa riprendersi la vita, riprendere se stessi. Il vero potere del capitalismo non e' soltanto la' fuori (nella City) ma nella sua influenza sulla nostra vita di tutti i giorni, perche' il capitalismo e' una relazione sociale tra classi, e quindi tra persone.
Nell'attivismo c'e' molta separazione perche' non combatte per se stesso ma per una causa:"tutte le cause sono ugualmente inumane" dobbiamo combattere per noi stessi!

Non si puo' mettere la "politica" in un contenitore separato dalla nostra vita, fare attivita' dalle 9 alle 5 e poi a casa, dobbiamo sempre vivere in un certo modo, al diavolo la politica...
Parte dell'essere rivoluzionari significa anche sapere quando fermarsi e aspettare. E' importante sapere quando colpire e fare il massimo danno e quando non fare niente. Gli attivisti hanno l'ideale di agire ora (tutto e subito), questo e' in grande parte dovuto al senso di colpa e all'idea del sacrificio, un idea del tutto contraria alla tattica rivoluzionaria. Il senso di auto-sacrificio dei militanti e' riflesso nel loro "potere" sugli altri, in quanto esperti: come in una religione c'e' una sorta di gerarchia del sacrificio; la "dittatura del piu' impegnato", si usa la morale per forzare i meno esperti nella teologia della sofferenza. Il militante con senso di sacrificio e' un grande "dispregiatore della vita... partigiano di un mostruoso ascetismo". Colui che si sacrifica e' offeso e indignato quando vede che altri non fanno altrettanto. Nella vecchia cosmologia religiosa il martire andava in paradiso, nella visone del mondo moderno il martire politico (se ha successo) va nella storia; il paradiso borghese.

Nella comunita' degli attivisti odierni l'azione prevale sulla teoria, e' un feticcio a cui si inneggia perche' nessuno ha la voglia e la capacita' di sviluppare una riflessione, in qualsiasi modo. Nella sinistra questa riflessione, teoria, viene dai capi, quelli che pensano, gli altri agiscono seguendo la linea del PARTITO.

Il ruolo dell'attivista e' una separazione auto-imposta da tutta la gente con cui invece dovremmo legarci.
Isolandosi nella comunita'-attivista ci separiamo dal resto della razza umana come se fossimo speciali o differenti. Ci troviamo a fare cose per la ristretta comunita' militante invece che per la classe. Quando si sentono discorsi sullo "stringere contatti", si intende stringere contatti con altri militanti, non con il popolo! Non sto dicendo che questo e' sbagliato, ma per fare seriamente quello che c'e' da fare non bastera' unire tutti i militanti del mondo intero, e neanche raddoppiarne il numero.
Contrariamente a quanti molti pensano, non e' che se ci sono sempre piu' militanti ci avviciniamo alla rivoluzione. La rivoluzione non si fa convincendo sempre piu' gente a diventare "politici".
Vaneigem disse "La rivoluzione viene fatta tutti i giorni, nonostante gli specialisti della rivoluzione".

Jacques Camatte nel suo saggio "Sull'organizzazione" fece presente in modo FURBO che i gruppi politici tendono a diventare delle gangs in cui si richiede una priorita' di fedelta' al gruppo prima che alla creazione del cambiamento sociale. Cosi' il gruppo sostituisce la classe e la salute e crescita del gruppo e' prioritaria rispetto alla lotta. Fare la rivoluzione diventa sinonimo di "costruire il movimento". Questa e' una comunita' illusoria, opposta a quella vera, quella proletaria.
L'attivismo riproduce le strutture della societa' nel suo modo di agire, pensando che stiamo agendo per un bene superiore (invece che per il nostro) facciamo penetrare unospirito autoritario dentro di noi.
Non si puo' combattere l'alienazione con mezzi alienati.
Questa e' una modesta proposta per sviluppare modi di agire che siano adeguati alle nostre idee radicali.

Questa impresa non sara' facile e anche chi scrive non ha una visione chiara di come potrebbe succedere una cosa del genere. Insomma un tentativo di rompere con i modi vecchi e previsti di fare le cose. Rompere con la routine. L'attivismo in parte e' una prassi obbligata su di noi a causa della nostra debolezza, se in caso e' davvero cosi' forse non sappiamo neanche rompere con il ruolo dell'attivista perche' coloro che continuano a lavorare per la rivoluzione sociale in tempi di pace sociale diventano effettivamente un gruppo marginale e finiscono per vedersi cosi'. In ogni caso lavorare per un escalation nella lotta, necessariamente vorra' dire rompere con il ruolo dell'attivista.
Costantemente provare a spingere i nostri limiti oltre.

POSCRITTO

Le conclusioni raggiunte sono il punto di partenza per questo. Se e' vero che il capitalismo e' una relazione sociale basata sulla produzione e sui rapporti tra le classi, allora quali sono le implicazioni che questo ha sulla nostra attivita' e sul metodo per attaccare?

