RESURREZIONE.
Allora Pietro si fece avanti a dirgli: "Signore, sino a quante
volte debbo perdonare al mio fratello, se egli pecca contro di me? Fino a sette?".
E Gesù a lui: "Non ti dico sino a sette, ma sino a settanta volte
sette".
MATTEO, capitolo 18, versetti 21-22.
A che poi osservi tu il fuscello nell'occhio del fratello tuo,
e non scorgi la trave, che sta nel tuo occhio?
MATTEO, capitolo 7, versetto 3.
Chi di voi è senza peccato scagli il primo una pietra contro
di lei.
GIOVANNI, capitolo 8, versetto 7.
Nessun discepolo è da più del maestro; ogni scolaro
ben formato sarà come il suo maestro.
LUCA, capitolo 6, versetto 40.
PARTE PRIMA.
1.
Invano gli uomini, ammucchiati a centinaia di migliaia in un piccolo spazio,
si sforzavano di isterilire la terra su cui vivevano, invano la ricoprivano
di pietre affinché nulla vi crescesse; invano strappavano anche il più
piccolo filo d'erba e affumicavano l'aria col carbon fossile e la nafta; invano
tagliavano alberi e scacciavano animali e uccelli. La primavera era sempre primavera,
anche tra le mura della città. Il sole scaldava, l'erba, dove non la
raschiavano, cresceva d'un bel verde vivido; e cresceva non solo nelle aiuole
dei viali, ma anche fra le lastre di pietra. I pioppi, le betulle, i pruni stendevano
le loro foglie vischiose e profumate, i tigli si gonfiavano di gemme pronte
a schiudersi. Come sempre in primavera, le gracchie, i passeri e i colombi preparavano
lietamente i loro nidi, e le mosche, riscaldate dal sole, ronzavano sulle pareti.
Le piante, gli uccelli, gli insetti e i bambini erano lieti. Soltanto gli uomini
- i grandi, gli adulti - continuavano a ingannare e a tormentare se stessi e
gli altri. Gli uomini, che non apprezzavano né quel mattino di primavera
né quel divino splendore dell'universo creato per il bene dei viventi
e per predisporli tutti alla pace, alla concordia e all'amore; gli uomini, che
consideravano sacro e importante soltanto ciò che essi stessi avevano
inventato per dominar gli uni sugli altri.
E così, nell'ufficio del carcere provinciale, il fatto ritenuto sacro
e importante non era che a tutti, animali e uomini, fosse concessa la divina
gioia della primavera; consisteva in questo, invece: la vigilia era giunta in
quell'ufficio una carta bollata e numerata, con l'ordine di condurre in tribunale,
la mattina del giorno successivo, 28 aprile, alle ore nove, tre detenuti - due
donne e un uomo - che si trovavano in attesa di giudizio. Una, la principale
imputata, doveva esservi condotta separatamente.
Appunto in osservanza a quell'avviso, il 28 aprile mattina, alle otto, un vecchio
carceriere entrò nel corridoio oscuro e fetido del reparto femminile.
Subito dopo comparve anche la carceriera della sezione, una donna dal viso affaticato
e dai capelli grigi, che indossava una camicetta con le maniche ornate di galloni
e una cintura filettata in azzurro.
- Cercate la Màslova? - domandò, e si avvicinò con lui
a una delle porte che davano sul corridoio.
Il carceriere, con un rumore di ferracci, introdusse una chiave nella serratura
della porta, che nell'aprirsi lasciò uscire un lezzo ancor più
fetido di quello del corridoio; poi gridò: - Màslova, in tribunale!
- E, richiusa la porta, rimase ad aspettare.
Persino nel cortile della prigione si respirava l'aria fresca e vivificante
dei campi, portata dal vento in città. Ma in quel corridoio l'aria era
opprimente, mefitica, impregnata dell'odore di escrementi, di catrame e di marcio.
Nessuno poteva respirarla senz'essere subito preso da un senso di scoraggiamento
e di tristezza. Anche la sorvegliante, per quanto ci fosse abituata, ne rimase
colpita. Era venuta dal cortile e, appena entrata nel corridoio, s'era sentita
stanca e sonnolenta.
Nella camerata s'udiva un gran tramestio: voci di donne e passi di piedi scalzi.
- Su, fa' in fretta, Màslova, spicciati! - gridò il vecchio carceriere
attraverso la porta.
Poco dopo, una donna giovane, non alta, e dal petto rigoglioso, uscì
dalla camerata con passo deciso; sotto una casacca grigia indossava una camicetta
e una gonna bianche.
Aveva calze di tela e scarpe grossolane da detenuti; un fazzoletto bianco, annodato
intorno al capo, lasciava sfuggire, evidentemente a bella posta, ciocche ondulate
di capelli neri. Il volto della donna aveva quel pallore caratteristico di chi
è vissuto a lungo in reclusione, che ricorda i germogli delle patate
in cantina. Avevano lo stesso colore anche le mani, piccole e larghe, e il collo
bianco e pieno che usciva dall'ampio colletto della casacca. Spiccavano su quel
volto, soprattutto in contrasto col pallore opaco del viso, gli occhi nerissimi,
splendenti, un po' gonfi ma molto vivaci, uno dei quali leggermente strabico.
La donna si teneva eretta, sporgendo il petto pieno.
Uscita nel corridoio guardò dritto il carceriere negli occhi, piegando
un poco il capo, e si fermò pronta a ubbidire a ogni richiesta. Il carceriere
stava per richiudere l'uscio, quando sulla soglia si affacciò il volto
pallido cupo e rugoso di una vecchia dai capelli bianchi e a testa scoperta.
Questa cominciò a dir qualcosa alla Màslova; ma il carceriere
le sbatté la porta in faccia e chiuse con rumore. Nella camera scoppiò
una risata di donna.
Anche la Màslova sorrise e si voltò verso un finestrino a sbarre
praticato nella porta. La vecchia, dall'interno aveva appiccicato il viso all'apertura
e diceva con voce rauca:
- Soprattutto non parlar troppo, tieni duro su un punto e basta!
- Uno o due, che importa? Peggio di così non può andare! - rispose
la Màslova, scuotendo la testa.
- Ma se è uno, non è due, - osservò il vecchio carceriere,
con autoritaria fiducia nella propria arguzia. Seguimi. Avanti.
L'occhio della vecchia scomparve dal finestrino, e la Màslova avanzò
nel corridoio, seguendo il vecchio guardiano a passi piccoli e rapidi.
Scesero la scala di pietra, passarono davanti alle camerate degli uomini, ancor
più fetide e rumorose di quelle delle donne, seguiti ovunque da occhi
curiosi che spiavano attraverso i portelli. Giunsero infine nell'ufficio della
prigione.
Due soldati di scorta, armati di fucili, erano già li ad attendere la
detenuta. Uno scrivano consegnò a uno dei soldati una carta impregnata
di fumo di tabacco e additando la detenuta disse: - Prendi. - Il soldato, un
contadino di Nizni-Nòvgorod dal viso rosso segnato dal vaiolo, introdusse
la carta nel risvolto della manica del cappotto e ammiccò maliziosamente
al compagno, un ciuvasci dai larghi zigomi, guardando la detenuta. I soldati
e la prigioniera scesero la scala e uscirono da un portello dell'ingresso principale.
Attraversarono il cortile, varcarono il recinto e si trovarono sul selciato
delle vie della città. I cocchieri, i bottegai, le cuoche, gli operai,
gli impiegati si fermavano a guardare con curiosità la detenuta; qualcuno
scuoteva il capo pensando: - Ecco a che cosa conduce una cattiva condotta! A
me non capiterebbe di certo -. I bambini guardavano la delinquente con orrore,
ma li rassicurava la vista dei due soldati, i quali le avrebbero impedito di
nuocere.
Un contadino dei sobborghi, che vendeva carbone, uscì dalla trattoria
dove aveva bevuto il tè, si avvicinò alla donna e le porse una
copeca, segnandosi.
La detenuta arrossì, chinò il capo e mormorò qualcosa.
Sentendo gli sguardi fissi su di sé, ella, senza voltarsi, osservava
con la coda dell'occhio la gente che la guardava passare, lieta di richiamare
tutta quell'attenzione. Assaporava la dolcezza dell'aria primaverile, dopo l'atmosfera
malsana della prigione, ma le era penoso camminare sui sassi, poiché
i suoi piedi si erano disabituati al moto ed erano appesantiti dalle scarpe
grosse della prigione. Guardava dove metteva i piedi e cercava di muoversi più
leggermente che poteva. Davanti a una bottega di farine, alcuni colombi si dondolavano
indisturbati; nel passare, la detenuta sfiorò col piede un bel piccione
turchino. L'uccello volò via e rasentò l'orecchio della detenuta,
muovendo l'aria attorno. Lei sorrise, e poi sospirò profondamente, ricordandosi
della sua condizione.
2.
Una storia delle più comuni, quella della detenuta Màslova. Era
figlia di una contadina che viveva aiutando sua madre a custodire le vacche
di una fattoria, di proprietà di due sorelle nubili. Quella contadina,
non maritata, ogni anno partoriva un figlio. Come succede spesso nelle campagne,
i neonati ricevevano il battesimo, ma poi la madre non li nutriva, con la scusa
che non li aveva desiderati, che erano inutili e la impacciavano nel lavoro.
Sicché alla fine morivano di fame. Già cinque figli se n'erano
andati a quel modo. Avevano tutti ricevuto il battesimo, poi la madre non li
aveva nutriti, ed erano morti. Il sesto neonato, concepito da uno zingaro di
passaggio, fu una femmina, e la sua sorte sarebbe stata la medesima, se per
caso una delle due vecchie signorine non fosse andata nella stalla a rimproverare
le mungitrici perché la panna sapeva di mucca. Nella stalla giaceva la
puerpera, e aveva al fianco una creaturina bellissima e piena di salute. La
vecchia signorina sgridò le domestiche, sia per la panna, sia per aver
permesso alla donna di partorire nella stalla. Ma sul punto di uscire, scorgendo
la neonata, il suo cuore si intenerì, tanto che essa si offrì
di farle da madrina.
Tenne dunque a battesimo la piccola, e poi, mossa a pietà dalla figlioccia,
fece dare alla madre del latte e qualche soldo. La bambina rimase in vita, e
le vecchie signorine la chiamarono "la salvata".
Quando la bimba ebbe tre anni, sua madre si ammalò e morì. E siccome
per la nonna la nipotina era un gran peso, le vecchie signorine raccolsero l'orfanella.
Coi suoi occhi neri, la bambina era straordinariamente vivace e graziosa: una
consolazione per le due vecchie.
La più giovane delle due, la madrina, si chiamava Sòfia Ivànovna,
ed era anche la più indulgente, mentre l'altra, Mària Ivànovna,
era più severa. Sòfia Ivànovna vestiva bene la bambina,
le insegnava a leggere, e avrebbe voluto adottarla. Mària Ivànovna
diceva invece che bisognava insegnarle un mestiere; voleva farne una cameriera,
e si mostrava esigente. Puniva la bambina, e talvolta, nei momenti di cattivo
umore, la batteva.
Cresciuta fra questi due influssi, la bimba divenne qualcosa di mezzo fra la
domestica e la pupilla. Il nome stesso che le diedero corrispondeva al suo stato:
non la chiamavano Katka e neppure Kàtienka, ma Katiuscia (1). Cuciva,
rassettava le camere, puliva col gesso le immagini sacre, friggeva, macinava,
serviva il caffè, faceva piccoli bucati, e qualche volta teneva compagnia
alle signorine e leggeva ad alta voce. Era stata chiesta più volte in
matrimonio, ma lei aveva sempre rifiutato. Sentiva che l'esistenza le sarebbe
stata difficile, sposando un operaio qualsiasi, abituata com'era agli agi di
un'esistenza signorile.
Arrivò così ai sedici anni. Li aveva appena compiuti quando le
due signorine ricevettero la visita di un loro nipote studente, un principe
assai ricco. Katiuscia s'innamorò di lui, ma non l'avrebbe mai confessato
a nessuno, nemmeno a se stessa. Trascorsi altri due anni, il medesimo giovane,
di passaggio per andare alla guerra, si fermò nuovamente in casa delle
zie. Il terzo giorno, alla vigilia della sua partenza, sedusse Katiuscia. Partì
dopo averle fatto scivolare in mano un biglietto da cento rubli. Cinque mesi
dopo, lei sapeva per certo di essere incinta. Da quel momento la vita le divenne
uggiosa. Non pensava ad altro che al modo di sottrarsi alla vergogna che l'aspettava.
Serviva le signorine male, svogliatamente; a volte perdeva il controllo, diceva
sgarberie di cui poi si pentiva, chiese che le regolassero il salario.
Le signorine, assai scontente di lei, la licenziarono.
Lasciatele, si alloggiò come domestica in casa di un commissario, ma
non vi poté restare più di tre mesi, perché il suo padrone,
un vecchio cinquantenne, cominciò ad importunarla. Un giorno, in cui
egli si mostrò particolarmente intraprendente, Katiuscia si senti ribollire
di collera, lo chiamò stupido e vecchio demonio e gli diede un tale spintone
nel petto da farlo cadere. A causa di ciò la scacciarono. Ormai non era
più il caso di trovare un altro posto, giacché presto avrebbe
dovuto partorire.
Si stabilì in casa di una vedova, che teneva una bettola e faceva la
levatrice. Il parto fu facile. Ma la levatrice, curando una contadina in un
villaggio vicino, contagiò Katiuscia di febbre puerperale. Il neonato,
un maschio, fu portato all'ospizio dove morì subito, come raccontò
la vecchia che ve l'aveva portato.
Katiuscia, prima di ammalarsi, possedeva centoventisette rubli: ventisette guadagnati,
e cento che le aveva dato il suo seduttore. Quando lasciò la casa della
levatrice, gliene rimanevano soltanto sei. Non sapeva conservare il denaro,
sia che ne spendesse per sé, sia che ne desse a chi glielo chiedeva.
La levatrice le aveva preso quaranta rubli per due mesi di pensione, altri quaranta
glieli aveva chiesti in prestito per comprarsi una mucca, venticinque se n'erano
andati per il bambino. In quanto al resto, le era sfumato così, senza
che ella se ne accorgesse, in vestiti e in regali. Quando Katiuscia fu guarita,
si trovò senza un centesimo, e dovette cercarsi un posto. Le capitò
di collocarsi presso un guardiaboschi. Costui era sposato, ma fin dal primo
giorno, come già il commissario, cominciò ad importunare Katiuscia.
Sebbene questa non lo potesse soffrire e facesse di tutto per sfuggirgli, l'uomo
era più esperto e più furbo di lei; soprattutto era il padrone,
e poteva comandarle qualunque cosa. Riuscì a cogliere il momento opportuno,
e le usò violenza. La moglie non tardò ad accorgersene, e un giorno
che sorprese il marito solo in una camera con Katiuscia, la coprì di
botte. Katiuscia si ribellò, ne nacque un putiferio, e come conseguenza
la ragazza fu scacciata senza neppure ricevere il salario.
Katiuscia andò in città e si stabilì presso una zia. Il
marito della zia faceva il rilegatore e aveva visto tempi buoni. Ma poi, andati
male gli affari, s'era buttato al bere, tanto che spendeva all'osteria tutto
il denaro che gli capitava fra le mani.
La zia teneva una piccola lavanderia, che dava da vivere a lei, ai suoi figli
e al marito ubriacone. Propose alla Màslova di entrare nell'azienda.
Ma osservando quanto fosse dura la vita delle donne che lavoravano per la zia,
la ragazza esitò e preferì rivolgersi ad una agenzia per procurarsi
un posto di domestica. E infatti lo trovò, questo posto, presso una signora
con due figli che frequentavano il ginnasio. Ma una settimana dopo, il maggiore,
uno studentello di sesta ginnasiale che aveva già i baffi, trascurò
lo studio per farle la corte. Non le dava requie. La madre riversò tutte
le colpe sulla Màslova e la scacciò. Altri posti non le capitarono.
Un giorno, nell'ufficio di collocamento, la Màslova incontrò una
signora con le braccia nude e grasse cariche di anelli e di braccialetti. Costei,
quando ebbe saputo che la Màslova cercava un posto e non riusciva a trovarlo,
le diede il proprio indirizzo e la invitò ad andarla a visitare. La Màslova
vi andò. La signora l'accolse affabilmente, le offrì pasticcini
e vino dolce, e spedì via la sua domestica con un biglietto.
La sera Katiuscia vide entrare nella camera un uomo alto, coi capelli lunghi
e brizzolati e con la barba grigia, il quale subito le si sedette vicino. La
guardava con gli occhi lustri e sorridenti, e scherzava con lei. La signora
lo chiamò nella camera attigua, e la Màslova udì che gli
diceva: "E' fresca, viene dalla campagna". Poi la signora chiamò
lei, e spiegò che quel vecchio era uno scrittore, una persona molto ricca
che non avrebbe badato a spese, se l'avesse trovata di suo gradimento. Infatti
essa gli piacque, ed ebbe dallo scrittore venticinque rubli e la promessa di
nuovi convegni. I denari sfumarono in un baleno; Katiuscia pagò la pensione
alla zia e si comprò un nuovo vestito, un cappello e dei nastri. Pochi
giorni dopo lo scrittore la fece chiamare ancora. Lei ci andò. Il vecchio
le diede altri venticinque rubli e la invitò a prendersi un appartamento
ammobiliato.
Trasferitasi in questo nuovo alloggio, la Màslova s'innamorò di
un commesso, un giovanotto allegro che abitava nella medesima casa. Dopo aver
confessato lei stessa la cosa allo scrittore, lasciò l'appartamento e
si trasferì in un altro più piccolo. Ma il commesso, che le aveva
promesso di sposarla, partì improvvisamente per Nizni senza dirle nulla,
con l'intenzione palese di piantarla. La Màslova rimase sola. Avrebbe
voluto tenere ancora quell'alloggio per conto suo, ma non glielo permisero.
Il commissario di polizia le disse che avrebbe potuto vivere a quel modo solo
facendosi dare il biglietto giallo (2) e assoggettandosi alla visita medica.
Allora ritornò di nuovo dalla zia. Costei, vedendole indosso un abito
elegante, mantellina e cappello, l'accolse con rispetto, e non ebbe più
il coraggio di offrirle lavoro nella lavanderia: riteneva che la nipote fosse
salita un gradino più in su nella scala sociale. D'altra parte la Màslova
non pensava neppure più alla possibilità di entrare nella lavanderia.
Commiserava con tutto il cuore le operaie della zia, costrette a condurre quella
vita da galera: pallide donne dalle mani magre, alcune delle quali già
tisiche, a furia di strofinare e di stirare, col vapore di sapone a trenta gradi
e con le finestre aperte d'inverno e d'estate. Inorridiva solo all'idea di poter
entrare anche lei in quell'inferno.
E fu proprio allora che la Màslova, ridotta quasi alla miseria per mancanza
di protettori, capitò fra gli artigli di una mezzana che collocava ragazze
nelle case di tolleranza.
Già da un pezzo la Màslova fumava, ma negli ultimi tempi della
sua relazione col commesso, e dopo che lui l'aveva lasciata, s'era data sempre
più al vizio del bere. Il vino l'attirava non soltanto perché
le sembrava buono, ma soprattutto perché le offriva la possibilità
di dimenticare i suoi guai, perché la rendeva spigliata e le dava la
sensazione di valer qualcosa. Sensazione che normalmente non aveva: senza vino
si sentiva triste e piena di vergogna. La mezzana, dunque, la invitò
a pranzo con la zia, e dopo averla un po' ubriacata, le propose di farla entrare
in una bella casa, la migliore che ci fosse in città, e le fece balenare
davanti agli occhi tutti i vantaggi e i privilegi che vi avrebbe trovato. La
Màslova doveva scegliere; da una parte la condizione umiliante di serva,
in cui di sicuro sarebbe stata esposta agli assalti degli uomini e ai pericoli
di una prostituzione segreta e precaria; dall'altra una posizione sicura, tranquilla
e legale: soprattutto, una prostituzione favorita dalla legge e ben remunerata.
Scelse la seconda via. Le pareva di render così la pariglia all'uomo
che l'aveva sedotta, al commesso e a tutti gli altri che le avevano fatto male.
Ma l'argomento che valse a deciderla fu quello dei vestiti, quando la mezzana
le disse che avrebbe potuto ordinarsi tutti quelli che voleva. Abiti di velluto,
di "faille", di seta. Abiti da ballo, di quelli che lasciano scoperte
le spalle e le braccia. E quando s'immaginò in un vestito di seta giallina,
scollato e guarnito di velluto nero, non seppe più resistere e consegnò
il passaporto (2).
Quella sera stessa la mezzana prese una vettura pubblica e l'accompagnò
in una casa molto nota, la casa della Kitàieva.
Da allora cominciò per la Màslova una vita di violazione incessante
dei comandamenti divini e umani; una vita che migliaia di donne conducono, non
solo con l'autorizzazione, ma persino sotto la protezione del potere governativo,
il quale si preoccupa del benessere dei suoi cittadini; vita che per nove donne
su dieci termina con malattie tormentose, con la vecchiaia precoce e con la
morte.
Di mattina e durante il giorno il sonno pesante, dopo le orge della notte. Poi,
fra le tre e le quattro del pomeriggio, il risveglio stanco fra le coltri sozze;
i lunghi sorsi di selz e di caffè, il pigro ciondolare per le stanze,
in accappatoio o in vestaglia; poi, il bagno, le applicazioni di unguenti e
di profumi
sul corpo e sui capelli, la scelta d'un abito e le discussioni con la padrona,
lo studio delle pose davanti allo specchio, la truccatura del viso e delle sopracciglia,
i cibi grassi e dolci.
Poi l'abito di seta chiara, che mette a nudo il corpo, e l'ingresso in una sala
carica di ornamenti e abbagliante di luce. Poi l'arrivo dei clienti, la musica,
le danze, i dolci, il vino, il fumo e il commercio d'amore con giovanotti e
uomini maturi, coi quasi fanciulli e i vecchi cadenti; con gli scapoli, i coniugati,
i mercanti, i commessi, gli armeni, gli ebrei, i tartari, i ricchi, o poveri,
i sani, gli ubriaconi, i sobri, i rudi, i teneri, i militari, i civili, gli
studenti universitari, gli scolari... Gente di ogni età, ceto e carattere.
E poi grida, burle, baruffe, musica, tabacco e vino, vino, tabacco e musica
fino allo spuntar dell'alba. E solo al mattino la liberazione e un sonno di
piombo. Sempre così ogni giorno, per tutta la settimana. E alla fine
della settimana la visita, imposta dalla legge, alla sezione di polizia, dove
altri uomini, funzionari dello Stato in veste di medici, a volte son seri e
severi, a volte invece si divertono allegramente a calpestare quel pudore che
è dato dalla natura come una difesa contro il male non solo agli uomini,
ma anche alle bestie.
I medici visitavano le donne e poi rilasciavano un certificato che le autorizzava
a continuare per un'altra settimana la stessa vita di colpa, in compagnia dei
loro complici. E le settimane si susseguivano uguali, d'estate come d'inverno,
nei giorni feriali come in quelli festivi.
Così visse la Màslova per sette anni. Due volte cambiò
casa e una volta andò all'ospedale. Nel settimo anno aveva allora ventisei
anni, e ne erano trascorsi otto dal giorno della sua prima caduta - accadde
il fatto che determinò il suo arresto, e che la conduceva ora davanti
alla Corte dopo sei mesi di detenzione fra ladre ed assassine.
NOTE.
NOTA 1: Katka è lo spregiativo di Caterina; Kàtienka ne è
il vezzeggiativo; Katiuscia, il diminutivo.
NOTA 2: Documento personale delle prostitute, alle quali veniva ritirato il
passaporto vigente all'interno della Russia.
3.
Mentre la Màslova, sfinita dalla lunga marcia, si avvicinava con la sua
scorta al palazzo del tribunale, il principe Dmitri Ivànovic' Necliudov,
quello stesso nipote delle sue tutrici che l'aveva sedotta, si svegliava nel
suo gran letto elastico dal soffice materasso di piume. Si sbottonò il
bavero della camicia da notte di candida tela di Olanda a piegoline ben stirate
sul petto, e accese una sigaretta. Guardava assorto davanti a sé, pensando
a ciò che avrebbe fatto nella giornata e agli avvenimenti del giorno
precedente.
Ricordò la serata trascorsa in casa dei Korciaghin, una famiglia ricca
e conosciuta, di cui tutti dicevano che avrebbe sposato la figliola. A quel
ricordo trasse un sospiro, e gettato il mozzicone di sigaretta allungò
la mano a un portasigari d'argento per prenderne un'altra, ma improvvisamente
cambiò idea. Infilò nelle pantofole i piedi bianchi e lisci, si
gettò sulle larghe spalle una vestaglia di seta, e con passo rapido e
pesante entrò nello spogliatoio attiguo alla camera, che era tutto impregnato
dell'odore di lozioni, di acque di Colonia, di pomate, di profumi. Usando una
polverina speciale si spazzolò i denti, parecchi dei quali erano piombati,
si sciacquò la bocca con un liquido profumato, poi si lavò accuratamente
in ogni parte del corpo e si strofinò ben bene con molti asciugamani.
Dopo essersi lavate le mani con una saponetta profumata, si spazzolò
a lungo le unghie che teneva molto lunghe.
In un grande lavabo di marmo si lavò la faccia e il collo, e poi passò
in un'altra stanza dove lo aspettava la doccia. Lo zampillo d'acqua fredda irrorò
il suo corpo bianco e muscoloso, già un po' pingue. Strofinatosi per
bene con un lenzuolo da bagno, indossò biancheria di bucato e infilò
scarpe lucide come uno specchio. Sedette alla toeletta e si pettinò con
due spazzole la barbetta nera e ricciuta e i capelli ondulati, già molto
radi sulla sommità del cranio.
Tutti gli oggetti di cui si serviva per la toeletta, la biancheria, i vestiti,
le scarpe, le cravatte, le spille, i bottoni, erano di primissima qualità:
cose non appariscenti, semplici, solide e costose.
Dopo aver preso fra una dozzina di cravatte e di spille, le prime che gli capitarono
fra le mani - una volta si divertiva a scegliere, ma ora ci aveva fatto l'abitudine
- Necliudov indossò un abito che gli avevano preparato sulla sedia, e
tutto profumato e lindo, sebbene avesse l'aria un po' sciupata, passò
nella sala da pranzo, una stanza oblunga dal pavimento di legno che tre uomini
avevano lustrato il giorno prima. Vi torreggiavano una enorme credenza di quercia
e un tavolo non meno grande e allungabile che aveva un certo che di solenne,
con le sue gambe a forma di zampe di leone, solidamente piantate. Sulla tavola,
coperta da una tovaglia fine e inamidata e con un gran monogramma, si vedevano
una caffettiera d'argento piena di caffè profumatissimo, una zuccheriera
pure d'argento, un vaso di panna bollita e un cestino con panini freschi, fette
tostate e biscotti.
Accanto alla tazza c'era la corrispondenza del mattino i giornali e l'ultima
"Revue des Deux Mondes". Necliudov stava per aprire le lettere quando
dalla porta che dava sul corridoio entrò una donna grossa e anziana,
in lutto, col capo coperto da una acconciatura di pizzo che le nascondeva la
scriminatura un poco irregolare. Era Agrafena Petrovna, la cameriera della madre
di Necliudov, morta da poco in quel medesimo appartamento. Ora svolgeva presso
il figlio le mansioni di governante. Agrafena Petrovna aveva trascorso con la
madre di Necliudov dieci anni all'estero, in periodi diversi, e aveva l'aspetto
e i modi di una signora. Era sempre stata, fin da piccola, in casa di Necliudov
e aveva conosciuto Dmitri Ivànovic' quando ancora lo chiamavano Mìtienka.
- Buongiorno, Dmitri Ivànovic'!
- Buongiorno, Agrafena Petrovna. Che c'è di nuovo? - domandò scherzando
Necliudov.
- Una lettera non so se della principessa o della principessina. L'ha portata
la cameriera già da un pezzo, - disse Agrafena Petrovna, porgendo la
lettera e sorridendo con aria d'intesa.
- Va bene, subito, - rispose Necliudov prendendo la lettera, ma quando vide
il sorriso di Agrafena Petrovna si accigliò.
Il sorriso di Agrafena Petrovna era molto chiaro: sapeva benissimo, lei, che
la lettera era della principessina Korciàghina che, secondo il suo parere,
Necliudov aveva l'intenzione di sposare. Quella supposizione, espressa dal sorriso
di Agrafena Petrovna, gli riusciva sgradevole.
- Le dirò di aspettare. - E Agrafena Petrovna, dopo aver messo al suo
posto una spazzola rimasta sul tavolo, uscì maestosamente dalla sala
da pranzo.
Necliudov aprì la busta profumata che gli aveva portato Agrafena Petrovna
e lesse la lettera, scritta su un foglio di carta grossa e grigia, con una scrittura
angolosa e irregolare ma ben spaziata.
"Adempiendo al dovere che mi sono imposta di sostituire la
vostra memoria, vi ricordo che oggi 28 aprile dovete far parte della giuria
alla Corte d'Assise. Vi sarà perciò assolutamente impossibile
venire con noi e con Kolossòv a visitare la mostra dei quadri, come ci
prometteste ieri sera con la vostra solita leggerezza.
'A moins que vous ne soyez disposé a payer à la Cour d'Assise
les 300 roubles d'amende que vous vous refusez pour votre cheval' (1) per essere
arrivato in ritardo. Me ne sono ricordata ieri sera che eravate appena uscito.
Cercate di non dimenticarvi.
Pr. M. Korciàghina.
L'altra parte del foglio recava un poscritto:
"Maman vous fait dire que votre couvert vous attendra jusqu'à la
nuit. Venez absolument a quelle heure que cela soit (2). M. K".
Necliudov si rannuvolò. Quel biglietto era il seguito dell'abile
trama che già da due mesi la principessina stava tessendo intorno a lui,
allo scopo di impegnarlo definitivamente. E poi Necliudov, oltre all'indecisione
che provano di solito di fronte al matrimonio gli uomini non più giovanissimi
né appassionatamente innamorati, aveva un altro motivo che gli impediva
di impegnarsi. Questo motivo naturalmente non aveva nulla a che vedere col fatto
che dieci anni prima aveva sedotto e abbandonato Katiuscia. Di quel fatto si
era scordato completamente: e certo non avrebbe mai pensato che potesse costituire
un impedimento alle sue nozze.
Si trattava invece d'un vecchio legame con una donna maritata, che egli non
poteva ancora considerare sciolto per l'opposizione di lei.
Necliudov era molto timido con le donne. E appunto questa timidezza aveva fatto
nascere nel cuore della donna il desiderio di conquistarlo.
Moglie del maresciallo della nobiltà del distretto elettorale di Necliudov,
di giorno in giorno lo aveva irretito in una relazione sempre più intima
e odiosa. In un primo tempo Necliudov non aveva saputo resistere alla tentazione;
poi, sentendosi colpevole verso l'amante, non poteva risolversi a rompere senza
il suo consenso.
Questo era dunque il motivo per cui Necliudov non si considerava in diritto,
anche se lo avesse desiderato, di fare la sua dichiarazione alla principessina
Korciàghina.
Sul tavolo c'era per l'appunto una lettera del marito di quella donna. Riconoscendo
la scrittura e il sigillo, Necliudov arrossì. Si sentì preso da
un improvviso impeto di energia, come sempre all'avvicinarsi del pericolo. Ma
la sua agitazione svanì subito. Il marito della donna, maresciallo della
nobiltà del distretto in cui erano i principali possedimenti di Necliudov,
gli scriveva per informarlo che era stata fissata per la fine di maggio un'assemblea
straordinaria del consiglio e lo pregava di non mancarvi, poiché aveva
bisogno di un "coup d'épaule" in due problemi importanti che
si dovevano discutere: il problema della scuola e quello dei binari secondari;
e tanto nell'uno come nell'altro caso c'era da aspettarsi una forte opposizione
del partito reazionario. Questo maresciallo della nobiltà aveva idee
liberali, e con alcuni compagni di fede si batteva contro la reazione che imperversava
sotto Alessandro Terzo. Tutto preso dalla lotta ideologica, non sapeva nulla
della sua disgraziata vita familiare.
Necliudov ricordò le ansie sofferte; ricordò il giorno in cui,
preso dal dubbio che il marito avesse scoperto la tresca, s'era preparato alla
eventualità di un duello, e a sparare in aria. Ricordò un'altra
volta che la sua amante, dopo una scena terribile, era corsa disperata nel giardino
per buttarsi nello stagno, ed egli l'aveva rincorsa.
"Non posso più andare dai Korciaghin e non posso prendere nessuna
decisione finché lei non m'abbia risposto", pensò Necliudov.
Una settimana prima aveva scritto all'amante una lettera risoluta, in cui si
dichiarava colpevole e pronto a qualsiasi sacrificio, ma fermamente deciso,
anche per il bene di lei, a troncare per sempre la loro relazione. Necliudov
aspettava per l'appunto una risposta a quella lettera. Il silenzio della donna
era forse un buon segno. Se non avesse acconsentito alla rottura avrebbe scritto
senza indugio, oppure sarebbe venuta, come altre volte era accaduto. Necliudov
aveva sentito parlare di un certo ufficiale che le faceva la corte, e se da
un lato questo pensiero stimolava la sua gelosia, dall'altro lo consolava dandogli
la speranza di poter evadere da quella menzogna che gli pesava tanto.
C'era un'altra lettera nella posta: veniva dall'amministratore generale dei
suoi beni. Egli scriveva a Necliudov che era assolutamente necessaria una sua
visita in campagna, per la conferma dei diritti di successione e per risolvere
il problema dell'amministrazione: se fosse meglio continuare col vecchio sistema,
come quando viveva la defunta principessa, o non invece aumentare le scorte
e riprendere tutte le terre che erano state affittate ai contadini. L'amministratore
affermava che questa soluzione, permettendo di sfruttare maggiormente la terra,
sarebbe stata assai più vantaggiosa, ed egli l'aveva, a suo tempo, già
consigliata. L'amministratore si scusava poi di avere tardato alquanto a spedire
i tremila rubli che spettavano al principe al primo di ogni mese. La somma sarebbe
stata spedita senz'altro col prossimo corriere; non aveva potuto essere puntuale
perché non gli era riuscito di farsi pagar prima dai contadini, così
poco coscienziosi, che bisognava ricorrere alla forza per costringerli a fare
il loro dovere. Questa lettera riuscì a Necliudov contemporaneamente
gradita e sgradita; gli faceva piacere sentirsi il padrone di un patrimonio
tanto vistoso, gli dava però fastidio ricordare che, ai tempi della sua
prima giovinezza, era stato un seguace entusiasta di Herbert Spencer e, benché
erede di un gran patrimonio terriero, aveva accolto con entusiasmo la tesi,
sostenuta dallo Spencer nella "Statica sociale", secondo cui la terra
non può essere oggetto di proprietà individuale.
Con la dirittura e lo slancio propri della gioventù, egli aveva fatto
sua quella tesi, sulla quale s'era persino laureato. E per convalidare i suoi
principi aveva donato ai contadini una piccola proprietà ereditata dal
padre.
E ora che la morte della madre aveva fatto di lui un grande proprietario, doveva
scegliere fra due alternative: o rinunciare ai suoi beni, come dieci anni avanti
alle duecento "dessiatine" (3) di terra paterna, oppure accettare
il patrimonio, riconoscendo con ciò tacitamente erronee e false tutte
le sue antiche convinzioni.
La prima soluzione era impossibile poiché non avrebbe saputo di che vivere.
Di entrare in servizio non se la sentiva assolutamente, ma neppure di rinunciare
alla vita dispendiosa cui s'era abituato.
D'altronde il sacrificio non sarebbe valso a nulla: aveva perso ormai la forza
della convinzione, la risolutezza, l'ambizione e il desiderio di stupire il
mondo, propri della gioventù.
Ma la seconda soluzione, che consisteva nel rinnegare i principi della "Statica
sociale" di Spencer, non avrebbe mai potuto accettarla. Quei principi,
che Necliudov molto tempo dopo aveva visto brillantemente confermati nelle opere
di Henry George, erano troppo evidenti e inconfutabili. Per questo, dunque,
la lettera dell'amministratore gli riusciva spiacevole.
NOTE.
NOTA 1: A meno che non siate disposto a pagare alla Corte d'Assise i trecento
rubli che avete rifiutato per il vostro cavallo.
NOTA 2: La mamma mi incarica di dirvi che la vostra posata vi aspetterà
fino a notte. Venite assolutamente a qualunque ora.
NOTA 3: La dessiatina equivale a poco più di un ettaro.
4.
Dopo aver bevuto il caffè, Necliudov passò nello studio per vedere,
nella citazione, a che ora avrebbe dovuto essere in tribunale, e per rispondere
alla principessina. Passò prima in una camera che era il suo studio di
pittore, dove si vedeva su un cavalletto un quadro incominciato. Alle pareti
erano appesi parecchi schizzi. La vista del quadro al quale da due anni lavorava
senza costrutto, gli schizzi e tutto l'ambiente acuirono in lui la sensazione
sempre più profonda della sua impotenza, e benché l'attribuisse
a una sensibilità estetica troppo acuta, era comunque un'impressione
sgradevole.
Sette anni prima aveva lasciato l'esercito, convinto di possedere la vocazione
per la pittura, e dall'alto della sua attività artistica aveva considerato
con un certo disprezzo tutte le altre occupazioni. Ma ora capiva di aver peccato
di presunzione e trovava spiacevole ricordarsene. Osservò con un senso
di pena l'arredamento sontuoso della stanza ed entrò nello studio attiguo
in uno stato d'animo tutt'altro che lieto.
Lo studio era una camera molto alta e spaziosa, ricca di ornamenti e di comodità.
In un cassetto d'una grande scrivania, nello scomparto delle citazioni, trovò
subito l'avviso che cercava, e che lo convocava in tribunale per le undici.
Necliudov sedette alla scrivania e scrisse un biglietto alla principessina per
ringraziarla dell'invito a pranzo e per dirle che avrebbe fatto di tutto per
andarci.
Ma subito lacerò il biglietto: gli sembrava troppo intimo. Ne scrisse
un altro: era freddo, quasi offensivo. Strappò anche quello e premette
un bottone nella parete. Comparve un domestico anziano dall'aspetto grave, la
faccia rasa e le fedine, che indossava un grembiule grigio di calicò.
- Per favore, chiamate una carrozza.
- Sissignore.
- E dite, di là, alla cameriera dei Korciaghin, che ringrazio e che cercherò
di andare.
- Sissignore.
"E' una scortesia, ma non riesco a scrivere. E poi la vedrò questa
sera", pensò Necliudov, e si vestì per uscire.
Quando fu sul portone, la carrozza che prendeva sempre, una vettura dai cerchioni
di gomma, lo stava già aspettando.
- Ieri sera eravate appena uscito da casa Korciaghin, quando arrivai io, - disse
il cocchiere, girando a metà il collo grosso e abbronzato dentro il colletto
bianco della camicia; - ma il portiere mi ha detto che eravate appena uscito.
"Persino i cocchieri sono al corrente dei miei rapporti coi Korciaghin",
pensò Necliudov. E di nuovo gli si affacciò alla mente il problema
che non aveva risolto, e che lo assillava di continuo negli ultimi tempi: doveva
o no sposare la Korciàghina? Ma, come per la maggior parte dei problemi
che gli si presentavano in quel tempo, non riuscì ancora a prendere una
decisione in un senso o nell'altro.
Due considerazioni lo facevano propendere per il matrimonio in generale. Anzitutto
il matrimonio, oltre alle gioie del focolare domestico, avrebbe normalizzato
la sua vita sessuale, permettendogli di condurre un'esistenza onesta. In secondo
luogo - cosa assai importante - Necliudov sperava che la famiglia e i figli
avrebbero dato uno scopo alla sua vita che non ne aveva alcuno. Rifuggiva, invece,
dal matrimonio in generale, per altre due ragioni: l'una, comune a tutti gli
scapoli non più giovani, la paura di perdere la libertà; l'altra,
la paura istintiva davanti al mistero racchiuso in ogni donna.
Nel caso specifico del suo matrimonio con Missy - si chiamava Mària,
ma le avevano dato quel vezzeggiativo perché così si usava nell'aristocrazia
- valeva per Necliudov il fatto che la fanciulla era di buon lignaggio, e che
in tutto si distingueva dalle ragazze comuni: non già per qualcosa di
eccezionale, ma per LA SUA DISTINZIONE che si rivelava nel modo di vestirsi,
di muoversi, di parlare, di ridere: egli non avrebbe saputo definire con altra
parola quella dote che apprezzava assai. In secondo luogo, Missy lo riteneva
superiore agli altri uomini, cioè secondo lui, lo capiva. E se lo capiva,
vale a dire se riconosceva le sue alte qualità, per Necliudov era senz'altro
intelligente e avveduta.
Ma c'erano anche argomenti contro il matrimonio con Missy. Anzitutto, molto
probabilmente gli sarebbe stato possibile trovare una ragazza ancora più
distinta di Missy, e di conseguenza più degna. Inoltre, Missy aveva ventisette
anni e si poteva presumere che avesse già avuto altri amori. Pensiero
tutt'altro che piacevole per Necliudov. Il suo orgoglio si sentiva offeso, all'idea
che Missy avesse potuto amare qualcun altro.
Certo non poteva esigere che Missy avesse preveduto d'incontrare proprio lui;
ma la semplice supposizione che fosse stata innamorata d'un altro era per Necliudov
un insulto.
Così gli argomenti in favore e quelli contro si presentavano in numero
uguale, e Necliudov, ridendo di se stesso, si paragonava all'asino di Buridano.
E come l'asino, anch'egli rimaneva lì, non sapendo verso quale dei due
fasci d'erba voltarsi.
"D'altra parte, finché non avrò ricevuto una risposta da
Mària Vassilievna, la moglie del maresciallo, e fra noi non sarà
finito tutto, mi sarà impossibile prendere una decisione", diceva
a se stesso.
E il pensiero che poteva, anzi doveva rimandare quella decisione, gli era gradevole.
"Del resto, ho tempo per pensarci", disse fra sé, mentre la
sua carrozza si fermava silenziosamente nel cortile asfaltato del tribunale.
"Ora devo pensare soltanto ad adempiere al compito che la società
mi ha affidato, e al quale ritengo mio dovere dedicare la massima scrupolosità.
E poi, qualche volta è anche interessante", si disse, e, passando
davanti al portiere, entrò nel vestibolo.
5.
Nei corridoi del tribunale c'era già una grande animazione, quando Necliudov
entrò.
Gli uscieri andavano avanti e indietro, un po' correndo e un po' scivolando
senza sollevare i piedi da terra, trafelati, con commissioni e incartamenti.
Gli ufficiali giudiziari, gli avvocati e i giudici correvano di qua e di là,
mentre i postulanti e gli imputati a piede libero giravano sconsolati nei corridoi
o sedevano in attesa.
- Il tribunale del distretto? - domandò Necliudov a un usciere.
- Quale tribunale? Civile o penale?
- Sono un giurato.
- Allora la Corte d'Assise. Dovevate dirlo subito. Prendete a destra, poi a
sinistra, la seconda porta.
Necliudov seguì le indicazioni.
Davanti alla camera che gli avevano indicato aspettavano due uomini: un mercante
alto e grasso, dall'aspetto bonario, che evidentemente aveva mangiato bene ed
era di ottimo umore, l'altro un commesso di origine ebraica. Stavano parlando
del prezzo della lana. Necliudov si avvicinò loro e chiese se quella
fosse la stanza dei giurati.
- Sissignore, è proprio qui. Siete un giurato anche voi? - domandò
il mercante bonario, ammiccando allegramente. Bene, dunque! lavoreremo insieme!
- proseguì, dopo che Necliudov ebbe risposto affermativamente; - io sono
Baklasciòv, mercante di seconda categoria, - disse, porgendo una mano
molle, larga, difficile da stringere. - Con chi ho l'onore?
Necliudov si presentò ed entrò nella camera dei giurati.
Nella camera piuttosto piccola erano già riunite una decina di persone
di ogni ceto. Tutti erano arrivati da poco; alcuni s'erano seduti, altri camminavano,
chiacchierando da amici. C'era un pensionato in divisa; altri erano in redingote
o in giacca, uno solo portava il giubbetto nazionale.
Nonostante che molti avessero dovuto interrompere il loro lavoro e se ne lamentassero,
tuttavia sui volti di tutti si leggeva una specie di soddisfazione, data dalla
coscienza di essere chiamati a compiere un importante lavoro sociale.
I giurati, chi presentandosi, e chi semplicemente così, tirando a indovinare
l'identità dell'interlocutore, parlavano fra loro del tempo, della primavera
precoce, degli affari in corso. Quelli che ancora non lo conoscevano, s'affrettavano
a presentarsi a Necliudov. Evidentemente, lo consideravano un grande onore.
E Necliudov, come sempre quando si trovava fra estranei, accettava l'omaggio
come dovutogli.
Se qualcuno gli avesse chiesto perché si stimava superiore alla maggioranza
degli altri uomini, non avrebbe saputo rispondere, non avendo mai dimostrato
in tutta la sua vita di possedere meriti speciali. Il fatto di saper parlare
perfettamente l'inglese, il francese e il tedesco, di portare biancheria, abiti,
cravatte e gemelli da polso acquistati nei negozi migliori, non poteva costituire
un motivo valido di superiorità, lo sapeva bene anche Necliudov. Eppure
di questa sua superiorità egli aveva una coscienza profonda: accettava
come dovute le attestazioni di rispetto, e si offendeva quando gli venivano
meno. Una simile mancanza di riguardo l'aspettava appunto nella sala dei giurati.
Fra questi si trovava un suo conoscente, un certo Piotr Gherassimovic' di cui
Necliudov si vantava di non aver mai saputo il cognome. Costui era stato il
precettore dei figli di sua sorella, ed ora, dopo aver finito gli studi, insegnava
al ginnasio. Necliudov non l'aveva mai potuto soffrire per i suoi modi confidenziali,
per il suo sghignazzare sufficiente, e soprattutto per la sua volgarità,
come diceva la sorella di Necliudov.
- Ah, ci siete capitato anche voi! - disse Piotr Gherassimovic' ridendo rumorosamente.
- Non siete riuscito a svignarvela?
- Non avevo nessuna intenzione di svignarmela, - rispose Necliudov serio e seccato.
-Be', questa è una prova di civismo! Aspettate un po', quando vi verrà
fame e sonno! allora cambierete musica! - replicò Piotr Gherassimovic'
con una risata ancor più fragorosa.
"Questo figlio di prete adesso mi darà del tu", pensò
Necliudov, e atteggiando il viso a un'espressione lugubre, come se gli fosse
giunta proprio allora la notizia della morte di tutti i suoi cari, gli voltò
le spalle e si avvicinò a un crocchio formatosi intorno a un signore
alto, sbarbato e d'aspetto imponente, che stava raccontando qualcosa con molta
animazione.