L'idea iniziale che ha ispirato questo scritto e' stata che c'era qualcosa di scontato nell'indire una giornata di azione contro il capitalismo. Si notava cioe' una somiglianza nel nostro comportamento con quello di attivisti “liberal” che si muovono su di una causa singola, specifica. Come se combattere il capitalismo fosse niente piu' un'altra tra le tante cause parziali. Ho poi assimilato l'attivista dei giorni nostri con la critica che Vaneigem faceva del militante di sinistra ai suoi tempi, come risultato molte parti sono forse un po' troppo dure e inaccurate nei riguardi del nostro movimento dell'azione diretta.

La critica situazionista e' forse piu' appropriata quando diretta al burocrate del partitino di sinistra, o al gruppuscolo extraparlamentare che al tipo di gente che stava dietro a cose tipo il J18 (carnival aganist capital). Al contrario nei riguardi degli attivisti di oggi e' forse piu' calzante una critica al loro lifestylism, il modo di vivere inteso come attivita' politica; le tendenze “controculturali”. Nell'articolo sono pero' legati insieme due aspetti; uno oggettivo (in che situazione sociale ci troviamo? Quali forme di azione sono piu' appropriate?) ed uno soggettivo (perche' ci sentiamo attivisti? Possiamo cambiare il modo in cui pensiamo a noi stessi?). Non e' tanto il fatto che il soggettivo copre l'oggettivo quanto il fatto che molti problemi reali della lotta derivano da questa mentalita' di attivisti. L'articolo vuole semplicemente suggerire che dovremo essere capaci a rimuovere un illusione che e' un impedimento, e muovere in avanti sfidando la situazione per cominciare ad agire in modo piu' efficace.

RIVOLUZIONE NELLA TESTA

La esagerata sottolineatura della critica al soggettivo ha portato parecchi a non riconoscere qual era l'impeto originario dietro al pezzo. Questo impeto iniziale forse e' stato anche chiarito in modo insufficiente, perche' molti sembra che abbiano preso l'articolo come un qualcosa che aveva a che fare con la salute psicologica degli attivisti. Non era nelle intenzioni di chi l'ha scritto, invece, dare consigli sulla salute psicologica o fare esercizi di terapia radicale.
L'intenzione principale era quella di riflettere sulla nostra attivita' collettiva, cosa stiamo facendo e come potremo farlo meglio.

La ragione per cui “facciamola finita con la militanza” era cosi' interessato all'immagine mentale che gli attivisti hanno di se non era perche' si credesse che cambiando di mentalita' allora tutto sarebbe ok, ma perche' su cio' che viene fatto non c'e' molto da dire perche' non e' ben chiaro a nessuno che nuova forma far prendere alle attivita' anticapitalistiche per farle essere piu' appropriate. Almeno non nella situazione attuale. Anche se il titolo dice “facciamola finita con la militanza” non si intendeva con questo suggerire alla gente di smettere di sabotare i campi di o.g.m., scontrarsi con la polizia, attaccare i potenti. Quello che e' da mettere in questione e' cio' che pensiamo di stare facendo mentre facciamo queste cose, il modo in cui ci concepiamo all'opera; non le cose in se stesse. Certo e' che credere di appartenere ad una minoranza staccata dalle masse non e' un errore, e' la verita'. Il problema e' quando si e' contenti di questo, quando ci si identifica con il ruolo e si ritiene che le cose vadano bene cosi'. Essere contenti di rappresentare una minoranza radicale, speciale.

Appariamo come una strana sottocultura senza speranza di essere visti come qualcosa di altro, comunque potremmo fare qualcosa per spostarci da questa situazione. Dovremmo essere insoddisfatti della nostra posizione attuale e dovremmo cercare di generalizzare la lotta e creare le condizioni perche' i rapporti di forza nella societa' possano cambiare.
Farla finita con la mentalita' da attivista e' una cosa necessaria per questo. Necessaria ma non sufficiente.
Anche se il pezzo non suggeriva niente riguardo al tipo di cambiamentoche e' necessario nell'atteggiamento degli attivisti magari adesso e' il momento di dire qualcosa a riguardo.

Come possiamo portare la “politica” fuori dalla sua separatezza, facendola smettere di essere una causa esterna alla quale ci dedichiamo? Molte critiche agli attivisti si basano su argomentazioni simili. Il capitalismo e' basato sul lavoro. Molte delle nostre lotte contro il capitalismo non si basano sul lavoro che esso ci impone ma al contrario sono una cosa che facciamo aldila' del tipo di lavoro nostro, o meglio, la maggior parte di noi non lavora. Le nostre lotte non sono basate su richieste materiali e sembrano campate in aria, arbitrarie. Le nostre azioni non hanno grandi legami con le lotte che si sviluppano nella societa' tra diseredati e potenti. Trattiamo il capitalismo come qualcosa di esterno, ignorando la nostra relazione con esso. Il capitalismo non e' solo le banche o le finanziarie ma principalmente esso e' un rapporto tra le classi. Il nostro atteggiamento sembra quello di outsiders che decidono cosa fare arbitrariamente. La nostra lotta e' slegata dal nostro rapporto col capitale.