Questo signore parlava del processo che stava svolgendosi nella sezione civile,
e ne parlava con competenza, chiamando i giudici e gli avvocati illustri confidenzialmente
per nome e per patronimico. Raccontava la piega sbalorditiva che un noto avvocato
era riuscito a dare alla causa, per cui una delle parti, una vecchia signora
che aveva tutte le ragioni, sarebbe stata irrimediabilmente condannata a pagare
una forte somma alla parte avversa.
- Che avvocato geniale! - diceva.
Tutti lo ascoltavano con deferenza; ma se qualcuno cercava di intercalare qualche
osservazione, egli subito l'interrompeva, come se lui soltanto sapesse esattamente
come stavano le cose.
Benché Necliudov fosse arrivato tardi, gli toccò di aspettare
ancora un pezzo. La seduta non poteva cominciare, perché uno dei membri
della Corte non si era ancora presentato.
6.
Il presidente era venuto in tribunale di buon'ora. Era un uomo alto e grosso,
con le lunghe fedine brizzolate. Aveva moglie, ma tutti e due conducevano una
vita allegra, nella quale si lasciavano reciprocamente piena libertà.
La mattina aveva ricevuto un biglietto da una governante svizzera che era stata
loro ospite l'estate precedente: di passaggio dal sud per recarsi a Pietroburgo
gli scriveva che lo avrebbe aspettato tra le tre e le sei all'albergo Italia.
Il presidente voleva quindi cominciare e finire presto la seduta, in modo da
poter raggiungere per le sei la rossa Klara Vassilievna, con la quale, in campagna,
aveva intrecciato un romanzo.
Entrò nel suo ufficio, chiuse la porta a chiave, trasse dallo scaffale
inferiore dell'armadio due manubri, ed eseguì venti movimenti: in alto,
in avanti, di fianco, in basso; poi tre piegamenti, alzando i pesi al di sopra
della testa.
"Nulla giova tanto alla salute quanto la doccia e la ginnastica",
pensava palpandosi il bicipite teso del braccio destro con la mano sinistra
ornata all'anulare da un anello d'oro. Gli restava ancora da fare il mulinello
- eseguiva sempre questi due esercizi prima di una seduta un po' lunga - quando
la porta si mosse. Qualcuno voleva entrare. Il presidente si affrettò
a mettere i manubri al loro posto e aprì la porta.
- Scusatemi - disse.
Nella stanza entrò un giudice basso di statura, con gli occhiali d'oro,
le spalle angolose e il viso accigliato.
- Come al solito, Matvièi Nikitic' manca, - disse con aria scontenta.
- Non è ancora arrivato, - rispose il presidente, indossando l'uniforme.
- Ritarda sempre.
- Ha una faccia tosta incredibile! - E il giudice, furibondo, si sedette e accese
una sigaretta.
Questo magistrato, sempre puntualissimo, aveva avuto quel mattino uno scontro
assai sgradevole con la moglie, perché questa aveva speso troppo rapidamente
il mensile. La donna aveva chiesto un anticipo, e lui glielo aveva rifiutato.
Così era nata la lite. La moglie aveva dichiarato che, se le cose stavano
così, al suo ritorno non si aspettasse di trovare il pranzo pronto: lei
non l'avrebbe preparato. Uscito di casa su questa dichiarazione, ora temeva
che la moglie mantenesse la sua minaccia, ben sapendo che era capace di tutto.
"Bel guadagno si fa a vivere onestamente!", pensava fra sé,
mentre osservava il presidente, che raggiante di salute, di buonumore e di bonarietà,
si lisciava con le mani belle e bianche le fluenti fedine brizzolate, accomodandole
ai due lati del colletto gallonato; "lui è sempre allegro e contento,
mentre io mi rodo l'esistenza" .
Entrò il cancelliere con una pratica.
- Grazie! - disse il presidente, accendendo una sigaretta.
- Con che processo s'incomincia?
- Con l'avvelenamento, direi, - rispose il cancelliere con indifferenza.
- Benissimo, vada per l'avvelenamento, - rispose il presidente, pensando di
sbrigare quel processo per le quattro, e poi andarsene subito.
- E Matvièi Nikitic' è arrivato?
- Non ancora.
- E Breve?
- Sì, - rispose il cancelliere.
- Ditegli allora, se lo vedete, che si comincia con l'avvelenamento.
Breve era il sostituto procuratore, che in quella sessione sosteneva la pubblica
accusa. Il cancelliere lo in contrò nel corridoio.
Le spalle inarcate, la divisa sbottonata e la borsa sotto il braccio, camminava
svelto, quasi di corsa, battendo i tacchi e agitando febbrilmente il braccio
libero.
- Micail Petrovic' vuol sapere se siete pronto, - gli domandò il cancelliere.
- Certo! Io son sempre pronto, - rispose il sostituto procuratore.
Con che processo s'incomincia?
Con l'avvelenamento.
Benissimo, - disse il sostituto procuratore. Ma in realtà era tutt'altro
che contento... La notte non s'era neppure coricato. Dopo aver accompagnato
un amico, lui ed altri avevano giocato a carte fino alle due e per finire la
serata, erano andati in una casa di tolleranza: la stessa dove sei mesi prima
si trovava la Màslova. Perciò gli era mancato il tempo di leggere
l'incartamento di quel processo, e ora gli sarebbe piaciuto dargli almeno una
scorsa. Ma il cancelliere lo sapeva e apposta aveva suggerito al presidente
di cominciare proprio con quel processo.
Il cancelliere era un uomo di idee liberali, per non dire radicali. Breve, invece,
un conservatore: e come tutti i tedeschi impiegati in Russia, di un'ortodossia
intransigente. Il cancelliere non lo vedeva di buon occhio e gli invidiava il
posto.
- E per gli "scopzì" (1) che si fa? - chiese il cancelliere.
- Ho detto che non posso, - disse il sostituto procuratore, - per mancanza di
testimoni. E lo ripeterò al tribunale.
- Ma che importa? - domandò il cancelliere.
- Ho detto di no, - disse il sostituto procuratore, e dimenando il braccio più
che mai, entrò nel suo ufficio.
Egli rinviava di continuo quel processo degli scopzì non già per
la mancanza di un testimonio insignificante e inutile, ma perché il dibattimento,
se avesse avuto luogo in una grande città, dove i giurati sono persone
intelligenti, avrebbe potuto terminare con un'assoluzione. Si era perciò
accordato col presidente di trasferire il processo al tribunale di una città
di provincia, dove la giuria, composta in maggioranza di contadini, sarebbe
stata più propensa a condannare.
Nel corridoio il movimento si faceva sempre più intenso. La gente si
affollava soprattutto davanti all'aula della sezione civile, dove si discuteva
la causa di cui aveva parlato con tanta competenza, nella sala dei giurati,
il signore dall'aspetto imponente. Durante un intervallo del processo uscì
nel corridoio la vecchietta che era stata abilmente raggirata e privata di ogni
bene dal geniale avvocato a favore di un suo cliente, un affarista che non aveva
alcun diritto a quel patrimonio. I giudici lo sapevano, e lo sapevano ancor
meglio l'avvocato e il suo cliente. Questa vecchietta era una donna grassa,
vestita vistosamente e con un cappellino adorno di un gran mazzo di fiori.
Essa si fermò nel corridoio e torcendosi le mani grasse e corte continuava
a ripetere al suo avvocato: "Che succederà adesso? Ditemelo per
carità!"... L'avvocato guardava i fiori del suo cappellino e l'ascoltava
con aria distratta. Subito dopo si spalancò l'uscio della sala e ne uscì
frettolosamente l'illustre avvocato con lo sparato abbagliante nell'ampia apertura
del panciotto. Il suo viso era soddisfatto: aveva saputo ridurre alla miseria
la vecchietta dai fiori sul cappello. Tutto merito suo se la vecchia era rimasta
senza un soldo e il suo cliente, che gli aveva pagato diecimila rubli, ne guadagnava
più di centomila. Gli sguardi della gente si appuntarono sull'avvocato.
Egli se ne rendeva conto e tutta la sua persona sembrava dire: "Risparmiatemi
la vostra ammirazione...". E passò via rapidamente.
NOTE.
NOTA 1: membri di una setta religiosa molto rigida.
7.
Finalmente arrivò anche Matvièi Nikitic' e l'usciere del tribunale,
un uomo magro col collo lungo, l'andatura sbilenca, e il labbro inferiore storto,
entrò nella stanza dei giurati.
Un onest'uomo quest'usciere; aveva studiato all'università, ma non poteva
conservare a lungo nessun impiego perché aveva il vizio di bere. Tre
mesi prima una certa contessa che s'interessava di sua moglie gli aveva procurato
quel posto, ed egli si rallegrava di non averlo ancora perso.
- Dunque, signori, ci siete tutti? - domandò, mettendosi il pince-nez
e guardando i giurati.
- Tutti, mi sembra, - disse il mercante gioviale.
- Verifichiamo, - disse l'usciere e, tratta di tasca una lista, fece l'appello,
guardando le persone che chiamava, ora attraverso le lenti, ora al di sopra
di esse.
- Il consigliere di Stato I. M. Nikiforov?
- Presente, - disse il signore imponente che la sapeva lunga in fatto di processi.
- Il colonnello a riposo Ivàn Semiònovic' Ivanov?
- Eccomi, - esclamò un uomo magro, in divisa di ufficiale in ritiro.
- Il commerciante della seconda categoria Piotr Baklasciòv?
- Presente, - disse il mercante gioviale, con un largo sorriso - pronto!
- Tenente della guardia, principe Dmitri Necliudov?
- Eccomi, - rispose Necliudov.
L'usciere s'inchinò con particolare deferenza, guardando Necliudov al
di sopra del pince-nez, come per distinguerlo così dagli altri giurati.
- Il capitano Juri Dmitrievic' Dàncenco? Il mercante Grigori Efìmovic'
Kulesciòv?...
E così via. Tutti, tranne due, risposero all'appello.
- E ora, signori, favorite passare nella sala, - disse l'usciere, additando
la porta con un gesto cortese.
Tutti si mossero, e cedendosi l'un l'altro il passo, uscirono nel corridoio
e passarono nella sala delle Assise. Era una sala grande e lunga. In fondo,
tre gradini conducevano a un palco, nel mezzo del quale c'era un tavolo coperto
di un panno verde, con una frangia di un verde più cupo. Dietro al tavolo
erano poste tre poltrone dagli schienali molto alti di quercia scolpita. Dietro
le poltrone spiccava sulla parete, in una cornice d'oro, un ritratto a colori
dell'imperatore in divisa di generale, col gran cordone, una gamba più
indietro dell'altra e la mano sull'elsa della sciabola. Nell'angolo di destra,
un tabernacolo con l'immagine del Cristo incoronato di spine, ed un leggio.
Pure a destra, la piccola cattedra del procuratore generale. In fondo a sinistra,
di contro alla cattedra, il tavolino del cancelliere, e, più vicino al
pubblico, un cancello di legno di quercia che circondava il banco ancora vuoto
degli imputati. A destra, sul palco, c'erano due file di sedie con gli schienali
alti, per i giurati, e più in basso, i tavoli per gli avvocati. Tutto
questo si trovava nella parte anteriore della sala, divisa in due da una barriera.
L'altra parte dell'aula era occupata da banchi disposti a gradinata, che arrivavano
fino alla parete di fondo.
Nelle prime file dei banchi sedevano quattro donne, all'aspetto operaie o domestiche,
e due uomini, anch'essi della classe operaia. Si capiva che erano impressionati
dalla solennità dell'ambiente, poiché parlottavano a bassa voce,
timidamente.
Poco dopo l'ingresso dei giurati, l'usciere si fece nel mezzo della sala e con
voce stentorea, come se volesse intimorire il pubblico, gridò:
- Entra la Corte!
Tutti si alzarono, e sul pretorio comparvero i giudici: il presidente coi suoi
muscoli e le sue splendide basette; poi il giudice dall'aria funebre e dagli
occhiali d'oro. La sua tetraggine era aumentata ancora: poco prima di entrare
nella sala, aveva incontrato suo cognato, un giovane legale, il quale gli aveva
detto di aver saputo dalla sorella che non avrebbe preparato la cena.
- Pazienza! Si andrà all'osteria, - aveva osservato il cognato, ridendo.
- Non c'è niente da ridere, - aveva risposto il giudice cupamente, sempre
più nero.
Il terzo giudice, era quel Matvièi Nikitic' che ritardava sempre. Aveva
una lunga barba e due occhi grandi e buoni con le palpebre cascanti; soffriva
di catarro intestinale e proprio quel mattino, dietro consiglio del medico,
aveva iniziato una nuova cura che l'aveva trattenuto a casa ancor più
del solito. Salì sul pretorio con un'aria assorta. Aveva l'abitudine
di ricorrere ad ogni genere di espedienti per indovinare se certe cose si sarebbero
avverate o no, e adesso si era detto che se il numero dei passi dal suo ufficio
alla poltrona nella sala d'udienza fosse stato divisibile per tre, la nuova
cura l'avrebbe liberato dal catarro; no, in caso contrario. I passi erano ventisei,
ma egli ci fece stare un passettino in più e giusto al ventisettesimo
raggiunse la poltrona.
L'aspetto del presidente e dei giudici mentre salivano sul pretorio nelle loro
divise coi colletti ricamati in oro, era assai imponente. Tutti e tre ne erano
consci, e come imbarazzati della propria maestà, abbassando timidamente
gli occhi s'affrettarono a sedersi nelle poltrone intagliate, dietro al tavolo
ricoperto di panno verde. Sul tavolo si vedevano un oggetto triangolare con
l'aquila (1), alcuni vasi di vetro simili a quelli che si tengono nelle credenze
per i dolci, un calamaio, penne, fogli di carta bianca e matite di tutte le
misure, appena temperate.
Coi giudici era entrato anche il sostituto del procuratore. Camminando in fretta,
con la busta sotto l'ascella e agitando il braccio, questi andò al suo
posto vicino alla finestra e s'immerse subito nella lettura e nell'esame dei
documenti, valendosi di ogni attimo per prepararsi alla causa. Era soltanto
la quarta volta che sosteneva la pubblica accusa, ma da persona molto ambiziosa
e decisissima a far carriera, riteneva indispensabile ottenere la condanna degli
imputati in tutti i processi ai quali partecipava.
Conosceva quel processo nelle sue linee generali e aveva già combinato
il piano della requisitoria, ma gli occorrevano ancora alcuni dati che stava
ora desumendo in fretta dall'incartamento.
Il cancelliere s'era seduto all'estremità opposta del pretorio, e dopo
aver disposto davanti a sé tutti i documenti da leggere, s'era messo
a scorrere un articolo d'un giornale proibito che aveva ricevuto il giorno prima
e che aveva già letto. Si proponeva di discorrerne col giudice barbuto,
che condivideva il suo punto di vista; ma prima di discorrerne voleva farsene
un'idea ben chiara.
NOTE.
NOTA 1: Lo specchio di giustizia, arnese prismatico di metallo, a tre facce,
recante l'aquila e i decreti fondamentali di Pietro il Grande, che doveva trovarsi
sul banco dei giudici in tutte le aule giudiziarie.
8.
Il presidente, consultati gli atti del processo, fece alcune domande all'usciere
e al cancelliere, e alla loro risposta affermativa, ordinò che fossero
introdotti gli accusati. Subito dietro alla sbarra si aprì una porta
ed entrarono due gendarmi coi berretti di pelo e le sciabole sguainate.
Dopo di loro i tre imputati; prima un uomo rosso con le lentiggini, poi due
donne. L'uomo indossava la divisa dei carcerati, troppo larga e troppo lunga
per lui. Entrando nella sala, teneva le mani aperte coi pollici in fuori, e
si sforzava di stare con le braccia aderenti al busto per trattenere le maniche
troppo lunghe. Egli non guardava né i giudici né gli spettatori,
ma osservava attentamente il banco dove doveva sedersi. Quando ne ebbe fatto
il giro si accomodò tranquillamente in un angolo, facendo posto agli
altri; e fissando gli occhi sul presidente, cominciò ad agitare i muscoli
delle guance, come se mormorasse qualcosa.
Lo seguiva una donna non più giovane, anch'essa con l'uniforme del carcere.
Un fazzoletto da detenuta le avvolgeva la testa, il viso era d'un pallore grigio,
senza ciglia né sopracciglia, ma con gli occhi rossi. Sembrava calmissima.
Nel recarsi al suo posto, la casacca le s'impigliò in qualcosa; essa
la sganciò con cura, si rassettò senza fretta e poi sedette.
La terza accusata era la Màslova.
Al suo entrare gli sguardi di tutti gli uomini che si trovavano nella sala si
volsero verso di lei, e rimasero fissi sul pallido viso dagli occhi neri e scintillanti,
sul petto alto e sporgente. Persino il gendarme, davanti al quale dovette passare,
le tenne gli occhi addosso, finché non si fu seduta e solo allora, come
se si fosse sentito colpevole, si riscosse e si voltò a guardare la finestra
davanti a sé.
Il presidente aspettò che gli accusati fossero al loro posto e poi si
volse al cancelliere.
Cominciò la solita procedura: l'appello dei giurati, l'imposizione di
una penalità agli assenti, l'esame delle giustificazioni e la sostituzione
degli assenti coi supplenti. Poi il presidente piegò alcuni bigliettini,
li mise in un vaso di vetro, e rimboccando sulle braccia molto pelose le maniche
ricamate della divisa, estrasse uno per uno i biglietti, con gesti da prestigiatore,
svolgendoli e leggendoli. Poi si raccomodò le maniche, e pregò
il prete di far prestare giuramento.
Il prete era un vecchietto dalla faccia gonfia d'un pallore giallastro. Indossava
una veste marrone, una croce d'oro gli dondolava sul petto, dove era appuntata
una piccola decorazione. Muovendo lentamente le gambe gonfie, si avvicinò
al leggio che era davanti all'immagine sacra.
I giurati si alzarono e si affrettarono a seguirlo.
- Accomodatevi, - disse il prete, tormentando con la mano gonfia la croce che
aveva sul petto e aspettando che tutti i giurati si fossero avvicinati.
Quel sacerdote esercitava il suo ministero da quarantasei anni. Fra tre anni
avrebbe celebrato il suo giubileo come aveva fatto pochi giorni prima l'arciprete
della cattedrale. Era addetto al tribunale distrettuale da quando era stato
aperto e si vantava molto di aver fatto prestar giuramento decine di migliaia
di persone e di continuare, anche in età avanzata, ad agire per il bene
della Chiesa, della patria e della famiglia; a questa avrebbe lasciato in eredità,
oltre alla casa un capitale di almeno trentamila rubli in titoli di rendita.
Non aveva mai pensato che fosse un male far giurare sul Vangelo, quel Vangelo
che vieta il giuramento; non si sentiva affatto a disagio, anzi amava quell'occupazione,
che gli permetteva di conoscere persone distinte. S'era sentito onoratissimo,
quel giorno, di conoscere il famoso avvocato per il quale provava un gran rispetto,
da quando aveva saputo che la sola causa della vecchietta coi fiori gli aveva
reso diecimila rubli.
Quando tutti i giurati furono sul pretorio, il prete piegò da un lato
la testa calva e grigia, l'infilò nell'apertura tutta unta della stola,
e ravviandosi i capelli grassi si rivolse ai giurati: - Alzate la mano destra
e mettete le dita a questo modo, - disse lentamente con voce da vecchio, alzando
la mano paffuta con le fossette e raggruppando le dita come per prendere un
pizzico di tabacco. - E ora ripetete quel che dico io, - proseguì. -
Prometto e giuro davanti a Dio onnipotente, davanti al santo Vangelo e alla
croce vivificante del Signore che nel processo in cui... - Parlava facendo una
pausa dopo ogni frase. - Non abbassate la mano! Tenetela così, - disse
ad un giovanotto che aveva calato il braccio, - che nel processo in cui...
Il signore imponente con le basette, il colonnello, il mercante e alcuni altri
tenevano le dita raggruppate come voleva il prete, alzando la mano con aria
decisa, quasi ne godessero; altri invece eseguivano il gesto contro voglia e
con incertezza. Alcuni ripetevano le parole fin troppo forte, quasi rabbiosamente,
con l'aria di affermare: "Si, lo dico, lo dico fin in fondo". Altri
perdevano il filo, e poi, come spaventati, raggiungevano il prete in ritardo;
qualcuno teneva le dita strette come se temesse di lasciarsi sfuggire qualcosa;
qualcuno, invece, continuava ad aprirle e a chiuderle. Tutti erano imbarazzati;
solo il prete era convinto, senz'ombra di dubbio, di compiere un'opera molto
utile e importante.
Fatto il giuramento, il presidente disse ai giurati di scegliersi un capo. Essi
si alzarono ed entrarono tutti nella camera delle deliberazioni, dove la maggioranza
si affrettò ad accendersi una sigaretta e a fumare. Qualcuno propose
di eleggere il signore imponente. Tutti aderirono subito e, gettate le sigarette,
rientrarono nella sala. Il signore imponente dichiarò al presidente di
essere stato scelto, e i giurati, scavalcandosi a vicenda, tornarono a sedersi
nelle due file di sedie con le spalliere alte.
La procedura seguiva il suo corso rapidamente, ma non senza solennità,
e quella solennità, quella legalità e quel formalismo infondevano
in tutti la piacevole sensazione che proviene dalla coscienza di adempiere ad
un dovere sociale molto serio e importante.
Anche Necliudov condivideva quel sentimento.
Quando i giurati si furono seduti, il presidente li arringò intorno ai
loro diritti, i loro obblighi e le loro responsabilità. Parlando, il
presidente non stava fermo un attimo: si appoggiava ora sul braccio destro,
ora sul sinistro; ora livellava i margini dei fogli, ora lisciava il fermacarte,
ora palpava una matita.
Secondo le sue parole, essi avevano il diritto di interrogare gli accusati per
mezzo del presidente, di usare matita e carta e di esaminare i corpi del reato.
I loro obblighi consistevano nel giudicare con giustizia, non arbitrariamente.
Erano inoltre tenuti a mantenere il segreto sul voto e a non stabilire rapporti
con gli estranei: in caso contrario si sarebbero esposti ai rigori della legge.
Tutti ascoltarono con rispettosa attenzione. Il mercante, che puzzava di vino
e cercava di ruttare senza troppo rumore, approvava con un cenno del capo ogni
parola del presidente.
9.
Finito il suo discorso, il presidente si rivolse agli accusati.
- Simòn Kartinkin, alzatevi!
Simòn scattò in piedi; i muscoli delle sue guance vibravano sempre
più convulsamente.
- Come vi chiamate?
- Simòn Petrovic' Kartinkin, - rispose svelto con voce stridula l'imputato,
che evidentemente aveva già preparate le sue risposte.
- Condizione?
- Contadino.
- Di che provincia e di che distretto?
- Provincia di Tula, distretto di Krapivo, comune di Kupianski, villaggio di
Borki.
- Quanti anni avete?
- Trentaquattro. Nato nel milleottocento...
- Religione?
- Russa ortodossa.
- Sposato?
- Nossignore.
- Che mestiere fate?
- Inserviente di corridoio nell'albergo Mauritania.
- Siete stato processato altre volte?
- Mai, perché come vivevo prima...
- Avete avuto altri processi sì o no?
- Lo giuro davanti a Dio, no.
- Avete ricevuto copia dell'atto d'accusa?
- Sì.
- Sedete. Efimia Ivànovna Boc'kova, - si rivolse il presidente a una
delle due donne.
Ma Simòn non si sedeva e nascondeva la Boc'kova.
- Kartinkin, sedete!
Il Kartinkin rimaneva ancora in piedi. Sedette soltanto quando accorse l'usciere,
che con una mossa severa del capo e facendogli gli occhiacci, gli intimò
sottovoce tragicamente: - Sù, sedetevi! - Il Kartinkin sedette con la
stessa rapidità con cui s'era alzato e, avviluppandosi nella casacca,
cominciò di nuovo a muovere silenziosamente le guance.
- Come vi chiamate? - con un sospiro di stanchezza domandò il presidente
alla seconda accusata, senza guardarla e continuando a consultare una carta
che gli stava davanti. Quella procedura gli era diventata tanto abituale che,
per guadagnare tempo, poteva fare benissimo due cose in una volta.
La Boc'kova, di condizione borghese, aveva quarantatré anni. Faceva l'inserviente
di corridoio nell'albergo Mauritania. Non era mai stata processata. Aveva ricevuto
copia dell'atto di accusa. Rispondeva alle domande del presidente con sicurezza
sfacciata, e con l'aria di dire: "Sì, sono la Boc'kova. Ho ricevuto
la copia e me ne vanto, e non permetto a nessuno di ridere di me!". Terminato
l'interrogatorio, sedette senza neppure aspettare che glielo dicessero.
- Come vi chiamate? - proseguì il presidente donnaiolo, rivolgendosi
con aria particolarmente gentile alla terza imputata. - Dovete alzarvi, - soggiunse
con voce dolce e affabile, notando che la Màslova rimaneva seduta.
La Màslova si alzò di scatto con un'espressione premurosa, e protendendo
il seno colmo non rispose, ma fissò dritto negli occhi il presidente
coi suoi occhi neri, sorridenti e lievemente strabici. Il nome? Liubòv
(1), - mormorò rapidamente.
Intanto Necliudov, che si era messo il pince-nez osservava gli accusati man
mano che li interrogavano.
"Ma è impossibile!", pensava, guardando fissamente l'ultima
imputata. "Come mai, Liubòv?", pensava nell'udire la sua risposta.
Il presidente stava per fare un'altra domanda, ma il giudice con gli occhiali
lo interruppe incollerito, dicendogli qualcosa sottovoce. Il presidente fece
con la testa un segno d'assenso e si rivolse all'imputata.
- Come, Liubòv? - egli disse. - Ma qui c'è un nome diverso!
L'imputata taceva.
- Vi domando il vostro nome vero. - Qual è il vostro nome di battesimo?
- domandò il giudice con gli occhiali.
- Prima mi chiamavano Jekatierina.
"E' impossibile", continuava a dirsi Necliudov. Ma già sapeva
senza ombra di dubbio che quella era proprio lei, la protetta delle sue zie,
la fanciulla che un tempo egli aveva amato di vero amore, e in un momento di
follia aveva prima sedotto e poi abbandonato, dimenticandone persino il ricordo.
Infatti quel ricordo gli era troppo penoso, lo denunciava troppo apertamente,
facendogli sentire che, mentre era tanto orgoglioso della propria correttezza,
aveva agito verso quella donna in un modo addirittura abietto.
Si, era proprio lei. Ora distingueva chiaramente sul suo volto l'impronta particolare
e misteriosa che differenzia un viso da tutti gli altri, rendendolo unico, speciale,
irripetibile. Nonostante il pallore innaturale e l'ingrossamento del viso, egli
ritrovava nei suoi lineamenti quella traccia inconfondibile di una grazia che
era tutta sua: la ritrovava nelle labbra, negli occhi leggermente strabici,
e soprattutto nello sguardo ingenuo, sorridente, e nell'espressione premurosa
del viso e di tutta la persona.
- Avreste dovuto dirlo subito, - osservò il presidente anche questa volta
con molta dolcezza. - E il vostro patronimico?
- Sono figlia naturale, - rispose la Màslova.
- Il nome del vostro padrino, allora?
- Micail.
"Che cosa avrà fatto?", si domandava intanto Necliudov, trattenendo
il respiro.
- Il vostro cognome? che soprannome avete? - proseguì il presidente.
- Mi chiamo Màslova, dal nome di mia madre.
- Condizione?
- Borghese.
- Religione? Ortodossa?
- Ortodossa.
- Professione? Che mestiere facevate?
La Màslova non rispose.
- Che mestiere facevate? - ripeté il presidente.
- Ero in una casa, - disse lei.
- In che casa? - domandò severamente il giudice con gli occhiali.
- Lo sapete bene anche voi! - rispose la Màslova; poi sorrise, e dopo
aver lanciato una rapida occhiata per la sala, fissò di nuovo gli occhi
sul presidente.
C'era qualcosa di così insolito nell'espressione di quel viso, di così
terribilmente patetico nel significato delle sue parole, nel suo sorriso e nella
rapida occhiata, che il presidente chinò il capo e nella sala regnò
per un momento un silenzio assoluto. Quel silenzio fu rotto da una risata improvvisa
che veniva dal pubblico. Qualcuno zittì. Il presidente sollevò
la testa e riprese l'interrogatorio.
- Non siete mai stata sotto processo?
- No, - rispose piano la Màslova, sospirando.
- Avete ricevuto la copia dell'atto di accusa?
- Sissignore.
- Sedete, - disse il presidente.
L'imputata rialzò la gonna con lo stesso gesto con cui le signore eleganti
sollevano lo strascico e sedette, introducendo le mani piccole e bianche nelle
maniche della casacca, senza distogliere lo sguardo dal presidente.
Seguì l'appello dei testimoni, che poi furono fatti uscire dall'aula;
fu chiamato il perito medico che a sua volta si ritirò nella sala delle
deliberazioni. Si alzò infine il cancelliere e incominciò a leggere
l'atto d'accusa. Leggeva con voce alta e chiara, ma così rapidamente
che la sua voce, per un difetto di pronuncia, si confondeva in un brusio sordo,
continuo e soporifero. I giudici si agitavano nelle poltrone, appoggiandosi
ora su un bracciolo ora sull'altro, ora sulla tavola, ora contro lo schienale.
Socchiudevano gli occhi, li tornavano ad aprire e parlavano tra loro a bassa
voce. Un gendarme represse più di una volta lo spasimo di uno sbadiglio.
Tra gli imputati, il Kartinkin muoveva incessantemente le guance. La Boc'kova
sedeva impassibile e dritta, grattandosi di tanto in tanto con un dito la testa
sotto lo scialletto.
La Màslova, immobile, ascoltava il cancelliere con gli occhi fissi su
di lui; a volte sussultava e avrebbe voluto dire qualcosa; arrossiva e sospirava
profondamente, cambiava la posizione delle mani, si guardava intorno e tornava
a fissare il cancelliere.
Necliudov sedeva sul suo seggiolone, il primo nella prima fila dei giurati,
e guardava la Màslova senza il pince-nez, mentre nel suo animo si svolgeva
un lavorio complesso e tormentoso.
L'atto di accusa era il seguente:
10.
"Il 17 gennaio milleottocento... il titolare dell'albergo Mauritania, sito
in questa città, denunciò alla polizia la morte improvvisa di
un ospite dell'albergo, Ferapònt Smielkòv, mercante siberiano
di seconda categoria. Il medico della quarta divisione rilasciò il certificato
che la morte dello Smielkòv era dovuta ad un aneurisma provocato dall'abuso
di bevande alcooliche; e il cadavere venne inumato.
"Ma alcuni giorni dopo, un compaesano e amico dello Smielkòv, il
mercante siberiano Timochin, arrivato da Pietroburgo, informatosi sulle circostanze
in cui il decesso era avvenuto, enunciò il sospetto che lo Smielkòv
fosse stato avvelenato a scopo di rapina. Fu perciò aperta un'inchiesta
dalla quale risultò quanto segue:
"1) Che lo Smielkòv, poco prima di morire, aveva ritirato dalla banca la somma di 3800 rubli d'argento, mentre dopo la sua morte risultarono in suo possesso soltanto 312 rubli e 16 copeche.
2) Che lo Smielkòv aveva trascorso tutto il giorno e tutta la notte antecedenti al suo decesso, in compagnia della prostituta Liubka, alias Jekatierina Màslova, parte nella casa di tolleranza e parte nell'albergo Mauritania; che per incarico dello Smielkòv, la Màslova s'era recata dalla casa di tolleranza nella camera di lui all'albergo per ritirarvi una somma di denaro che, in presenza della cameriera Efimia Boc'kova e di Simòn Kartinkin, inservienti di corridoio nell'albergo Mauritania, la Màslova aveva aperto la valigia dello Smielkòv, adoperando all'uopo la chiave che egli le aveva dato. Nella valigia che la Màslova aveva aperto, la Boc'kova e il Kartinkin avevano visto un fascio di biglietti da cento.
3) Che lo Smielkòv, uscito dalla casa di tolleranza in compagnia della prostituta Liubka, era rientrato con lei all'albergo, e che la suddetta Liubka, consigliata dall'inserviente Kartinkin, aveva versato in un bicchiere di cognac destinato al mercante una polverina bianca datale dal Kartinkin stesso.
4) Che il mattino successivo la prostituta Liubka aveva venduto alla tenitrice della casa di tolleranza in cui viveva un anello di brillanti, già appartenente allo Smielkòv.
5) Che la cameriera Efimia Boc'kova, inserviente di corridoio all'albergo Mauritania, il giorno successivo alla morte dello Smielkòv, aveva depositato alla Banca del Commercio, in conto corrente, la somma di 1800 rubli. L'autopsia medico-legale del mercante Smielkòv e l'esame dei suoi visceri rivelò la presenza di veleno nell'organismo del defunto e permise perciò di concludere che il decesso era avvenuto per avvelenamento. Interrogati in qualità d'imputati, la Màslova, la Boc'kova e il Kartinkin si protestarono innocenti.
La Màslova dichiarò che lo Smielkòv, trovandosi
nella casa di tolleranza dov'essa, secondo la sua espressione, lavorava, l'aveva
mandata all'albergo Mauritania per prendere una certa somma di denaro; che aveva
aperto con la chiave, da lui datale, la valigia del mercante, e vi aveva tolto
40 rubli, secondo l'ordine ricevuto, non un rublo di più, come potevano
testimoniare Simòn Kartinkin ed Efimia Boc'kova, in presenza dei quali
aveva aperto e richiuso la valigia. Dichiarò inoltre che, ritornata una
seconda volta nella camera dello Smielkòv aveva realmente versato in
un bicchiere di cognac destinato al mercante una polverina datale da Simòn
Kartinkin, ma affermò che aveva creduto trattarsi di un sonnifero e che
l'aveva fatto unicamente perchè il mercante si addormentasse e la lasciasse
libera più presto. Dichiarò che lo stesso Smielkòv le aveva
regalato l'anello dopo averla picchiata per trattenerla ancora, giacché
lei piangendo voleva andarsene.
Efimia Boc'kova dichiarò che non sapeva nulla del denaro scomparso, che
nella camera dello Smielkòv era entrata a spadroneggiare soltanto la
Liubka; che se il mercante era stato derubato, doveva averlo fatto la Liubka,
quando era venuta all'albergo con la chiave per prendere il denaro".
A questo punto la Màslova sussultò e guardò la Boc'kova
a bocca aperta.
"Interrogata sulla provenienza dei 1800 rubli depositati alla banca in
conto corrente", riprese a leggere il cancelliere, "essa dichiarò
che quella somma era stata risparmiata negli ultimi dodici anni da lei e da
Simòn, col quale era in procinto di maritarsi.
Simon Kartinkin, interrogato una prima volta, ammise che lui e la Boc'kova,
istigati dalla Màslova venuta all'albergo con la chiave, avevano rubato
il denaro, dividendolo poi in tre parti uguali".
La Màslova diede un altro sussulto, balzò in piedi, si fece di
fiamma e disse qualcosa. Ma l'usciere la interruppe.
"Ammise anche di aver dato alla Màslova la polverina per addormentare
il mercante. Nella seconda deposizione, invece, negò sia di aver partecipato
al furto del denaro, sia di aver dato le polveri alla Màslova, e riversò
ogni colpa su quest'ultima. Interrogato in merito alla somma depositata alla
banca dalla Boc'kova, il Kartinkin dichiarò anch'egli che quel denaro
era stato risparmiato da loro due in dodici anni di lavoro, accumulando le mance
ricevute dai clienti dell'albergo".
L'atto di accusa continuava col resoconto dei confronti e con le deposizioni
dei testimoni, e terminava così:
"In riferimento a quanto sopra, il contadino del villaggio Borki Simòn
Kartinkin di 34 anni, la borghese Efimia Ivànovna Boc'kova di 43 anni
e la borghese Jekatierina Micàilova Màslova, di 27 anni, sono
imputati di avere, il 17 gennaio milleottocento... sottratto di comune accordo
al mercante Smelkòv la somma di 2500 rubli e un anello, e di avere deliberatamente
attentato alla vita del suddetto mercante, propinandogli un veleno che ne causò
la morte.
"Questo delitto è contemplato dall'articolo 1455 del Codice penale
e perciò, anche in base all'articolo 201 del Codice di procedura penale,
il contadino Simòn Kartinkin e le borghesi Efimia Boc'kova e Jekatierina
Màslova sono deferiti al giudizio del tribunale distrettuale costituito
in Corte d'Assise con la collaborazione dei giurati".
Finita la lettura del lungo atto di accusa, il cancelliere raccolse i fogli
e sedette al suo posto, lisciandosi con tutte e due le mani i lunghi capelli.
Tutti trassero un sospiro di sollievo, per la piacevole sensazione che l'inchiesta
fosse ormai aperta: presto ogni cosa sarebbe stata chiarita e la giustizia soddisfatta.
Il solo Necliudov non condivideva questo sentimento. Era tutto preso dall'orrore
di quanto aveva potuto commettere quella Màslova che dieci anni prima
era stata l'innocente e deliziosa fanciulla che egli aveva conosciuto.
11.
Terminata la lettura dell'atto di accusa, il presidente, dopo essersi consigliato
coi membri della Corte, si rivolse al Kartinkin con un'espressione che diceva
chiaramente: "Ora di sicuro sapremo tutto fin nei minimi particolari".
- Contadino Simòn Kartinkin! - cominciò, piegandosi a sinistra.
Simòn Kartinkin, senza interrompere il movimento silenzioso delle guance,
si alzò con le braccia rigidamente aderenti al busto e il corpo proteso
in avanti.
- Siete imputato di avere, il 17 gennaio milleottocento..., rubato dalla valigia
del mercante Smielkòv una somma di denaro e un anello, complici Jekatierina
Màslova e Efimia Boc'kova; di esservi procurato dell'arsenico e di aver
indotto la Màslova a versarlo nel vino destinato allo Smielkòv
che ne morì. Vi riconoscete colpevole? - pronunciò il presidente,
e si piegò a destra.
- E' assolutamente impossibile, perché il mio mestiere è di servire
i clienti...
- Lo direte dopo. Vi riconoscete colpevole?
- Niente affatto. Io soltanto...
- Lo direte dopo. Vi riconoscete colpevole? - ripeté il presidente, calmo
ma fermo.
- Non posso perché...
L'usciere si precipitò nuovamente verso Simòn Kartinkin e lo zittì
con aria drammatica.
Il presidente, come per significare che l'interrogatorio era terminato, spostò
il gomito del braccio su cui si appoggiava per leggere il foglio che aveva in
mano, e si rivolse alla Efimia Boc'kova.
- Efimia Boc'kova, siete accusata di avere, il 17 gennaio milleottocento...
rubato dalla valigia del mercante Smielkòv in una camera dell'albergo
Mauritania, complici Simòn Kartinkin e Jekatierina Màslova, una
somma di denaro e un anello, dividendo fra voi la refurtiva, e per occultare
il furto di aver propinato del veleno al mercante Smielkòv che ne morì.
Vi riconoscete colpevole?
- Non sono colpevole di niente! - rispose l'imputata con un tono sfrontato e
duro. - Non ho nemmeno messo i piedi nella camera, io... Avrà fatto tutto
questa sgualdrina quando vi è entrata.
- Lo direte dopo, - disse il presidente con la stessa voce morbida e ferma.
- Dunque non vi riconoscete colpevole?
- Io non ho preso il denaro, io non ho dato il veleno al mercante, io non sono
neppure entrata nella camera. Se ci fossi entrata, l'avrei cacciata via.
- Non vi riconoscete colpevole?
- No.
- Benissimo.
- Jekatierina Màslova, - cominciò il presidente, volgendosi alla
terza imputata, - siete accusata di essere entrata nella camera del mercante
Smielkòv all'albergo Mauritania e di aver rubato del denaro e un anello,
sottraendoli dalla valigia di cui il mercante vi aveva dato la chiave nella
casa di tolleranza.
Il presidente parlava come se recitasse una lezione imparata a memoria, e, intanto,
porgeva orecchio al giudice di sinistra, il quale gli faceva notare che nell'elenco
dei corpi del reato mancava una boccettina.
- Avete sottratto dalla valigia dei denari e un anello, - riprese il presidente;
- avete diviso la refurtiva coi vostri complici; e quando più tardi siete
ritornata col mercante Smielkòv all'albergo Mauritania, gli avete fatto
bere del vino avvelenato, che ne causò la morte. Vi riconoscete colpevole?
- Sono innocente, - rispose lei in fretta, - quello che ho detto allora lo ripeto
anche adesso: non ho rubato niente, niente, niente, e l'anello me l'ha regalato
lui.
- Non vi riconoscete colpevole di aver rubato duemilacinquecento rubli? - disse
il presidente.
- Dico che non ho preso nulla tranne quaranta rubli.
- E di aver versato una polverina nel vino del mercante Smielkòv, vi
riconoscete colpevole?
- Sì. Ma credevo che fosse un sonnifero, come mi avevano detto. Che fosse
innocua... Non l'ho fatto apposta. Davanti a Dio lo giuro che non l'ho fatto
apposta, - disse.
- Dunque, non vi riconoscete colpevole di aver rubato il denaro e l'anello del
mercante Smielkòv, - riprese il presidente. - Ma riconoscete d'avergli
dato la polverina.
- Questo lo riconosco. Solo pensavo si trattasse di un sonnifero. Gliel'ho dato
soltanto perché si addormentasse... Non l'ho fatto apposta - rispose
lei.
- Benissimo, - disse il presidente, evidentemente soddisfatto dei risultati
raggiunti. - E adesso raccontate come è avvenuto il fatto, - proseguì,
appoggiandosi alla spalliera e mettendo le mani sulla tavola. - Dite tutto quello
che è successo. Una confessione sincera può migliorare la vostra
posizione.
La Màslova taceva, senza distogliere gli occhi dal presidente.
- Dite com'è stato.
- Com'è stato? - a un tratto cominciò la Màslova precipitosamente.
"Quando entrai nell'albergo mi accompagnarono alla sua camera. LUI era
già molto ubriaco. - Pronunciò la parola "lui" con voce
terrorizzata, spalancando gli occhi. - Volevo andarmene via, ma lui non mi lasciò.
Tacque, quasi avesse perso il filo o si fosse ricordata di qualcosa.
- Bene, e poi?
- Come poi? Mi sono fermata un po' e me ne sono ritornata a casa.
A questo punto il sostituto procuratore si alzò a metà, appoggiandosi
con affettazione su un gomito.
- Desiderate fare una domanda? - disse il presidente, e alla risposta affermativa
del sostituto procuratore gli fece segno che poteva parlare.
- Vorrei chiedere all'imputata se conosceva già prima Simòn Kartinkin,
- disse il sostituto senza guardare la Màslova.
E fatta la sua domanda strinse le labbra e si accigliò.
Il presidente ripeté la domanda. La Màslova guardò spaventata
il sostituto procuratore.
- Sì, lo conoscevo, - rispose.
- Vorrei ora sapere di che genere erano i rapporti, dell'imputata col Kartinkin.
Si vedevano spesso?
- Che rapporti? Mi faceva andare dagli ospiti dell'albergo. Questi erano i nostri
rapporti, - rispose la Màslova, girando inquieta lo sguardo dal sostituto
procuratore al presidente e viceversa.
- Vorrei sapere perché il Kartinkin faceva andare dai clienti dell'albergo
la Màslova e non le altre ragazze, - disse il sostituto procuratore con
una strizzatina d'occhi e con un lieve e scaltro sorriso mefistofelico.
- Non lo so. Come posso saperlo? - rispose la Màslova, guardandosi in
giro spaventata e soffermando per un istante gli occhi su Necliudov; - faceva
andare chi voleva.
"Che m'abbia riconosciuto?", pensò Necliudov con orrore, sentendosi
avvampare; ma la Màslova, senza distinguerlo dagli altri, si voltò
subito e tornò a fissare spaurita il sostituto procuratore.
- L'imputata nega dunque di aver avuto rapporti intimi col Kartinkin. Benissimo.
Non ho più nulla da chiedere.
Il sostituto procuratore abbassò subito il gomito dal banco e si mise
a scrivere. In realtà egli non scriveva nulla, si limitava a passare
la penna sulle lettere dei suoi appunti: aveva notato che gli avvocati e i procuratori,
dopo una domanda abile, si affrettavano sempre a inserire nella loro arringa
una nota che avrebbe poi schiacciato l'avversario.
Il presidente non si rivolse subito all'imputata, prima domandò al giudice
con gli occhiali se approvava l'impostazione delle domande, già in precedenza
preparate e trascritte.
- E poi che cosa è accaduto? - domandò il presidente, riprendendo
l'interrogatorio. - Tornai a casa, proseguì la Màslova, guardando
rinfrancata il presidente, - diedi il denaro alla padrona e andai a letto. Mi
ero appena addormentata quando Berta, la nostra ragazza, mi svegliò.
"Muoviti, c'è qua ancora il tuo mercante". Io non volevo andarci,
ma madame me lo impose. Lui, - e pronunciò di nuovo questa parola con
visibile orrore, - lui continuava ad offrire da bere a tutte le nostre ragazze,
e voleva mandar a prendere dell'altro vino, ma non aveva più soldi. La
padrona non gli volle far credito. Allora mi mandò nella sua camera,
all'albergo. E mi disse dove era il denaro e quanto dovevo prendere. E io andai...
Il presidente, che stava parlando sottovoce col giudice di sinistra, non aveva
sentito le parole della Màslova ma per dimostrare che aveva udito tutto,
ripeté le sue ultime parole.
- Andaste. Bene, e poi? - domandò.
- Andai e feci come mi aveva ordinato. Entrai nella camera. Non vi entrai sola,
ma chiamai Simòn Kartinkin e lei, - disse additando la Boc'kova.
- Non è vero, io non sono entrata... - cominciò a dire la Boc'kova,
ma fu fatta tacere subito.
- Davanti a loro presi quattro biglietti rossi, proseguì la Màslova
aggrottando la fronte e senza guardare la Boc'kova.
- E non ha visto l'imputata, mentre prendeva i quaranta rubli, quanto denaro
c'era nella valigia? - domandò di nuovo il procuratore.
La Màslova sussultò. Senza rendersene conto, intuiva che egli
le voleva male.
- Non l'ho contato, ho soltanto visto dei biglietti da cento.
- L'imputata ha visto dei biglietti da cento... Non ho altro da domandare.
- Bene. E i denari li avete portati? - continuò il presidente, guardando
l'orologio.
- Li portai.
- E poi? - domandò il presidente.
- Poi mi portò di nuovo con sé, - rispose la Màslova.
- E come avete fatto a mettere la polverina nel suo vino? - domandò il
presidente.
- Come ho fatto? L'ho sciolta in un bicchiere di vino e gliel'ho dato da bere.
- Perché l'avete fatto?
Essa non rispose, ma sospirò profondamente, con pena. - Non voleva lasciarmi
andare via, - disse dopo una pausa. - Non ne potevo più di stare con
lui. Uscii nel corridoio e dissi a Simòn Micàilovic: "Oh
se mi lasciasse andare via! Sono stanca". E Simòn Micàilovic
mi rispose: "Siamo stufi anche noi. Diamogli un sonnifero, si addormenterà
e tu te ne andrai". Io gli dissi. "Bene". Credevo che si trattasse
di una polvere innocua, e presi la cartina che egli mi dette. Entrai in camera.