Le persone che fanno parte del nostro movimento occupano posizioni marginali nel sistema produttivo: siamo studenti, disoccupati, lavoriamo in lavori temporanei o part time.
Viviamo piu' nel mondo del consumo che in quello della produzione. Quello che il nostro movimento possiede come bagaglio di lotta non deriva dal fatto che tutti lavoriamo nelle stesse condizioni o viviamo negli stessi quartieri, ma e' semplicemente un impegno basato su adesione intellettuale a delle idee. L'attivismo che e' stato criticato lo e' stato principalmente perche' non e' una lotta collettiva e di massa basata sul ruolo degli sfruttati nella produzione; e cioe' come si e' sempre visto lottare e fare le rivoluzioni. La sorta di lotte che sconvolgono l'esistenza sono quelle basate sui bisogni diretti, le necessita' del vivere quotidiano e che minacciano il capitale nelle sue reali posizioni di potere. So che non e' giusto criticare il movimento d'azione diretta per non essere quello che non ha mai dichiarato di voler essere ma le rivoluzioni sono avvenute seguendo certi principi (almeno quelle vere), e se questo non succede? Nessuno ha una risposta pronta.

UNA MINORANZA RUMOROSA

Quindi dobbiamo cominciare a riflettere su questa domanda: che cosa dobbiamo fare come minoranza radicale per creare la rivoluzione in tempi non rivoluzionari?
Secondo me abbiamo due opzioni possibili.
La prima e' riconoscere che come piccola frazione di radicali possiamo avere scarsa influenza sulla societa' e che se e quando si verifichera' un sommovimento rivoluzionario non avremo probabilmente niente a che fare con la faccenda. Per cui in attesa del grande giorno le cose migliori da fare sono continuare ad agire in modo radicale, cercare di spingere le cose nella direzione giusta e cercare di portare piu' gente possibile dalla nostra parte, rassegnandoci comunque a rimanere una minoranza, una “scena” tra le tante che esistono nella societa'. Fare la parte del dito nella diga, cercare di non far peggiorare le cose, colpire i punti deboli del sistema, sviluppare le nostre teorie, cercare di vivere in modo ecologicamente sostenibile e lottare per conservare tutto cio' nel lungo periodo. E magari un giorno eventi fuori dal nostro controllo porteranno ad una radicalizzazione e noi potremo contribuire con le nostre capacita' sviluppate nella nostra sottocultura (sia capacita' costruttive, che distruttive).

BELLO eh? Peccato che sembra una delle cose peggiori dell'approccio marxista alla questione: determinismo ecc… I marxisti pensavano che la rivoluzione sarebbe accaduta (!) quando le condizioni oggettive tra le forse in conflitto nella societa' fossero arrivate a sufficiente maturazione, cosi' da far passar la rivoluzione come un evento che non ha quasi bisogno dell'intervento e della volonta' umana.
Aspettare seduti che il cadavere del proprio nemico…eh?. La logica conclusione di un ragionamento del genere e' che si trasforma il non fare niente in un principio di guida politica, cosa che molti gruppi della super-sinistra hanno fatto.

L'alternativa a questo scenario e' cominciare a pensare a come invertire la rotta delle mazzate, a come creare potere di classe ostacolando l'atomizzazione sociale e la disgregazione delle comunita' umane.
Negli ultimi 20 anni il panorama sociale e' cambiato parecchio. La “ristrutturazione” ha isolato e diviso le persone. Bisogna ricomporre la perduta unita' di classe e invece di aspettare per dei rivolgimenti, crearli. Probabilmente finiremo a fare molte delle stesse cose che facciamo adesso, ma in un altro modo. Andare verso gli sfruttati.
Lasciamo perdere le nostre masturbazioni quotidiane e chiediamoci: come stanno resistendo oggi i lavoratori al capitale?

Perche' effettivamente in qualche modo e' certo che lo stanno facendo.
Quali opportunita' gia' pronte per una radicalizzazione dello scontro sono presenti in queste forme di resistenza lontane dalle nostre azioni?
Quali coordinamenti, alleanze ecc… gia' stanno sorgendo tra la “gente comune”?
Il sistema sta provando a ributtare indietro l'orologio della storia, vogliono tornare a giorni di privazioni e austerita' (per noi e basta e' ovvio) e la classe e' cosi' divisa e indebolita da venti anni di attacchi che non sara' facile difendersi. Solo il tempo dira' se avranno successo nei loro tentativi o se noi l'avremo nei nostri.
In conclusione, la miglior cosa da fare sarebbe: mantenere in ogni caso il nostro radicalismo e la nostra pratica dell'azione diretta, non avere paura a impegnarsi come minoranza, ma al tempo stesso cogliere ogni occasione possibile per rendere praticabile la nostra metodologia alla gente nelle lotte quotidiane degli sfruttati, rifiutando la logica che ci vuole divisi, noi da una parte e l'esercito dei diseredati da un'altra. Solo l'unione ci fara' vincere.