Lui era coricato nell'alcova e subito mi ordinò di dargli del cognac.
Sulla tavola c'era una bottiglia di acquavite; ne riempii due bicchieri, uno
per me, e uno per lui. Nel suo versai la polverina e glielo porsi. Non glielo
avrei mica dato, se l'avessi saputo...
- E come mai l'anello è capitato nelle vostre mani? - domandò
il presidente.
- Me lo regalò lui stesso.
- Quando?
- Quando rientrammo nella camera. Io volevo andarmene, lui mi picchiò
sulla testa e mi ruppe il pettine. Mi arrabbiai, non volevo starci più.
Lui si tolse l'anello dal dito e me lo donò perché non me ne andassi,
- disse. A questo punto il sostituito procuratore si alzò di nuovo a
metà e con la sua solita aria di finta innocenza chiese il permesso di
fare ancora qualche domanda.
Ricevuta l'autorizzazione, domandò, piegando la testa sul colletto ricamato:
- Vorrei sapere quanto tempo l'imputata rimase nella camera del mercante.
La Màslova fu ripresa dalla paura e girando inquieta lo sguardo dal procuratore
al presidente, disse in fretta:
- Non ricordo.
- Bene, ma non ricorda l'imputata se, uscendo dalla camera del mercante, non
è entrata in qualche altro locale dell'albergo?
La Màslova rifletté.
- Nella camera accanto che era vuota, entrai, - rispose.
- Perché? - disse il sostituto con foga rivolgendosi direttamente a lei.
- Per mettermi in ordine e per aspettare la carrozza.
- E il Kartinkin era in camera con l'imputata?
- Sì.
- E per qual motivo?
- Era rimasta dell'acquavite nella bottiglia; la bevemmo insieme.
- Ah! la beveste insieme. Benissimo. E l'imputata ha parlato con Simòn
Kartinkin? E di che cosa ha parlato?
Ad un tratto la Màslova si accigliò, arrossì tutta e disse
precipitosamente:
- Se ho parlato? Io non ho detto nulla. Quel che è stato, l'ho detto.
Altro non so. Fate di me quel che volete. Sono innocente, ecco tutto.
- Non ho altro da chiedere, - disse il procuratore al presidente, e alzando
le spalle con affettazione annotò rapidamente sui suoi fogli che l'imputata
aveva confessato di essersi intrattenuta con Simon in una camera vuota.
Si fece silenzio.
- Non avete altro da dire?
- Ho detto tutto, - essa pronunciò sospirando e si sedette.
Il presidente scrisse qualcosa su un foglio e dopo aver ascoltato il giudice
di sinistra che gli parlava a bassa voce, dichiarò sospesa la seduta
per dieci minuti, s'alzò in fretta e uscì dalla sala. Il giudice
di sinistra, l'omone barbuto dagli occhi grandi e buoni, aveva detto al presidente
che si sentiva male allo stomaco; voleva farsi un massaggio e prendere le sue
gocce. Questa era la causa che aveva indotto il presidente a sospendere l'udienza.
Subito dopo i giudici si alzarono anche i giurati, gli avvocati, i testimoni
e, con la gradevole sensazione di aver compiuto una parte del loro sacro dovere,
tutti si sparsero chi qua, chi là.
Necliudov entrò nella stanza dei giurati e sedette presso la finestra.
12.
Sì, era proprio Katiuscia. Necliudov riandò alla storia della
loro relazione.
L'aveva vista per la prima volta quando, studente del terzo anno di università,
dovendo preparare la tesi di laurea sulla proprietà terriera, aveva trascorso
l'estate presso le zie. Di solito passava l'estate con la madre e la sorella
nella grande tenuta che sua madre possedeva nei dintorni di Mosca.
Ma quell'anno sua sorella s'era maritata e sua madre era andata all'estero,
per una cura termale. Perciò Necliudov, che doveva preparare la tesi,
aveva deciso di passare l'estate dalle zie. Nel loro eremo si viveva tranquilli,
senza distrazioni; le zie amavano teneramente quel nipote che doveva essere
il loro erede, ed egli amava le zie e amava pure il loro modo di vivere antiquato
e semplice.
Necliudov, quell'estate, era in una felice disposizione di spirito, entusiasta
come tutti i giovani che scoprono per la prima volta coi propri occhi, e non
per indicazione altrui, la bellezza e il valore della vita e l'importanza del
compito assegnato all'uomo; essi credono nella possibilità di un perfezionamento
di se stessi e di tutta l'umanità, e si dedicano alla realizzazione di
quest'opera con la speranza, anzi con la certezza assoluta di raggiungere l'ideale
vagheggiato. All'università, quell'anno, aveva letto uno scritto sociologico
dello Spencer, le cui considerazioni sulla proprietà fondiaria gli avevano
fatto una forte impressione: sua madre, infatti, era padrona di vastissime terre.
Suo padre non era ricco, ma la moglie gli aveva portato in dote diecimila dessiatine
di terreno. Allora, per la prima volta, Necliudov aveva compreso tutta la crudeltà
e l'ingiustizia del sistema sociale basato sulla proprietà fondiaria
privata. Egli era uno di coloro per i quali il sacrificio in nome di un'esigenza
morale costituisce il massimo godimento dello spirito; risolse perciò
subito di rinunciare ai propri diritti, cedendo ai contadini la campagna che
suo padre gli aveva lasciato in eredità.
La sua giornata in casa delle zie si svolgeva così: la mattina si alzava
molto presto, talvolta alle tre, e fino al sorger del sole restava a bagnarsi
nel fiume che scorreva sotto il monte, spesso avvolto nella nebbia dell'alba.
Quando tornava, l'erba e i fiori erano ancora cosparsi di rugiada.
Dopo aver bevuto il caffè, qualche volta lavorava alla sua tesi o consultava
le fonti; ma più spesso, invece di leggere e di studiare, usciva di casa
e vagabondava per i campi e per i boschi. Prima del desinare si assopiva in
un angolo del giardino e a tavola teneva allegre le zie e le faceva ridere.
Poi andava a cavallo o in barca e la sera leggeva di nuovo o stava con le zie
a fare un solitario.
Spesso di notte, soprattutto nelle notti di luna, non gli riusciva di prender
sonno. Era agitato dalla troppa gioia di vivere; allora passeggiava in giardino,
talvolta fino all'alba, fantasticando in compagnia dei propri pensieri,
In questo modo felice e tranquillo egli trascorse il primo mese del suo soggiorno
presso le zie, senza prestar la minima attenzione a Katiuscia, la svelta fanciulla
dagli occhi neri, una via di mezzo tra la pupilla e la cameriera.
In quel tempo Necliudov, educato sotto l'ala materna, era un ragazzo di diciannove
anni, innocente come un bambino. Nella donna vedeva soltanto la moglie. Tutte
le donne che pensava di non poter sposare, non suscitavano in lui alcun interesse.
Ma per la festa dell'Ascensione venne in visita dalle zie una loro vicina con
la famiglia: due signorine, un ragazzo che frequentava il ginnasio e un giovane
pittore di origine contadina, loro ospite. Dopo il tè, i ragazzi si misero
a giocare a gorielki (1) su un prato falciato davanti alla casa. Anche Katiuscia
fu invitata. A Necliudov, dopo qualche scambio, capitò di correre con
lei. Egli vedeva sempre con piacere Katiuscia, ma non gli era mai passato per
la mente che fra di loro potessero stabilirsi dei rapporti speciali.
- Be', questi due non li acchiappi più, - disse allegramente il pittore
che doveva raggiungerli, correndo veloce sulle sue gambe corte e storte ma forti,
da contadino.
- Forse inciamperanno!
- Ma voi non li prenderete!
- Uno, due, tre!
Batterono tre volte le mani. Trattenendo a stento le risa, Katiuscia cambiò
svelta il posto con Necliudov, e stringendo con la sua manina forte e ruvida
quella grande di lui, si lanciò di corsa verso sinistra. Si sentiva il
fruscio della sua gonna inamidata.
Necliudov correva in fretta e poiché non voleva lasciarsi raggiungere
dal pittore, si era lanciato a tutta forza. Voltandosi, vide il pittore che
inseguiva Katiuscia. Ma questa, muovendo agilmente le gambe giovani ed elastiche,
non si lasciava acchiappare e si allontanava verso sinistra. Nel fondo c'era
un fitto cespuglio di lillà dietro il quale nessuno si spingeva; e Katiuscia,
con una occhiata d'intesa a Necliudov, gli fece segno di raggiungerla là.
Egli capì e si lanciò in direzione dei cespugli. Ma dietro il
cespuglio c'era un fossatello che non conosceva, pieno di ortiche; egli inciampò
e cadde, pungendosi le mani e bagnandosi nella rugiada della sera.
Si rialzò subito ridendo di se stesso, e corse fuori sul terreno piano.
Katiuscia con un sorriso raggiante negli occhi neri come le more umide, gli
volò incontro. Si presero per le mani.
- Vi siete punto? - essa gli domandò, aggiustandosi con la mano destra
libera la treccia scomposta. Sorrideva ansimante e lo guardava dritto negli
occhi, dal sotto in sù.
- Non sapevo che ci fosse un fossato, - rispose, anch'egli sorridendo e trattenendole
la mano.
Essa si avvicinò ed egli, senza sapere come, tese il suo viso verso quello
di lei: Katiuscia non si scostò, egli le strinse più forte la
mano e la baciò sulle labbra.
- Ohè, dico! - esclamò la fanciulla e liberando la mano con un
movimento rapidissimo, si allontanò di corsa.
Giunta a un cespuglio di serenella bianca, ne spezzò due rametti fioriti
e battendoseli sulle gote infuocate, si voltò a guardarlo; poi agitando
vivacemente le braccia davanti a sé, ritornò tra i compagni.
Da quel giorno i rapporti tra Katiuscia e Necliudov si modificarono. Essi si
trovarono nella condizione speciale di un giovane ingenuo e di una ragazza non
meno ingenua, reciprocamente attratti l'uno verso l'altra.
Bastava che Katiuscia entrasse in una camera o che Necliudov ne vedesse il grembiule
bianco, perché il mondo s'illuminasse di sole, per lui. Tutto gli sembrava
più interessante, più allegro, più importante. La vita
gli divenne più lieta. E le stesse sensazioni provava Katiuscia. Ma non
soltanto la presenza e la vicinanza di Katiuscia agivano a quel modo su Necliudov:
per sentirsi felice gli bastava anche solo ricordarsi dell'esistenza di Katiuscia,
come a Katiuscia dell'esistenza di Necliudov. Se si sentiva contrariato da una
lettera di sua madre, o se il suo lavoro non procedeva bene, o se era preso
da quella vaga tristezza che è propria dei giovani, pensava a Katiuscia
e che l'avrebbe vista, e subito si rasserenava.
Katiuscia aveva molto da fare in casa, ma le riusciva sempre di sbrigarsi in
fretta e, nei momenti di libertà, leggeva. Necliudov le passò
Dostoievski e Turgheniev che egli stesso aveva appena finito di leggere. Le
piacque moltissimo "La calma" di Turgheniev. Essi discorrevano nei
ritagli di tempo, quando s'incontravano nel corridoio, sul balcone, nel cortile
e qualche volta nella stanza di Matriona Pàvlovna, la vecchia cameriera
delle zie.
Katiuscia dormiva con lei e qualche volta Necliudov andava a prendere il tè
nella loro cameretta. E queste conversazioni in presenza di Matriona Pàvlovna
erano le più piacevoli. I colloqui a due erano invece assai difficili.
I loro occhi cominciavano subito a parlare un linguaggio tutto speciale, molto
più espressivo delle parole, le labbra s'inaridivano ed essi, presi da
uno strano imbarazzo, si affrettavano a separarsi.
Questi rapporti tra Necliudov e Katiuscia si prolungarono per tutto il tempo
che egli trascorse in casa delle zie. Le zie se ne accorsero, si spaventarono
e ne scrissero in proposito alla madre di Necliudov, la principessa Eliena Ivànovna,
che si trovava all'estero.
La zia Mària Ivànovna temeva che Dmitri stringesse una relazione
con Katiuscia. Timore vano, giacché Necliudov, senza neppure saperlo,
amava Katiuscia come sanno amare gli animi ingenui e il suo amore era la principale
salvaguardia contro una caduta di lui o di lei. Non desiderava di possedere
la fanciulla: e non avrebbe mai ammesso una simile possibilità. Assai
più fondate erano le apprensioni della romantica Sòfia Ivànovna,
la quale temeva che Dmitri, col suo carattere integro e deciso, si fosse innamorato
della ragazza e pensasse di sposarla nonostante la sua origine e la sua condizione.
Se allora Necliudov si fosse reso chiaramente conto del suo amore per Katiuscia,
e se, soprattutto, qualcuno avesse cercato di convincerlo che egli non poteva
unire il suo destino a quello della fanciulla, avrebbe potuto accadere con tutta
probabilità che, nella sua rettitudine, egli la sposasse davvero, sostenendo
che non v'era alcun motivo di non sposare una ragazza qualunque fosse la sua
condizione, se egli l'amava. Ma le zie non gli comunicarono i loro timori ed
egli partì senza essersi accorto di amare Katiuscia.
Credeva che il suo sentimento per Katiuscia fosse soltanto una manifestazione
della gioia di vivere che riempiva allora tutto il suo essere, e di cui era
pervasa anche quella cara e allegra fanciulla. Quando partì, e Katiuscia,
immobile sulla scalinata accanto alle vecchie zie, posò su di lui i suoi
occhi neri pieni di lacrime e lievemente strabici, egli capì di perdere
qualcosa di molto bello e caro che non si sarebbe ripetuto mai più. E
si sentì assai triste.
- Addio Katiuscia, grazie di tutto! - le disse al di sopra della cuffietta di
Sòfia Ivànovna, al momento di salire in carrozza.
- Addio, Dmitri Ivànovic! - rispose lei con la sua voce dolce e carezzevole,
e trattenendo a stento le lacrime che le riempivano gli occhi, si rifugiò
nell'andito, dove avrebbe potuto piangere liberamente.
NOTE.
NOTA 1: gioco a rincorrersi eseguito a coppie.
13.
Nei tre anni successivi Necliudov non rivide Katiuscia. Quando la rivide, durante
una breve visita che fece alle zie, di passaggio per raggiungere il reggimento
di cui era stato appena promosso ufficiale, era un uomo completamente diverso.
Allora era un giovane leale, disinteressato, pronto a sacrificarsi per compiere
una buona azione; adesso un gaudente, un egoista raffinato, amante soltanto
del proprio piacere. Allora il mondo era per lui un mistero, che egli cercava
di penetrare con gioia ed entusiasmo, adesso tutto gli sembrava semplice e chiaro,
subordinato alle condizioni di vita in cui si trovava.
Allora considerava cosa importante e necessaria comunicare con la natura e con
gli uomini - filosofi e poeti che avevano vissuto, pensato e sentito prima di
lui; adesso, rispettare le convenzioni sociali e intrattenere buone relazioni
con gli amici. Prima vedeva nella donna una creatura misteriosa e seducente,
seducente appunto per questo suo mistero; adesso ogni donna, tranne le parenti
e le mogli degli amici, significava per lui qualcosa di ben definito: uno dei
migliori strumenti di piacere. Allora non aveva bisogno di denaro: spendeva
meno di un terzo di quanto gli passava sua madre e aveva potuto rinunciare alla
proprietà paterna per cederla ai contadini: adesso non gli bastavano
neppure i millecinquecento rubli che sua madre gli passava ogni mese, per questioni
di denaro. Prima credeva che il suo io fosse di natura spirituale, adesso credeva
soltanto nel suo io animale, sano e vigoroso.
Una trasformazione così spaventosa nasceva dal fatto che egli aveva cessato
di credere a se stesso per credere agli altri.
Il vivere credendo a se stesso gli sembrava troppo difficile, giacché
doveva risolvere ogni problema quasi sempre a scapito del suo io fisico, bramoso
di piaceri facili; credendo agli altri, non gli toccava prendere nessuna decisione,
poiché tutto era già deciso sempre contro l'io spirituale, a vantaggio
di quello fisico. E poi, credendo a se stesso, si esponeva sempre alle critiche
altrui, mentre credendo agli altri riceveva l'approvazione delle persone che
lo attorniavano.
Quando Necliudov pensava, leggeva, parlava di Dio, della verità, della
povertà, della ricchezza, le persone del suo mondo ritenevano tutto ciò
inopportuno e persino ridicolo; sua madre e sua zia lo chiamavano, con bonaria
ironia, notre cher philosophe (1). Quando leggeva i romanzi, raccontava aneddoti
scabrosi e andava al teatro francese a vedere comici vaudevilles, di cui poi
dava brillanti resoconti, tutti lo applaudivano e lo incitavano. Ma quando,
pensando fosse suo dovere limitare le proprie esigenze, portava un vecchio cappotto
e non beveva vino, tutti ritenevano che fosse un po' strambo e che facesse l'originale
per darsi delle arie. Se invece spendeva forti somme per la caccia o per arredare
sontuosamente il suo studio, tutti lodavano il suo buon gusto e gli regalavano
oggetti di pregio. Quando era casto e manifestava il proposito di rimanere tale
fino al matrimonio, i familiari temevano per la sua salute; e la madre si rallegrò,
invece di esserne rattristata, quando venne a sapere che era diventato un vero
uomo e aveva portato via una certa signora francese a un suo amico. All'episodio
di Katiuscia, e all'idea che egli avrebbe potuto sposarla, la principessa non
poteva pensare senza orrore.
Quando Necliudov, divenuto maggiorenne, cedette ai contadini il piccolo fondo
ereditato dal padre perché considerava ingiusto il possesso della terra,
quel gesto atterrì sua madre e tutta la famiglia e costituì il
loro argomento preferito per rimproverarlo e per deriderlo. Gli ripetevano su
tutti i toni che i contadini ai quali aveva ceduto la terra invece di arricchirsi
erano diventati più poveri, poiché avevano aperto tre bettole
e smesso di lavorare. Ma quando invece, entrato nella guardia, spese in bagordi
e perse al gioco coi suoi compagni altolocati una tale somma che Eliena Ivànovna
dovette intaccare il capitale, essa se ne dolse pochissimo: era naturale, era
anzi una bella cosa che quel vaiolo venisse innestato in gioventù e in
buona compagnia.
Dapprincipio Necliudov lottò, ma era una lotta impari, poiché
tutto ciò che gli sembrava buono quando credeva a se stesso, era disprezzato
dagli altri, e viceversa. La lotta finì con la resa di Necliudov, che
smise di credere a se stesso per credere agli altri. In un primo tempo quella
rinuncia alla propria personalità gli fu penosa, ma l'impressione sgradevolissima
durò assai poco; ben presto Necliudov cominciò a bere e a fumare,
non si sentì più oppresso e anzi provò un gran sollievo.
Col suo temperamento appassionato, s'abbandonò interamente a quel nuovo
genere di vita che riscuoteva l'approvazione di quanti lo circondavano, e soffocò
in sé quella voce che reclamava qualcosa di ben diverso. Questa trasformazione,
cominciata dopo il suo arrivo a Pietroburgo, culminò col suo ingresso
nella guardia.
La vita militare in genere guasta gli uomini; li abitua all'ozio assoluto o
meglio alla mancanza di un'attività sensata e utile; li esenta dai doveri
comuni; e in cambio esalta valori convenzionali quali l'onore del reggimento,
dell'uniforme, della bandiera, mentre all'autorità illimitata degli uni
opporre la servile sottomissione degli altri.
Ma quando all'opera di corruzione compiuta dal militarismo col suo onore della
divisa e della bandiera, e col consenso dato alla violenza e all'assassinio,
si unisce anche la corruzione prodotta dalla ricchezza e dalla facilità
dei rapporti con la famiglia imperiale, come è il caso dei reggimenti
scelti della guardia, composti soltanto di ufficiali ricchi e nobili, allora
questa corruzione porta le persone che vi incorrono ad un grado di egoismo addirittura
parossistico.
In queste condizioni si trovava Necliudov, da quando era entrato nella carriera
militare ed aveva cominciato a vivere come i suoi compagni.
Non aveva nulla da fare, se non indossare una divisa di fattura impeccabile,
cheE altri si preoccupavano di tenergli in ordine, mettersi un casco e un'arme
anch'essa fabbricata, lustrata e presentata a lui da altri, e su un cavallo
splendido, ammaestrato, allenato e curato da altri, andarsene alle esercitazioni
o alla rivista insieme con compagni simili a lui, che caracollavano e agitavano
la spada e sparavano e insegnavano a sparare. Queste erano le sue uniche occupazioni,
che i personaggi più illustri, giovani e vecchi, compreso lo zar con
la sua Corte, approvavano, non lesinando lodi e ringraziamenti.
Un'altra occupazione considerata degna e importante era quella di riunirsi a
gozzovigliare nei circoli degli ufficiali o nelle trattorie di lusso, sperperando
denaro ricevuto non si sa da dove. Poi teatri, balli, donne, e di nuovo cavalli,
rotear di sciabole, galoppate, denari al vento, e vino, carte, donne.
Questo genere di vita è particolarmente deleterio per i militari, poiché
qualsiasi civile, nel suo intimo, si vergognerebbe di vivere a quel modo. I
militari invece credono di compiere un dovere, se ne vantano e ne sono orgogliosi,
specialmente in tempo di guerra, come capitò a Necliudov, entrato nell'esercito
dopo la dichiarazione di guerra della Turchia.
"Noi rischiamo la vita in guerra e perciò questa esistenza spensierata
e allegra non soltanto è scusabile, ma ci è necessaria. E noi
la conduciamo".
Così pensava Necliudov in quel torpido periodo della sua vita; aveva
la sensazione piacevole di essersi sciolto da tutti i vincoli morali cui prima
era soggetto, e viveva in uno stato cronico di folle egoismo. Si trovava appunto
in questo stato d'animo quando, dopo tre anni, ritornò dalle zie.
14.
Necliudov si era fermato dalle zie sia perché la loro proprietà
si trovava sulla strada che doveva percorrere per raggiungere il suo reggimento,
sia perché le due vecchie l'avevano insistentemente pregato; ma soprattutto
perché aveva voglia di rivedere Katiuscia.
Forse, in fondo al suo animo, covava già, nei riguardi della fanciulla,
un proposito malvagio, suggeritogli dal suo io fisico, ormai privo di freni.
Ma egli non se ne rendeva conto, e desiderava semplicemente di rivedere quei
luoghi in cui si era trovato così bene, di riabbracciare quelle due zie
tanto buone e care sebbene un po' buffe, che, senza opprimerlo, lo avevano sempre
circondato di un'atmosfera di amore e di ammirazione, desiderava anche rivedere
la gentile Katiuscia, di cui aveva conservato un ricordo così bello.
Arrivò alla fine di marzo, il venerdì santo, in pieno disgelo
e sotto una pioggia torrenziale; era bagnato fradicio e intirizzito, ma pieno
di vita e di animazione, come sempre in quel periodo. "Chissà se
è ancora da loro!", pensò, entrando nel vecchio e noto cortile,
recinto da un muricciuolo di mattoni, e ingombro di neve caduta dal tetto.
Si aspettava di vederla accorrere fuori, al suono della campanella, ma sulla
scala di servizio apparvero soltanto due contadine scalze, con le gonne succinte
e i secchi in mano; evidentemente stavano lavando i pavimenti. Katiuscia non
si fece vedere neppure sulla scala principale. C'era soltanto Ticòn,
il cameriere, in grembiule, anche egli probabilmente occupato nelle pulizie.
In anticamera gli si fece incontro Sòfia Ivànovna, vestita di
seta, con una cuffietta.
- Come sei stato gentile a venire! - esclamò baciandolo. - La zia Mascia
(1) è un po' indisposta, si è stancata in chiesa. Abbiamo fatto
la comunione.
- Tanti auguri, zia Sonia (2), - disse Necliudov, baciandole le mani, - ma scusatemi,
vi ho bagnato!
- Va in camera tua. Sei tutto inzuppato. Che bei baffi ti sono cresciuti...
Katiuscia! Katiuscia! Il caffè, in fretta!
- Subito! - rispose dal corridoio una voce nota e piacevole. Il cuore di Necliudov
si mise a battere di gioia. "E' qui!". E fu come se il sole si mostrasse
fra le nuvole.
Necliudov seguì allegramente Ticòn fino alla sua vecchia camera,
dove entrò per cambiarsi d'abito.
Avrebbe voluto interrogare il vecchio servo, domandargli di Katiuscia, se stava
bene, che cosa faceva e se era fidanzata. Ma Ticòn era così ossequioso
e nello stesso tempo austero, insisteva con tanta fermezza per versargli lui
stesso l'acqua della brocca sulle mani, che Necliudov non osò chiedergli
nulla. Si limitò a domandargli notizie dei suoi nipoti, del vecchio cavallo,
del cane da guardia Polkàn. Tutti stavano bene, tranne Polkàn,
che l'anno prima era diventato idrofobo.
Si era appena tolto di dosso gli abiti bagnati e stava rivestendosi, quando
Necliudov udì un rumore di passi frettolosi e qualcuno bussò.
Egli riconobbe i passi e il modo di bussare. Lei sola camminava così,
lei sola bussava così...
Si buttò sulle spalle il cappotto fradicio e si avvicinò alla
porta.
- Avanti!
Era lei, Katiuscia. Sempre la stessa, ma ancora più graziosa di prima.
I suoi occhi neri, ingenui e leggermente strabici, guardavano sorridenti dal
sotto in sù. Come allora... E come allora indossava un candido grembiule
bianco. Gli aveva portato, da parte delle zie, un pezzo di sapone profumato,
appena tolto dalla carta, e due asciugamani, uno grande di tela russa, l'altro
di spugna. E la saponetta nuova con le lettere stampate e gli asciugamani e
lei stessa, avevano il medesimo aspetto pulito, fresco, intatto, piacevole.
Le sue labbra rosse, dolci e ferme, s'incresparono come allora alla vista di
lui, per la gioia irresistibile...
- Benvenuto, Dmitri Ivànovic'! - disse timidamente, arrossendo tutta.
- Come stai... Come state? - Non sapeva se darle del tu o del voi, e anche egli
arrossi. - Come va? bene?
- Sì, grazie a Dio! La zia vi manda il vostro sapone preferito, quello
alla rosa, - rispose Katiuscia, mettendo il sapone sulla tavola e gli asciugamani
sul bracciolo della poltrona.
- Ha il suo, - disse Ticòn, per difendere l'indipendenza dell'ospite,
mostrando con fierezza il grosso nécessaire con le borchie d'argento
aperto sulla tavola e pieno di boccette, spazzole, pomate, profumi e oggetti
da toeletta d'ogni genere e specie.
- Ringraziate la zia. Come son contento d'essere venuto! - disse Necliudov,
e sentiva che la sua anima si riempiva di luce e di tenerezza. Come una volta.
Lei rispose con un sorriso e usci.
Le zie, che amavano molto Necliudov, lo accolsero anche più affettuosamente
del solito. Dmitri andava in guerra, avrebbe potuto esser ferito, ucciso. Questo
pensiero turbava le due vecchie.
Necliudov aveva stabilito di fermarsi presso le zie non più di un giorno,
ma quando ebbe visto Katiuscia, accettò di trattenersi altri due giorni
per fare la Pasqua con loro. Telegrafò al suo compagno e amico Scembòk,
col quale aveva appuntamento a Odessa, di venire anche lui dalle zie.
Dal primo momento che rivide Katiuscia, Necliudov provò nuovamente per
lei il sentimento di un tempo. Come una volta, anche adesso gli bastava scorgere
il grembiule bianco di Katiuscia per sentirsi turbato; era felice quando udiva
i suoi passi, la sua voce, il suo riso; non poteva guardare senza tenerezza
i suoi occhioni neri come le more umide, soprattutto quando sorrideva; gli era
impossibile, poi, vedere senza confondersi come essa arrossiva, incontrandolo.
Capiva d'essere innamorato, ma non più come prima, quando l'amore era
per lui un mistero che non osava confessare neppure a se stesso. Allora era
convinto che si potesse amare una volta sola nella vita. Adesso sapeva d'essere
innamorato e ne gioiva, ma sapeva anche torbidamente, sebbene cercasse di nasconderselo,
in che consisteva il suo amore, e quale ne sarebbe stata la conclusione.
In Necliudov, come in tutti, c'erano due uomini: uno spirituale, che cercava
il bene proprio in accordo con quello altrui, e un altro animale, che cercava
il bene proprio soltanto in senso egoistico, e che per ottenerlo era disposto
a sacrificare il bene del mondo intero. Nello stato di folle egoismo in cui
si trovava allora, dopo la vita militare e quella di Pietroburgo, l'uomo animale
aveva preso in lui il sopravvento e soffocato quello spirituale.
Ma rivedendo Katiuscia e sentendosi rinascere in cuore il sentimento di un tempo,
l'uomo spirituale sollevò la testa, proclamando i suoi diritti. E in
Necliudov, durante quei due giorni prima di Pasqua, si svolse una lotta ininterrotta
e inconfessata.
Nell'intimo suo egli sapeva che avrebbe dovuto andarsene, che non era il caso
di trattenersi ancora dalle zie. Sapeva che non ne sarebbe derivato nulla di
buono. Ma d'altronde provava tanta gioia e tanto piacere che non ascoltò
la voce del dovere e rimase.
Il sabato sera, la vigilia di Pasqua, il prete e il diacono vennero in slitta
a servire il mattutino, percorrendo con molta fatica - così dissero -
le tre verste di strada fangosa che separavano la chiesa dalla proprietà
delle zie. Necliudov assistette alla funzione con le zie e la servitù.
Non poteva distogliere lo sguardo da Katiuscia, ritta presso la porta con l'incensiere
fra le mani. Egli scambiò il bacio pasquale col prete e con le zie, e
stava per ritirarsi nella sua camera, quando udì in corridoio la voce
di Matriona Pàvlovna, la vecchia cameriera di Maria Ivànovna,
che si preparava per recarsi in chiesa con Katiuscia a far benedire i kulicì
(3) e le pasque (4).
"Vado anch'io", egli pensò. La strada per la chiesa era impraticabile,
sia in carrozza sia in slitta, sicché Necliudov, che dalle zie si sentiva
come a casa propria, ordinò che gli sellassero il vecchio stallone. Invece
di andare a letto, indossò la sua brillante divisa coi calzoni attillati,
infilò il cappotto, e montato sul vecchio cavallo troppo nutrito, troppo
pesante e che continuava a nitrire, si recò in chiesa attraverso i campi
pieni di fango, di neve e di oscurità.
NOTE.
NOTA 1: Diminutivo di Maria.
NOTA 2: Diminutivo di sòfia.
NOTA 3: Focacce pasquali.
NOTA 4: Dolci pasquali fatti con latte cagliato.
15.
Quella funzione notturna rimase per Necliudov uno dei ricordi più vivi
e luminosi di tutta la sua vita.
La funzione era già cominciata quando, sguazzando nel fango e nel buio
pesto, solo qua e là rischiarato dal biancore della neve, egli entrò
nel cortile della chiesa in sella allo stallone che drizzava le orecchie alla
vista dei luminari accesi tutt'intorno.
I contadini, riconosciuto il nipote di Mària Ivànovna, lo condussero
all'asciutto per farlo scendere, legarono il cavallo e accompagnarono Necliudov
in chiesa. La chiesa era piena di una folla festosa.
A destra gli uomini, coi "caftani" di fattura casalinga, i "lapti"
(1) e le onùci(2) bianche e pulite; i giovani, coi "caftani"
nuovi di panno, le fusciacche a colori vivaci e gli stivali.
A sinistra le donne coi fazzoletti rossi di seta, i giubbetti di felpa dalle
maniche scarlatte, le gonne azzurre, verdi, rosse, d'ogni colore, e le scarpe
coi tacchi ferrati. Un gruppo di vecchiette coi fazzoletti bianchi, i "caftani"
grigi, le gonne di tela all'antica e le scarpe o i "lapti" nuovi,
si tenevano modestamente più in fondo. Tra le giovani e le vecchie, i
bambini in abito da festa, coi capelli lustri di grasso.
Gli uomini si facevano continuamente il segno della croce e s'inchinavano buttando
indietro i capelli. Le donne, soprattutto le più vecchie, fissando con
gli occhi scoloriti l'icona circondata di ceri, si premevano forte con le dita
raggruppate la fronte, le spalle e il ventre: e bisbigliando sommessamente,
si curvavano o s'inginocchiavano.
I bambini, ad imitazione dei grandi, pregavano con fervore se si sentivano osservati.
L'iconostasi d'oro splendeva di candele accese tutt'attorno a grossi ceri dorati.
Il candelabro era pieno di candele e dai cori giungevano le arie esultanti dei
cantori volontari, coi bassi cavernosi e i soprani acuti dei fanciulli.
Necliudov si portò avanti. Nel mezzo v'era l'aristocrazia: un possidente
con la moglie e il figlio in giacca alla marinara, il commissario, il telegrafista,
un mercante con un paio di stivaloni a soffietto, il decano con la sua medaglia.
A destra dell'ambone, dietro alla moglie del possidente, Matriona Pàvlovna,
con un abito lilla cangiante e uno scialle bianco, e Katiuscia vestita di bianco
col corpetto pieghettato, la cintura azzurra e un nastro rosso sui capelli neri.
Tutto aveva un'aria di festa, era solenne, gaio e bello: l'officiante con la
lucida pianeta d'argento su cui spiccavano le croci d'oro, il diacono e i sagrestani
con le stole d'oro e d'argento delle grandi solennità, i cantori volontari
coi vestiti della festa e i capelli unti di grasso, le liete arie danzerecce
dei canti pasquali, l'incessante gesto di benedizione che il prete rivolgeva
ai fedeli con tre candele ornate di fiori, e le esclamazioni di giubilo sempre
più frequenti: "Cristo è risorto! Cristo è risorto!".
Tutto era deliziosamente bello, ma più di tutto era bella Katiuscia,
col suo vestito bianco, la cintura azzurra, il nastrino rosso nei capelli neri
e gli occhi splendenti d'estasi. Necliudov s'accorse che Katiuscia, senza voltarsi
l'aveva visto. Se ne accorse mentre le passava davanti per avvicinarsi all'altare.
Non aveva nulla da dirle; ma inventò qualche cosa li per li e le sussurrò:
- La zia ha detto che cenerà dopo l'ultima messa.
Come sempre quando alzava gli occhi su di lui, il sangue giovanile imporporò
quel grazioso visetto e gli occhi neri ridenti di gioia si fissarono su Necliudov,
guardandolo ingenuamente da sotto in su.
- Lo so, - rispose la fanciulla sorridendo.
In quel momento il sagrestano, aprendosi un varco tra i fedeli con una caffettiera
di rame, passò accanto a Katiuscia, e senza guardarla la urtò
col lembo della stola, evidentemente per voler scansare Necliudov; ma Necliudov
si meravigliò che quell'uomo non capisse che ogni cosa, lì e altrove,
esisteva soltanto per onorare Katiuscia: tutto si poteva trascurare al mondo,
fuorché lei che ne era il centro. In onor suo splendeva l'oro dell'iconostasi,
e ardevano tutte quelle candele, per lei era il canto di letizia: "E'la
Pasqua del Signore, rallegratevi o uomini!", per lei era tutto ciò
che esisteva di buono al mondo. Gli sembrava che lo capisse anche Katiuscia.
Necliudov guardava la figuretta slanciata nella veste bianca a piegoline, il
viso intensamente radioso, e l'espressione di quel volto gli diceva che quanto
cantava a lui nell'anima cantava anche nell'anima di lei.
Nell'intervallo tra la prima e la seconda messa Necliudov uscì di chiesa.
La folla si apriva per lasciarlo passare e lo salutava. Alcuni lo riconoscevano,
altri s'informavano chi era. In fondo si fermò. I mendicanti lo attorniarono:
distribuì gli spiccioli che aveva nel borsellino e scese la scalinata.
Faceva abbastanza chiaro per vederci, ma il sole doveva ancora sorgere. La folla
s'era sparsa tra le tombe tutt'attorno alla chiesa. Katiuscia era sempre in
chiesa e Necliudov si fermò ad aspettarla.
I fedeli continuavano ad uscire, e battendo con gli stivali ferrati sul selciato,
scendevano i gradini della chiesa e si disperdevano per il sagrato e per il
cimitero.
Un vegliardo dalla testa tremante, il pasticcere di Mària Ivànovna,
fermò Necliudov e lo baciò tre volte, mentre sua moglie, una vecchietta
con un doppio mento rugoso sotto allo sciallino di seta, gli porgeva un uovo
giallo zafferano che aveva tolto da un fazzoletto. In quel momento si avvicinò
sorridendo un giovane contadino robusto, col giubbetto nuovo e la fusciacca
verde.
- Cristo è risorto! - egli disse con gli occhi ridenti, e avvicinatosi
a Necliudov lo baciò tre volte sulla bocca con le sue labbra sode e fresche,
solleticandogli il viso con la barbetta ricciuta e diffondendo intorno a sé
un buon odore di contadino.
Mentre Necliudov scambiava il bacio pasquale col giovane e ne accettava in dono
un uovo marrone scuro apparvero il vestito cangiante di Matriona Pàvlovna
e la cara testolina nera col nastro rosso. Katiuscia lo scorse subito attraverso
la folla che li separava, e il suo viso si illuminò di gioia.
Davanti alla porta della chiesa la fanciulla si fermò con Matriona Pàvlovna
per offrire l'elemosina ai poveri. Un mendicante, con una piaga rossa al posto
del naso, si accostò a Katiuscia. Essa cercò qualcosa nel fazzoletto
e gliela diede; poi gli si fece dappresso e senza mostrare la minima ripugnanza,
anzi con gli occhi sempre raggianti, scambiò con lui tre baci. In quel
momento il suo sguardo s'incontrò con quello di Necliudov. Sembrava domandare:
"Va bene ciò che faccio?".
"Si, sì, cara! tutto è bene, tutto è bello, ti amo!".
Esse scesero la scalinata e Necliudov andò loro incontro. Non aveva l'intenzione
di scambiare baci, voleva solo esserle più vicino.
- Cristo è risorto! - esclamò Matriona Pàvlovna, chinando
la testa e sorridendo, con l'aria di dire che in quel giorno erano tutti eguali;
e asciugatasi la bocca col fazzoletto che teneva sotto l'ascella, gli protese
le labbra.
- In verità è risorto! - rispose Necliudov scambiando i baci.
E guardò verso Katiuscia. Essa si fece di fuoco e subito si avvicinò
a lui.
- Cristo è risorto, Dmitri Ivànovic'!
- In verità è risorto, - ripeté lui. Si baciarono due volte,
e si fermarono incerti; poi quasi avessero deciso che era necessario proseguire,
si diedero il terzo bacio e sorrisero.
- Non andate dal prete? - domandò Necliudov.
- No, Dmitri Ivànovic', ci fermeremo qui, - rispose Katiuscia respirando
profondamente, a pieni polmoni, come dopo una fatica piacevole, e guardandolo
dritto negli occhi coi suoi lievemente strabici, colmi d'innocenza, di devozione
e di amore. Quando un uomo e una donna si amano, c'è sempre un momento
in cui l'amore si sublima al punto di non avere più in sé nulla
di cosciente, di razionale e neppure di sensuale. Così amava Necliudov
in quella santa notte di Pasqua.
Ora, mentre riandava col pensiero a Katiuscia, quel ricordo offuscava tutti
gli altri che egli conservava di lei.
Una testolina nera di capelli lisci e lucenti, un abito bianco pieghettato,
che fasciava castamente la figuretta snella, il piccolo seno, e quel rossore
e quegli occhi neri, teneri, brillanti, lievemente strabici... E quei due tratti
salienti di tutto il suo essere: la purezza, l'amore innocente non soltanto
per lui, Necliudov, ma per tutti e per tutto, per le cose belle di questo mondo
e per le altre che non sono belle, come il mendico che aveva baciato.
Quest'amore egli l'aveva sentito in lei, poiché l'aveva riconosciuto
anche nel proprio cuore, in quella notte di Pasqua, quando aveva capito che
le loro due anime si fondevano, per virtù d'amore, in un'anima sola.
Ah, se tutto si fosse fermato al sentimento provato allora!
"Sì! Tutto il male è successo soltanto dopo la notte di Pasqua!",
pensava ora Necliudov, seduto davanti alla finestra nella camera dei giurati.
NOTE.
NOTA 1: Calzature contadinesche di corteccia di betulla.
NOTA 2: Pezze da piedi.
16.
Di ritorno dalla chiesa, Necliudov aveva rotto il digiuno con le zie e per ristorarsi,
secondo un'abitudine presa al reggimento, aveva bevuto vodca e vino. Ritiratosi
poi nella sua camera si era addormentato di colpo, senza svestirsi. Fu risvegliato
da un picchio alla porta, e dal modo di bussare capì che era Katiuscia.
Subito si alzò stropicciandosi gli occhi e stirandosi.
- Katiuscia, sei tu? Entra, - disse alzandosi.
Essa socchiuse l'uscio.
- La colazione è pronta. - disse.
Aveva lo stesso vestito bianco, ma senza il nastro nei capelli.
Guardandolo negli occhi, splendeva tutta di gioia, come se gli avesse annunciato
qualcosa di straordinariamente bello.
- Vengo subito, - rispose lui, prendendo il pettine per ravviarsi i capelli.
Katiuscia esitò un attimo. Egli se ne accorse e, buttato il pettine,
si mosse verso di lei. Ma in quello stesso istante essa si voltò rapidamente,
e col suo passo lieve e rapido fuggì via lungo la passatoia del corridoio.
"Che scemo!", si disse Necliudov, "perché non l'ho trattenuta?".
E uscì di corsa nel corridoio per raggiungerla.
Neppure lui sapeva quel che volesse da lei. Ma gli sembrava che quando la fanciulla
era entrata nella sua camera, egli avrebbe dovuto fare qualche cosa che in circostanze
simili tutti gli uomini fanno.
- Katiuscia, fermati! - disse.
Essa si voltò.
- Che c'è? - domandò, rallentando il passo.
- Niente, soltanto...
Facendo uno sforzo su se stesso, e pensando all'atteggiamento che in generale
assumono gli uomini in simili casi, abbracciò Katiuscia per la vita.
Lei si fermò e lo guardò negli occhi:
- Non sta bene, Dmitri Ivànovic', non sta bene - mormorò arrossendo
fino alle lacrime, e con la mano ruvida e forte allontanò il braccio
che la cingeva. Necliudov la lasciò. Per un attimo fu assalito da un
senso di disagio e di vergogna, e provò persino ripugnanza di sé.
Se avesse avuto fiducia in se stesso avrebbe capito che quell'imbarazzo e quella
vergogna erano i migliori sentimenti dell'animo suo che chiedevano d'essere
ascoltati. Egli pensò invece che sarebbe stata una sciocchezza non agire
come chiunque altro avrebbe fatto. La rincorse ancora, l'abbracciò e
la baciò sul collo. Un bacio ben diverso dagli altri che le aveva già
dato, la prima volta, inconsciamente, dietro i cespugli di lillà, e poi
quella mattina, in chiesa. Questo bacio era terribile e Katiuscia lo sentì.
- Ma che fate? - gridò, come se egli avesse spezzato senza rimedio qualcosa
di infinitamente prezioso. E scappò via di corsa.
Necliudov entrò nella sala da pranzo. Le zie in abito elegante, il dottore
e una vicina stavano davanti alla tavola degli antipasti. Tutto si svolgeva
nel modo consueto, ma l'animo di Necliudov era in tempesta.
Non capiva una parola di ciò che gli dicevano, rispondeva a casaccio.
Pensava solo a Katiuscia e alla sensazione di quell'ultimo bacio in corridoio.
Non poteva pensare ad altro. Quando lei entrò, sentì con tutto
il suo essere, senza guardarla, la sua presenza; doveva imporsi uno sforzo per
non alzare gli occhi su di lei.
Dopo il pranzo, salì subito nella sua camera. Turbato, agitatissimo,
camminò a lungo in sù e in giù, tendendo l'orecchio ai
suoni della casa e aspettando di udire il suo passo. L'uomo animale che viveva
in lui non solo aveva rialzato la testa ma s'era messo sotto ai piedi l'uomo
spirituale che egli era stato tempo addietro e quella stessa mattina in chiesa.
Ora l'uomo animale spadroneggiava, solo, nel suo animo.
Nonostante che avesse continuato tutto il giorno a farle la posta, non gli riuscì
di trovarsi a tu per tu con Katiuscia neppure una volta. Probabilmente lo evitava.
Però, verso sera, essa fu costretta ad entrare nella camera attigua a
quella occupata da lui; doveva preparare il letto al dottore che avrebbe passato
lì la notte. All'udire i suoi passi, Necliudov, camminando in punta di
piedi e trattenendo il fiato come se si accingesse a commettere un delitto,
la seguì nella camera.
Tenendo aperta con le mani l'imboccatura di una fodera di bucato per infilarvi
un cuscino, essa si voltò e gli sorrise.
Non era più il sorriso lieto e radioso di prima; era un sorriso spaventato
e commovente; sembrava dirgli che quanto egli faceva era male... Per un attimo
esitò. In quel momento avrebbe ancora potuto lottare con se stesso. Sebbene
fievole, sentiva ancora la voce del vero amore che gli parlava di lei, dei sentimenti
di lei, della vita di lei.
L'altra voce diceva: bada, ti lascerai sfuggire il tuo piacere, la tua felicità.
E quella voce soffocò la prima. Le si avvicinò risolutamente.
Un istinto bestiale, orribilmente sfrenato, si impadronì di lui. Tenendola
stretta fra le braccia, Necliudov la fece sedere sul letto e con la sensazione
di dover fare qualcosa ancora, le sedette accanto.
- Dmitri Ivànovic', caro, lasciatemi, ve ne prego! - disse lei con voce
supplichevole. - Matriona Pàvlovna sta venendo! - gridò svincolandosi;
e veramente qualcuno si avvicinava.
- Allora verrò da te stanotte, - mormorò Necliudov, - sei sola,
non è vero?
- Che dite? No assolutamente! E' male! - essa protestò, ma solo con le
labbra, poiché tutto l'essere suo tumultuosamente turbato, parlava un
altro linguaggio.
Matriona Pàvlovna stava realmente sopraggiungendo. Essa entrò
nella camera con una coperta sul braccio e lanciato a Necliudov uno sguardo
di rimprovero, sgridò aspramente Katiuscia perché non aveva preso
la coperta giusta. Necliudov uscì in silenzio. Non provava neppure vergogna.
Dall'espressione del suo volto aveva capito che Matriona Pàvlovna lo
biasimava, e sapeva che aveva ragione di biasimarlo poiché ciò
che egli stava facendo era male. Ma l'istinto bruto che si era sostituito all'amore
buono di prima per Katiuscia, s'era impadronito di lui e lo dominava incontrastato,
sordo a qualsiasi voce. Egli adesso sapeva che cosa bisognava fare per appagare
quell'istinto e pensava soltanto ai mezzi per soddisfarlo.
Tutta la serata fu inquieto; ora dalle zie, ora in camera sua o fuori nell'ingresso,
non pensando ad altro che al modo di vederla sola. Ma essa lo evitava e Matriona
Pàvlovna faceva del suo meglio per non perderla di vista.
17.
Così passò tutta la sera e venne la notte. Il dottore andò
a letto, le zie si ritirarono. Necliudov sapeva che Matriona Pàvlovna
si trovava nella camera delle zie e che Katiuscia era sola nella stanza della
servitù. Uscì di nuovo sulla scalinata. La notte era buia, umida,
calda, e l'aria impregnata di quella nebbia bianca che in primavera disperde
l'ultima neve o si solleva dall'ultima neve che si scioglie. Dal fiume che scorreva
a un centinaio di passi, sotto la scarpata davanti alla casa, giungevano strani
rumori: era il ghiaccio in disgelo.
Necliudov scese la scala d'ingresso e scavalcando le pozzanghere di neve sciolta,
fece il giro della casa fino alla finestra delle stanze di servizio. Il cuore
gli martellava nel petto tanto forte che ne udiva i battiti; il suo respiro
ora si fermava, ora erompeva più profondo e pesante. Nella stanza ardeva
una piccola lampada; Katiuscia, sola, sedeva soprappensiero davanti alla tavola,
con lo sguardo fisso nel vuoto. Necliudov, immobile, la osservò lungamente,
curioso di vedere che cosa avrebbe fatto, non sapendo di essere osservata. Per
qualche minuto rimase immobile, poi alzò lo sguardo, sorrise, tentennò
il capo quasi per rimproverarsi; infine si riscosse, appoggiò bruscamente
le due mani sulla tavola e fissò gli occhi nel buio che le stava davanti.
Egli continuava a guardarla e involontariamente ascoltava il battito del proprio
cuore e i rumori strani che giungevano dal fiume. Laggiù, nella nebbia,
si compiva un lavorio lento, incessante: s'udivano soffi, scricchiolii, schianti;
e il tintinnio dei sottili blocchi di ghiaccio che risuonavano come vetro.
Necliudov, immobile, osservava il volto pensieroso di Katiuscia, angustiato
da una pena interiore. Aveva compassione di lei, ma, cosa strana, questa pietà
non faceva che acuire la sua brama di possesso. Bruciava per il desiderio di
lei. Bussò alla finestra.
Katiuscia, come colpita da una scossa elettrica, sussultò violentemente
in tutto il corpo, e un'espressione di terrore le si dipinse sul viso. Ma poi
balzò in piedi, si avvicinò alla finestra e accostò la
faccia al vetro. L'espressione sgomenta perdurò sul suo viso anche quando,
facendosi schermo agli occhi con le palme, l'ebbe riconosciuto. Il suo aspetto
era insolitamente serio. Mai egli l'aveva vista così. Essa sorrise solo
in risposta al sorriso di lui, come in segno di sottomissione, ma l'anima sua
non sorrideva, era piena di terrore. Egli le fece un segno con la mano per invitarla
ad uscire fuori con lui. Katiuscia scosse il capo negativamente, e rimase alla
finestra. Egli accostò di nuovo il viso al vetro e voleva gridarle di
uscire, ma in quel momento lei si voltò verso la porta: qualcuno doveva
averla chiamata. Necliudov si scostò dalla finestra. La nebbia era così
fitta che a cinque passi di distanza non si distinguevano le finestre della
casa; s'intravvedeva soltanto una massa oscura in cui brillava la luce rossa,
che sembrava enorme, della lampada.
Sul fiume sempre lo stesso frusciare e brontolare, lo stesso scricchiolare sonoro
del ghiaccio. Nel cortile un gallo cantò; i più vicini gli fecero
eco, poi si udirono quelli delle campagne più lontane, e i loro richiami
si incrociavano e si fondevano in un solo chicchirichì. Ma tutto all'intorno,
ad eccezione del fiume, regnava il silenzio. I secondi galli avevano cantato.
Dopo aver passeggiato un poco in sù e in giù oltre l'angolo della
casa, inciampando nelle pozzanghere, Necliudov si avvicinò nuovamente
alla camera di servizio. La lampada era sempre accesa, e Katiuscia, sola, s'era
tornata a sedere davanti al tavolo e sembrava indecisa. Appena si fu avvicinato
alla finestra, alzò gli occhi su di lui. Egli bussò. Senza neppure
guardare chi aveva picchiato, uscì di corsa dalla camera ed egli udì
la porta d'entrata aprirsi e cigolare. Necliudov corse ad aspettarla sull'ingresso
e subito, senza parlarle, l'abbracciò. Essa si strinse a lui e incontrò
con le labbra il suo bacio. Erano in piedi in un angolo asciutto vicino all'ingresso,
ed egli ardeva tutto di un desiderio tormentoso, insoddisfatto. Improvvisamente
la porta d'ingresso si aprì di nuovo con lo stesso cigolio di prima e
Matriona Pàvlovna gridò:
- Katiuscia!
La ragazza si strappò dalle sue braccia e rientrò in camera, ed
egli udì il rumore secco del paletto. Poi tutto tacque, l'occhio rosso
alla finestra scomparve, non rimase che la nebbia e lo strepito del fiume. Necliudov
ritornò alla finestra. Non si vedeva nessuno. Bussò, nulla gli
rispose. Ritornò in casa dall'ingresso principale, ma non si coricò.
Si tolse gli stivali e a piedi scalzi percorse il corridoio fino alla camera
di Matriona Pàvlovna attigua a quella di Katiuscia. Stette in ascolto:
la udì russare tranquillamente. Stava per proseguire quando la donna
si mise improvvisamente a tossire e si rivoltò facendo scricchiolare
il letto. Egli trattenne il respiro e non si mosse per qualche minuto. Quando
ritornò la calma e di nuovo udì russare tranquillamente, si rimise
in moto cercando di non far scricchiolare le assi del pavimento, e raggiunse
la porta della camera di Katiuscia. Tutto era tranquillo, ma evidentemente essa
non dormiva, giacché non si udiva il suo respiro. Appena egli ebbe sussurrato
"Katiuscia" essa balzò in piedi, corse alla porta e con una
voce che gli sembrò adirata, lo pregò di andarsene. - Ma che vi
piglia? Che è forse possibile? Le zie sentiranno... - dicevano le sue
labbra, ma tutto il suo essere diceva: "Sono tua, tua!". E questo
soltanto capì Necliudov.
- Via, solo un momento aprimi, te ne supplico... - mormorava parole insensate.
Essa tacque. Poi egli udì le sue mani che annaspavano in cerca del paletto.
Il gancio scattò e Necliudov varcò la porta aperta.
La ghermì, così com'era, nella camicia di ruvida tela greggia
senza maniche, la prese fra le braccia e la portò via.
- Ah! che fate? - essa mormorava. Ma lui, senza badare alle sue parole, se la
portava nella sua camera.
- Ah! non dovete farlo, lasciatemi! - diceva, e intanto si stringeva a lui.
Quando, tremante e taciturna, senza rispondere alle sue parole, essa l'ebbe
lasciato, Necliudov uscì all'aperto. Si fermò sulla scalinata,
sforzandosi di afferrare il senso di quanto era avvenuto.
Cominciava ad albeggiare: giù al fiume, il crepitio, il tintinnio e l'ansito
dei ghiacci s'era fatto più forte, e ai rumori di prima s'era aggiunto
il mormorio dell'acqua. La nebbia cominciò a diradarsi, e dietro al suo
velo apparve la luna calante, illuminando cupamente qualcosa di nero e di terribile.
"Che è dunque questo? Una grande felicità o una grande disgrazia?",
si chiedeva. "Succede sempre così... Tutti sono così!",
si disse, e andò a dormire.
18.
L'indomani il brillante e allegro Scembòk venne a raggiungere Necliudov
in casa delle zie. Con la sua eleganza, i modi gentili e giovanili, la generosità
e l'affetto che dimostrava a Dmitri, seppe cattivarsi tutta la simpatia delle
due vecchiette. La sua munificenza, sebbene alle zie fosse piaciuta, le lasciò
tuttavia un po' perplesse, poiché sembrava loro esagerata. Ad alcuni
mendicanti ciechi aveva dato un rublo; alla servitù in mance ne aveva
distribuiti quindici: e quando Susètka, la cagnolina di Sòfia
Ivànovna, s'era fatta male a una zampina, non aveva esitato un attimo
a strappare il suo fazzoletto di batista finemente orlato per farle una fasciatura.
E Sòfia Ivànovna sapeva che fazzoletti di quel genere costavano
non meno di quindici rubli la dozzina.
Le zie non avevano mai conosciuto tipi simili; ignoravano che quello Scèmbok
aveva duecentomila rubli di debiti, che non avrebbe mai pagato.
Perciò venticinque rubli in più o in meno per lui non contavano
nulla.
Scembòk si trattenne un giorno soltanto, e la notte successiva partì
con Necliudov. Non potevano prolungare il loro soggiorno giacché scadeva
il termine per presentarsi al reggimento.
Nell'animo di Necliudov in quell'ultimo giorno che passò in casa delle
zie, ancor fresco del ricordo della notte, lottarono senza tregua due sentimenti.
Uno, a parte l'orgoglio di aver raggiunto la meta, era fatto di sensazioni brucianti,
sensuali, che gli rievocavano un piacere in realtà assai inferiore a
quello che s'era ripromesso. L'altro gli veniva dalla coscienza di aver commesso
un'azione molto brutta, alla quale doveva rimediare, non tanto per lei, quanto
per se stesso. Nello stato di folle egoismo in cui si trovava, Necliudov pensava
soltanto a sé: si domandava se il mondo lo avrebbe condannato e fino
a che punto, qualora si fosse venuto a sapere come s'era condotto con Katiuscia.
Non si preoccupava di quanto la fanciulla poteva provare, né di ciò
che sarebbe stato di lei.
Pensava che forse Scembòk aveva indovinato i suoi rapporti con Katiuscia,
e ciò lusingava il suo amor proprio.
- Ecco perché tutt'a un tratto ti sei tanto affezionato alle zie, - gli
disse Scembòk, quand'ebbe visto Katiuscia, - e perché da una settimana
te ne stai qua. Anch'io al tuo posto non me ne sarei andato! Incantevole!
Pensava inoltre che, sebbene gli dispiacesse di andarsene prima di aver potuto
saziare il suo desiderio, quella partenza obbligatoria aveva il vantaggio di
troncar netto una relazione che sarebbe stato difficile mantenere. E poi pensava
ancora che doveva darle del denaro: non perché le potesse servire, ma
perché tutti facevano sempre così, ed egli sarebbe stato considerato
un disonesto se, dopo averne approfittato, non l'avesse pagata. Le diede dunque
del denaro: quanto riteneva decoroso per la sua condizione e per quella di lei.
Il giorno della partenza, dopo il pranzo, l'aspettò nell'ingresso. Vedendolo,
essa divenne di brace e fece per proseguire, accennando con lo sguardo la porta
aperta della camera di servizio, ma egli la trattenne.
- Volevo salutarti,- disse, spiegazzando fra le dita la busta con un biglietto
da cento rubli. - Ecco, io...
Essa presentì, si oscurò in volto e scuotendo la testa respinse
la sua mano.
- No, prendi, - egli balbettò e le infilò la busta nel corsetto.
Poi, con una smorfia di dolore e gemendo come se si fosse scottato, corse nella
sua camera.
Per un pezzo continuò a camminare avanti e indietro, e al ricordo di
quella scena si contorceva, faceva salti e si lamentava forte, come per un dolore
fisico.
Ma che fare? Sempre così succedeva... Così aveva fatto Scembòk
con quella governante di cui gli aveva parlato, così lo zio Griscia,
così suo padre, al tempo in cui viveva in campagna, quando aveva avuto
un figlio illegittimo, quel Mitienka che viveva tuttora. E se tutti facevano
così, voleva dire che così era giusto fare...
Con questi ragionamenti egli cercava di confortarsi, ma non ci riusciva. Il
ricordo gli bruciava la coscienza.
In fondo in fondo all'animo sapeva di aver agito in un modo così indegno,
abietto, crudele che, essendone conscio, perdeva non soltanto il diritto di
giudicare gli altri, ma persino di guardare in faccia la gente.
Come avrebbe potuto ancora considerarsi un bravissimo giovane, d'animo elevato
e generoso? Ma siccome quell'alto concetto di sé gli era indispensabile
per continuare a vivere allegro e baldanzoso, per conservarlo non gli rimaneva
che un mezzo: non pensarci più. E così fece.
La nuova esistenza che s'iniziava per lui - i paesi diversi, i compagni, la
guerra - l'aiutarono a dimenticare.
E più viveva e più dimenticava. Sicché finì col
dimenticare veramente tutto.
Una volta sola s'era sentito stringere il cuore, quando, finita la guerra, era
passato dalle zie con la speranza di vederla, e aveva saputo che Katiuscia non
c'era più, che se n'era andata poco dopo la sua partenza per partorire...
In qualche posto aveva messo al mondo un bambino e poi, a quanto avevano sentito
dire, s'era guastata del tutto. Dalle date, il bambino poteva essere il suo.
Ma avrebbe potuto anche non esserlo. Le zie dicevano che s'era rovinata, che
aveva una natura corrotta come la madre: E questo giudizio gli aveva fatto piacere,
poiché in certo qual modo valeva ad assolverlo.
In principio, tuttavia, avrebbe voluto rintracciare lei e il bambino, ma siccome
nell'intimo suo si vergognava e soffriva troppo a quel ricordo, aveva condotto
le ricerche con scarso impegno, s'era dimenticato ancor più la sua colpa
e alla fine aveva cessato di pensarci.
Ed ora, per una fatale combinazione, tutti i ricordi si risvegliavano ed egli
si trovava costretto ad ammettere la propria mancanza di cuore, la crudeltà
e la viltà che gli avevano permesso di vivere tranquillamente dieci anni
con un peccato simile sulla coscienza. Ma ancora lontano da una simile ammissione,
egli adesso si preoccupava soltanto del pericolo che il fatto si risapesse e
che lei o il suo difensore raccontassero ogni cosa e lo svergognassero davanti
a tutti.
19.
In questo stato d'animo si trovava Necliudov quando uscì dall'aula del
processo per entrare nella stanza dei giurati. Seduto accanto alla finestra
ascoltava i discorsi che si svolgevano attorno a lui e fumava senza tregua.
L'allegro mercante evidentemente approvava con tutto il cuore il modo di passare
il tempo dello Smielkòv.
- Eh! mio caro, se la spassava sul serio, alla siberiana. Non aveva mica cattivo
gusto... Che bel pezzo di ragazza!
Il capo dei giurati osservava che, secondo lui, tutto dipendeva dalla perizia
medica. Piotr Gherassimovic scherzava col commesso ebreo. Ridevano tutti e due.
Necliudov rispondeva a monosillabi alle domande che gli facevano; desiderava
solo d'esser lasciato in pace. Quando l'usciere dall'andatura zoppicante richiamò
di nuovo i giurati nella sala delle udienze, Necliudov provò un senso
di terrore, come se fosse chiamato non per giudicare ma per essere giudicato.
In fondo all'anima sentiva di essere un miserabile, indegno di guardare in faccia
la gente. Ma per forza d'abitudine salì sul pretorio con le movenze disinvolte
che gli erano consuete e sedette al suo posto, il secondo dopo il capo, accavallando
le gambe e gingillandosi col pince-nez.
Gli imputati, che erano stati condotti via, furono fatti rientrare.
In sala facce nuove, i testimoni. Necliudov notò che la Màslova
aveva guardato più volte, come affascinata, una donna grassa, vestita
vistosamente di seta e di velluto, con un cappello alto adorno di un gran nastro
e un elegante "ridicule" (1) sul braccio nudo fino al gomito seduta
in prima fila davanti alla sbarra. Una testimone: come seppe poi, la padrona
della casa di tolleranza della Màslova.
Incominciò l'escussione dei testi: nome, religione, eccetera.
Il presidente domandò alle parti se volevano interrogare sotto giuramento
o no, e subito dopo entrò di nuovo il solito vecchio prete, che trascinando
i piedi e toccandosi la croce d'oro sul petto, con la solita imperturbabile
certezza di compiere un'opera quanto mai utile ed importante, fece prestare
giuramento ai testimoni e al perito. Terminato il giuramento, tutti i testimoni
furono fatti uscire, tranne uno, che era appunto la Kitàieva, la padrona
della casa di tolleranza. Le fu domandato che cosa sapeva del delitto.
La Kitàieva, con un sorriso affettato, affondando ad ogni frase la testa
nel cappello, fece con accento spiccatamente tedesco un racconto particolareggiato
e preciso.
Un giorno era venuto da lei il cameriere d'albergo Simòn, che già
conosceva, a cercare una ragazza per un ricco mercante siberiano. Lei aveva
mandato la Liubascia (2). Dopo un po', la Liubascia era ritornata col mercante.
- Il mercante era già in estasi, - disse la Kitàieva sorridendo
lievemente - e da noi continuò a bere e a offrire da bere alle ragazze.
Ma siccome era rimasto senza denaro, mandò nella sua camera all'albergo
la Liubascia che era divenuta la sua prediletta, voltandosi a guardare l'imputata.
Sembrò a Necliudov che la Màslova sorridesse a quelle parole e
quel sorriso gli parve ripugnante. Una sensazione strana, indefinibile, di disgusto
e di pietà si sollevò in lui.
- Che opinione avevate della Màslova? - domandò tutto rosso e
timido il difensore d'ufficio della Màslova, un giovane candidato alla
magistratura.
- Ottima, - rispose la Kitàieva, - una ragazza istruita, elegante. E'
cresciuta in una buona famiglia e sapeva leggere anche il francese. Qualche
volta beveva un po' troppo, ma non si è mai lasciata andare. Proprio
una brava ragazza.
Katiuscia guardava la padrona. Poi ad un tratto, girò gli occhi sui giurati
fermandosi su Necliudov, mentre il suo viso si faceva serio e quasi duro. Quei
due occhi dall'espressione strana indugiarono abbastanza a lungo su Necliudov,
ed egli, nonostante il terrore che l'aveva invaso, non riusciva a distogliere
lo sguardo da quegli occhi strabici dal bianco luminosamente chiaro.
Rivide la notte terribile col ghiaccio che si spezzava, la nebbia, e quella
falce di luna calante che s'era levata sul mattino a illuminare qualcosa di
cupo e di spaventoso. Quei due occhi neri che guardavano lui e oltre lui, gli
riportavano il ricordo di quella cosa nera e spaventosa.
"Mi ha riconosciuto!", pensò. E si fece piccino, in attesa
del colpo.
Ma essa non l'aveva riconosciuto. Sospirò tranquilla e riportò
lo sguardo sul presidente. Anche Necliudov sospirò.
"Ah, se finisse in fretta", pensò. Provava la stessa sensazione
di quando a caccia doveva dare il colpo di grazia a un uccello ferito; ribrezzo,
pietà e rammarico... L'uccello ferito si dibatte nel carniere, è
disgustoso, fa pena e si desidera di finirlo in fretta per non pensarci più.
Un simile miscuglio di sentimenti provava ora Necliudov ascoltando l'interrogatorio
dei testi.
NOTE.
NOTA 1: Sta per reticule, borsetta per signora.
NOTA 2: Altro diminutivo di Liubòv.
20.
Ma, quasi a farlo apposta, le cose andavano per le lunghe. Dopo l'escussione
dei singoli testi e del perito, dopo le molte domande inutili fatte con aria
d'importanza dal sostituto procuratore e dai difensori, il presidente invitò
i giurati ad esaminare i corpi del reato: un grosso anello con una rosetta di
brillanti che evidentemente doveva aver ornato un indice gigantesco, e il filtro
attraverso il quale s'era esaminato il veleno. Ogni oggetto era sigillato e
portava l'etichetta.
I giurati si disponevano a seguire l'invito del presidente, quando il sostituto
procuratore si sollevò di nuovo e richiese che prima di procedere all'esame
dei corpi del reato, fosse data lettura della perizia medico-necroscopica.
Il presidente, che conduceva il processo a ritmo accelerato per poter correre
dalla sua svizzera, sapeva perfettamente che la lettura di quel documento non
avrebbe avuto altro effetto che di annoiare tutti e di ritardare l'ora del pranzo;
ma non osò opporsi e dette il suo consenso, ben sapendo che il sostituto
procuratore esigeva quella lettura solo perché ne aveva il diritto.
Il cancelliere prese un foglio e con la sua voce blesa e monotona incominciò
a leggere.
- "Dall'esame esterno è risultato che:
1) La statura di Terapònt Smielkòv era di due arscìni (1)
e dodici verskì" (2).
- Un bel pezzo d'uomo! - sussurrò impensierito il mercante all'orecchio
di Necliudov.
- "2) A giudicare dall'aspetto, doveva avere circa quarant'anni.
3) Il cadavere era tumefatto;
4) Il colore della pelle verdastro, qua e là chiazzato di macchie scure;
5) L'epidermide formava vesciche di differente grandezza e in certi punti si
era staccata cascando a brandelli;
6) I capelli bruni e folti, al minimo tocco si staccavano dal cuoio capelluto;
7) Gli occhi uscivano dalle orbite e la cornea era opaca;
8) Dalle narici, dalle orecchie e dalla cavità orale semiaperta, colava
un liquido schiumoso e fetido;
9) Il collo era quasi scomparso, in seguito al gonfiore della faccia e del petto".
E così via di seguito.
Per quattro pagine e ventisette paragrafi, continuava la descrizione di tutti
i particolari notati sul cadavere raccapricciante, enorme, grasso e per giunta
gonfio e in decomposizione, di quel mercante che era venuto in città
a far bisboccia. La sensazione di indefinibile disgusto che già provava
Necliudov, si accresceva sempre più alla lettura di quella macabra descrizione.
Gli parve allora che la vita di Katiuscia e il pus che colava dalle narici,
gli occhi che uscivano dalle orbite e il male che egli le aveva fatto fossero
tutte sozzure dello stesso genere; e da ogni parte se ne sentiva circondato
e inghiottito. Quando finalmente terminò la lettura dell'esame esteriore,
il presidente trasse un sospiro di sollievo e alzò la testa. Sperava
che fosse finita. Ma il cancelliere riprese subito la lettura dell'esame interno.
Il presidente riabbassò la testa e appoggiatola sul braccio, chiuse gli
occhi. Il mercante seduto accanto a Necliudov faceva fatica a rimanere sveglio
e di tanto in tanto ciondolava; gli imputati, come i gendarmi che li sorvegliavano,
sedevano immobili.
Dall'esame interno risultava che:
1) I tegumenti del cranio si staccavano facilmente dalle ossa e non vi si notavano
ecchimosi.
2) Le ossa del cranio erano di media grossezza e intatte.
3) Nella dura madre si notavano due piccole macchie pigmentate della grandezza
di circa quattro diùimi (3), la meninge si presentava di un colore biancastro.
E così via, per altri tredici paragrafi.
Seguivano i nomi dei testimoni all'autopsia, le firme e infine le conclusioni
del perito settore, dalle quali risultava evidente che le alterazioni nello
stomaco e in parte negli intestini e nei reni, riscontrate durante l'autopsia
e descritte nel verbale, davano ragione di concludere, con la massima probabilità,
che la morte dello Smielkòv era avvenuta per effetto di un veleno introdotto
nello stomaco insieme col vino. Era difficile dire, dalle alterazioni riscontrate
nello stomaco e negli intestini, di che veleno esattamente si trattasse; ma
che il veleno fosse stato introdotto nello stomaco col vino, lo si poteva dedurre
dal fatto che nello stomaco dello Smielkòv di vino se ne era trovato
molto.
- Si capisce che sapeva bere! - sussurrò di nuovo il mercante che s'era
risvegliato.
La lettura di questo verbale era durata circa un'ora, e tuttavia non bastò
al sostituto procuratore. Quando fu letto tutto, il presidente si rivolse a
lui. - Ritengo superfluo leggere gli atti dell'analisi dei visceri.
- Io chiederei di darne lettura, - disse severamente il sostituto procuratore
senza guardare il presidente, sollevandosi un poco su un fianco e facendo sentire
col tono della voce che esigere quella lettura era un suo diritto al quale non
avrebbe mai rinunciato, e che un rifiuto sarebbe stato motivo di ricorso in
Cassazione.
Il giudice con la barba lunga e le borse sotto gli occhi buoni, sentendosi molto
debole per il catarro di cui soffriva, si rivolse al presidente.
- Ma perché leggere questa roba? Non serve che a tirare in lungo. Queste
nuove scope non puliscono meglio ma più lentamente.
Il giudice con gli occhiali d'oro non disse nulla. Guardava cupo e risoluto
davanti a sé, non aspettandosi niente di buono né da sua moglie
ne dalla vita.
La lettura del verbale cominciò.
- "Il 15 febbraio milleottocento... io sottoscritto, per incarico della
sezione medica n. 638", - cominciò deciso il cancelliere alzando
il tono della voce quasi volesse vincere il sonno che opprimeva tutti, - "in
presenza dell'assistente dell'ispettore medico, ho proceduto all'analisi delle
seguenti viscere:
"1) Il polmone destro e il cuore (in un vaso di vetro di sei funti (4).
"2) Il contenuto dello stomaco (in un vaso di vetro di sei funti).
"3) Lo stomaco (in un vaso di vetro di sei funti).
"4) Il fegato, la milza e i reni (in un vaso di vetro di sei funti).
"5) Gli intestini (in un vaso d'argilla di sei funti).
All'inizio della lettura il presidente sussurrò qualcosa, prima all'orecchio
di un giudice, poi a quello dell'altro, e alla loro risposta affermativa interruppe
il cancelliere.
- La Corte ritiene superflua la lettura dell'atto, - disse.
Il cancelliere tacque e raccolse i fogli. Il sostituto procuratore annotò
qualcosa rabbiosamente.
- I signori giurati possono esaminare i corpi del reato, - soggiunse il presidente.
Il capo e alcuni giurati si alzarono impacciati, non sapendo come muovere o
dove mettere le mani; si avvicinarono al tavolo, e l'uno dopo l'altro osservarono
l'anello, la boccetta, il filtro. Il mercante si provò persino l'anello.
- Be', aveva un bel dito! - disse ritornando al suo posto. - Come un bel cetriolo,
- soggiunse, evidentemente divertito dall'idea del colosso che doveva esser
stato il defunto mercante.
NOTE.
NOTA 1: L'arscin equivale a settantun centimetri.
NOTA 2: Il versòk è pari a quattro centimetri e mezzo.
NOTA 3: Il diùim equivale a circa due centimetri e mezzo.
NOTA 4: Il funt è pari a quarantun grammi.
21.
Finito l'esame dei corpi di reato, il presidente dichiarò chiusa l'inchiesta,
e senza intervalli, ansioso com'era di sbrigarsela, diede la parola al pubblico
ministero. Sperava di avere a che fare con un uomo come tutti gli altri, che
avesse voglia di fumare, di andare a pranzo e che avrebbe avuto pietà
di loro.
Ma il sostituto procuratore non ebbe pietà né di sé né
degli altri. Assai ottuso per natura, aveva avuto inoltre la disgrazia di finire
il liceo con la medaglia d'oro e di esser stato premiato all'università
per la sua tesi sulla servitù nel diritto romano. Era perciò tronfio
e soddisfatto al massimo grado, al che contribuiva anche il suo successo con
le signore; era, insomma, superlativamente stupido.
Quando gli fu data la parola, si alzò lentamente, mettendo in mostra
la sua figura elegante nell'uniforme ricamata, e posate sul banco le mani, la
testa un poco reclinata, girò gli occhi sulla sala, evitando di guardare
gli imputati, poi cominciò a parlare:
- Il fatto, signori giurati, sul quale siete chiamati a pronunciarvi, - cominciò
il suo discorso che aveva preparato durante la lettura dei verbali - è,
se così mi è concesso di esprimermi, un delitto caratteristico.
A parer suo, la requisitoria del sostituto procuratore, doveva sempre avere
una portata sociale, come le arringhe degli avvocati più celebri. Tutto
il suo auditorio, veramente, era formato soltanto da un vetturino e da tre donne:
una cucitrice, una cuoca e la sorella di Simòn; ma ciò non aveva
importanza alcuna. Anche quei luminari del foro avevano cominciato così.
Il sostituto procuratore, per principio, doveva essere sempre all'altezza della
sua posizione, che gli imponeva di penetrare l'intimo significato psicologico
di un delitto, mettendo a nudo le piaghe della società.
- Voi avete davanti, signori giurati, un delitto caratteristico, se così
posso esprimermi, di fine secolo, un delitto che racchiude in sé, per
così dire, gli elementi specifici del doloroso fenomeno di decomposizione
cui sono soggetti, nella nostra epoca, quegli elementi della nostra società
che vediamo esposti qui, per così dire più direttamente, ai raggi
scottanti di questo processo...
Il sostituto procuratore parlò assai a lungo, cercando da un lato di
non dimenticare nessuna delle cose intelligenti che aveva pensato, e dall'altro,
ed era l'essenziale, di non fermarsi neppure un istante, di modo che la sua
arringa filasse senza interruzioni per un'ora e un quarto. Una volta sola si
fermò, e inghiottì la saliva parecchie volte, ma si riprese in
fretta e ricuperò il ritardo con un rincalzo di eloquenza.
Ora parlava con voce dolce, insinuante, appoggiandosi un po' su un piede un
po' sull'altro e guardando i giurati, ora con tono calmo e professionale, consultando
i suoi appunti, ora con voce tonante, accusatrice, volgendo lo sguardo dagli
spettatori ai giurati.
Ma non degnò mai di uno sguardo gli imputati che, con gli occhi fissi
su di lui, pendevano dalle sue labbra.
In quell'arringa c'eran tutte le teorie più recenti in voga nella società
alla quale egli apparteneva, che le considerava e le considera come l'ultima
parola della scienza. Vi era l'ereditarietà, la delinquenza congenita,
Lombroso e Tarde, l'evoluzione, la lotta per l'esistenza, l'ipnotismo, la suggestione,
Charcot, il decadentismo.
Il mercante Smielkòv, come egli lo definì, era il vero tipo del
russo vigoroso e primitivo, una natura aperta, che per il suo carattere credulo
e generoso era diventato la vittima degli individui profondamente corrotti in
balia dei quali era caduto.
Simòn Kartinkin era il prodotto atavico del servaggio secolare: un bruto,
senza istruzione, senza principi né religione.
Efìmia, la sua amante, una vittima dell'ereditarietà, nella quale
erano evidenti i segni della degenerazione.
Ma il vero perno del delitto era la Màslova, che rappresentava il fenomeno
della decadenza morale nelle sue più abiette manifestazioni.
- Questa donna,- disse il sostituto procuratore senza guardarla in faccia,-
ha ricevuto un'istruzione: l'abbiamo udito affermare in quest'aula dalla sua
padrona. Non solo sa leggere e scrivere, ma conosce anche il francese. E' orfana,
e probabilmente porta in sé i germi della criminalità. Educata
in una famiglia nobile e colta, avrebbe potuto vivere di un lavoro onesto. Invece
lascia i benefattori per abbandonarsi ai suoi istinti; e per poterli soddisfare
meglio, entra in una casa di tolleranza, dove si distingue dalle altre compagne
per la sua educazione e, soprattutto, come avete qui udito, signori giurati,
dalla sua padrona, per l'influsso che sapeva esercitare sui frequentatori della
casa; influsso di cui si è occupata ultimamente la scienza e in particolare
la scuola di Charcot, e che è noto sotto il nome di suggestione. Con
questo sistema essa sa impossessarsi di un ricco cliente, un vero Sadkò
(1), un gigante bonaccione e credulo, e approfittando della fiducia che egli
le dimostra, prima lo deruba e poi spietatamente lo uccide.
- Mi pare che stia divagando, - disse sorridendo il presidente, piegandosi verso
il giudice arcigno.
- Un vero babbeo! - rispose l'altro. - Signori giurati! - seguitava intanto
il sostituto, piegando graziosamente la figura sottile. - La sorte di costoro
è nelle vostre mani, ma pure nelle vostre mani è almeno in parte
il destino della società, su cui potete influire col vostro verdetto.
Penetrando a fondo il significato di questo delitto, il pericolo che individui,
per così dire, patologici come la Màslova rappresentano per la
società, la proteggerete dal contagio e salverete dalla rovina gli elementi
sani e puri del nostro paese.
E come se anch'egli fosse schiacciato dal peso del prossimo verdetto, il sostituto
procuratore, visibilmente entusiasmato del suo discorso. si lasciò cadere
sulla seggiola.
A parte i fiori retorici, il senso della sua arringa era questo: la Màslova
aveva ipnotizzato il mercante riuscendo a carpirne la fiducia, era andata con
la chiave nella camera dell'albergo per prendere i soldi, e aveva tentato di
appropriarsi di tutto, ma colta sul fatto dal Simòn e dall'Efìmia
era stata costretta a dividere con loro il bottino. Poi, per nascondere le tracce
del furto, era ritornata col mercante all'albergo e l'aveva avvelenato.
Dopo la requisitoria del sostituto procuratore, si alzò dal banco degli
avvocati un uomo di mezza età, in frac, con un vistoso sparato bianco
inamidato, e pronunciò un'arringa molto disinvolta in difesa del Kartinkin
e della Boc'kova. Era il loro difensore, assunto per trecento rubli. Li giustificò
tutti e due e riversò ogni colpa sulla Màslova.
Egli respinse l'affermazione della Màslova che la Boc'kova e il Kartinkin
fossero presenti nella camera quando aveva preso il denaro, insistendo sul fatto
che la testimonianza di lei, rea confessa di avvelenamento, non aveva alcun
peso. Quei duemilacinquecento rubli, diceva l'avvocato, potevano rappresentare
benissimo il guadagno di due persone oneste e lavoratrici, che spesso ricevevano
dai clienti dell'albergo dai tre ai cinque rubli di mancia al giorno. Il denaro
del mercante era stato certamente sottratto dalla Màslova e consegnato
a qualcuno, o forse anche smarrito, giacché la donna non si trovava in
condizioni normali. L'avvelenamento era stato commesso dalla sola Màslova.
Egli chiedeva perciò ai giurati di assolvere il Kartinkin e la Boc'kova
dall'imputazione di furto, e in caso contrario di escluderne la complicità
nell'avvelenamento e nella premeditazione.
Concludendo, l'avvocato, per picca contro il sostituto procuratore, fece notare
che le brillanti considerazioni del sostituto procuratore sulla legge dell'ereditarietà,
sebbene chiarissero le questioni scientifiche in merito all'argomento, erano
in quel caso fuor di luogo, dato che la Boc'kova era figlia di ignoti.
Il sostituto procuratore, rodendosi dalla stizza, annotò qualche cosa
sui suoi fogli e con uno stupore colmo di disprezzo alzò le spalle.
A sua volta si alzò il difensore della Màslova che balbettando
timidamente, cominciò la sua arringa. Egli non negava che la Màslova
avesse preso parte al furto del denaro e si limitava a insistere sul fatto che
non aveva avuto l'intenzione di avvelenare lo Smielkòv, e che gli aveva
dato la polverina per farlo addormentare. In un tentativo di eloquenza cercò
anche di spiegare le ragioni che avevano trascinato la Màslova alla prostituzione,
e osservò che forse essa era stata sedotta da un uomo rimasto tuttora
impunito, mentre lei sola aveva dovuto portare il peso della sua caduta; ma
questa scorribanda nel campo della psicologia fu un vero insuccesso e mise tutti
a disagio. Quindi biascicò qualcosa sulla malvagità degli uomini
e la debolezza delle donne, e il presidente, per venirgli in aiuto, lo pregò
di attenersi alla sostanza del fatto.
Dopo l'arringa del difensore della Màslova, si alzò di nuovo il
sostituto procuratore, e per difendere la tesi sull'ereditarietà contro
le critiche dell'altro difensore fece osservare che, se anche la Boc'kova era
figlia di ignoti, ciò non diminuiva affatto il valore della dottrina
sull'ereditarietà, che aveva un fondamento scientifico tale da permetterci
non soltanto di dedurre il delitto dall'ereditarietà, ma persino l'ereditarietà
dal delitto. In quanto poi alla supposizione del difensore della Màslova
che costei fosse stata messa sulla cattiva strada da un seduttore immaginario
- e pronunciò la parola "immaginario" con un accento particolarmente
velenoso - tutti i dati di fatto stavano a dimostrare che lei, piuttosto, era
stata la seduttrice delle molte e molte vittime passate tra le sue mani. Detto
ciò, sedette trionfante.
Il presidente allora domandò agli accusati se avevano qualcosa da dire
a loro discolpa.
Simòn si limitò a ripetere più volte: Fate quel che volete,
ma io non ho colpa, è ingiusto. La Màslova non disse nulla. All'invito
rivoltole dal presidente di dire quel che sapeva a sua discolpa, alzò
semplicemente gli occhi su di lui e si guardò in giro come una bestia
braccata. Poi abbassò la testa e pianse singhiozzando forte.
- Che avete? - domandò il mercante al suo vicino Necliudov, udendo il
suono strano che gli era sfuggito. Il suono di un singhiozzo contenuto...
Necliudov non s'era reso ancor ben conto della gravità della sua posizione
e attribuiva a debolezza dei nervi il singhiozzo malamente trattenuto e le lacrime
che gli bagnavano gli occhi. Per nasconderle si mise il pince-nez, poi tirò
fuori il fazzoletto e si soffiò il naso.
Il terrore della vergogna di cui si sarebbe coperto se in quella sala di tribunale
si fosse venuto a sapere ciò che aveva fatto, soffocò il lavorio
spirituale che stava compiendosi in lui. E la paura, in quel primo momento,
fu più forte di tutto.
NOTE.
NOTA 1: Eroe di antichi canti epici russi.
22.
Dopo l'ultima parola degli imputati e un lungo consulto delle parti sul modo
d'impostare le domande da sottoporre ai giurati, queste furono formulate e il
presidente iniziò il riassunto del processo.
Prima di venire al fatto, spiegò molto lungamente ai giurati, in tono
simpatico e familiare, che la rapina è diversa dal furto e che il furto
con scasso non va confuso col furto semplice. Mentre spiegava questo, guardava
insistentemente Necliudov, forse sperando che afferrasse meglio degli altri
l'importanza di quella distinzione e dopo averla compresa la spiegasse ai suoi
colleghi. Poi, quando ritenne che i giurati fossero sufficientemente compenetrati
di quella verità, passò a spiegarne un'altra: che si dice assassinio
quell'azione da cui consegue la morte di un uomo e che perciò anche l'avvelenamento
è un assassinio. E quando quest'altra verità gli parve sufficientemente
assimilata, spiegò ancora ai giurati che, se il furto e l'assassinio
vengono commessi insieme, il reato risulta composto dai due fattori furto e
assassinio.
Nonostante la smania di sbrigarsi in fretta per andare dalla svizzera che lo
stava già aspettando, aveva talmente fatto l'abitudine al suo mestiere
che, una volta preso l'aire, non gli riusciva più di smettere. Così
egli spiegò minutamente ai giurati che se ritenevano gli imputati colpevoli,
avevano il diritto di dichiararli tali, come, in caso contrario, avevano il
diritto di dichiararli innocenti. Se li ritenevano colpevoli di un reato ma
innocenti dell'altro, potevano dichiararli colpevoli del primo e innocenti del
secondo, ma di questo diritto loro concesso dovevano usare ragionevolmente.
Voleva poi spiegare che il rispondere affermativamente a una data domanda, significava
accettarne implicitamente tutto il contenuto, mentre per accettare con riserva,
dovevano dichiarare su che cosa non erano d'accordo. Ma data un'occhiata all'orologio
e visto che erano già le tre meno cinque, risolse di passare subito all'esposizione
dei fatti.
- Le circostanze del delitto sono le seguenti, cominciò, e ripeté
le cose già dette più volte dai difensori, dal sostituto procuratore
e dai testimoni.
Il presidente parlava, e ai suoi fianchi i due giudici l'ascoltavano con aria
concentrata, sbirciando di tratto in tratto l'orologio: trovavano il suo discorso
molto bello, proprio come doveva essere, ma un po' lungo. Dello stesso parere
era anche il sostituto procuratore e in complesso i giudici e quanti erano nell'aula.
Il presidente terminò la sua relazione.
Sembrava che tutto fosse stato detto. Ma il presidente non sapeva rinunciare
al suo diritto di parlare, tanto gli piacevano le intonazioni suadenti della
propria voce, e ritenne necessario dire qualche altra parola sull'importanza
del diritto concesso ai giurati e sulla circospezione con cui dovevano valersi
di quel diritto, cercando di non abusarne; li ammonì che avevano prestato
giuramento, che rappresentavano la coscienza sociale, che il segreto della camera
di deliberazione doveva essere sacro... E così via.
Da quando il presidente aveva cominciato a parlare, la Màslova non gli
aveva tolto gli occhi di dosso, come avesse paura di perdere una sola parola.
Perciò Necliudov non temeva di incontrare i suoi occhi e la guardava
a suo agio. Nella sua immaginazione avveniva quel comune fenomeno per cui un
caro viso, che da un pezzo non s'è visto, dopo averci dapprima stupito
per i cambiamenti esteriori prodottisi durante l'assenza, a poco per volta ridiventa
quello di molti anni prima: i cambiamenti scompaiono e agli occhi dell'anima
si rivela soltanto l'espressione essenziale della personalità spirituale,
che è esclusiva e irripetibile.
Ciò avveniva anche in Necliudov. Nonostante la casacca dei detenuti,
il corpo appesantito e il seno forte, nonostante l'ingrossamento alla parte
inferiore del viso, le rughe sottili sulla fronte o sulle tempie e intorno agli
occhi un po' gonfi, quella era senza dubbio Katiuscia: la stessa Katiuscia che
un giorno di Pasqua aveva ingenuamente rivolto su di lui, l'uomo amato, i suoi
occhi innamorati, ardenti di gioia e di vita.
"Che caso sorprendente! Bisognava proprio che questo processo capitasse
nella mia sessione, perché io, che non la vedevo da dieci anni, la incontrassi
qui sul banco degli imputati. E ora? Ah, se finisse presto, se almeno finisse
presto!".
Non si arrendeva ancora a quel senso di rimorso che cominciava a parlare in
lui. Considerava il caso come un incidente che sarebbe passato senza turbare
la sua vita.
Si sentiva nello stato di un cucciolo che s'è comportato male in casa,
e il padrone lo prende per la collottola per immergergli il muso nella porcheria
che ha fatto. Il cucciolo uggiola, si tira più indietro che può
dalle conseguenze del suo misfatto per dimenticarsene, ma il padrone, inflessibile,
lo stringe come in una morsa. Anche Necliudov sentiva ormai la bassezza del
suo operato e la mano possente del padrone, ma non capiva ancora la gravità
di ciò che aveva fatto e non sapeva riconoscere il padrone. Voleva continuare
ad illudersi che quanto avveniva davanti a lui non fosse opera sua. Ma la mano
inesorabile e invisibile lo stringeva ed egli aveva il presentimento di non
poterle sfuggire.
Faceva ancora il disinvolto, e sedeva imperturbabile nella seconda seggiola
della prima fila con le gambe accavallate secondo il solito, mentre giocava
distrattamente col pince-nez. Ma nell'intimo suo sentiva già tutta la
crudeltà, la bassezza e l'infamia non solo di quella colpa, ma di tutta
la sua vita oziosa, depravata, crudele e spensierata: e il terribile velo che
per una specie d'incantesimo per ben dodici anni aveva celato ai suoi occhi
quella colpa e quella vita, ora cominciava a sollevarsi, lasciandogli intravedere
ciò che v'era dietro.
23.
Finalmente il presidente terminò il suo discorso, e alzato con un gesto
grazioso il foglio delle domande, lo consegnò al capo dei giurati che
gli si era avvicinato.
I giurati si alzarono in piedi, contenti di potersi muovere, e con gesti impacciati,
come se si vergognassero di qualcosa, entrarono uno dopo l'altro nella camera
delle deliberazioni.
Non appena l'uscio si fu richiuso alle loro spalle, un gendarme si avvicinò
e sguainata la sciabola vi si mise di sentinella. I giudici si alzarono e uscirono.
Gli imputati furono condotti via.
Entrati nella sala delle deliberazioni, i giurati, come l'altra volta, tirarono
fuori le sigarette e si misero a fumare. La sensazione che nell'aula tutti più
o meno avevano provato di essere in una posizione falsa e antipatica, svanì
non appena ebbero varcata la soglia della camera di consiglio e si furono messi
a fumare; tutti si accomodarono con un senso di sollievo e subito cominciò
una conversazione animata.
La ragazza non è colpevole, l'hanno imbrogliata, - disse il mercante
bonaccione; - dobbiamo mostrarci indulgenti.
E' proprio quello che s'ha da decidere! - rispose il capo. - Non dobbiamo abbandonarci
alle nostre impressioni personali.
- Bella la relazione del presidente, - osservò il colonnello.
- Bella davvero! Per poco non mi addormentavo.
- La cosa più importante è che i due inservienti non avrebbero
potuto sapere nulla del denaro, se la Màslova non fosse stata d'accordo
con loro, - disse il commesso dal tipo ebraico.
- E allora, secondo voi, ha rubato? - domandò un altro.
- Non ci credo assolutamente - gridò il mercante bonaccione. - E' stata
quella canaglia dagli occhi rossi che ha combinato tutto.
- Tutti buoni! - disse il colonnello.
- Ma se ha dichiarato che non è entrata in camera...
- E potete crederle? A una carogna simile non crederei per tutto l'oro del mondo.
- Ma non basta che non ci crediate voi, - osservò il commesso.
- La chiave l'aveva lei.
- E che conta se l'aveva lei? - obiettò il mercante.
- E l'anello?
- Ma se l'ha detto, - gridò di nuovo il mercante. - Un originale era,
e poi era sbronzo! Gliele ha date. E poi, naturalmente, s'è pentito.
To' prendi e non piangere... Sapete bene che pezzo d'uomo era: due arscìni
e dodici vierskì di altezza e otto pudi (1) di peso!
- Questo non c'entra, - interruppe Piotr Gherassìmovic, - la questione
è un'altra: chi ha istigato e macchinato il delitto, lei o i domestici?
- I domestici non potevano far da soli, la chiave l'aveva lei.
Questa discussione inconcludente durò assai.
- Ma scusate, signori! - disse il capo. - Mettiamoci a tavolino e ragioniamo.
Prego! - disse sedendosi al posto presidenziale.
- Belle canaglie, queste sgualdrine! - esclamò il commesso. E per avvalorare
la tesi secondo cui la principale colpevole era la Màslova, raccontò
come un suo amico fosse stato derubato, su un viale, da una di quelle donne,
che gli aveva portato via l'orologio.
Il colonnello prese la palla al balzo e raccontò un altro caso ancor
più sorprendente, il furto di un samovàr d'argento.
- Signori, vi prego di seguire l'ordine dei quesiti! disse il capo picchiando
con la matita sul tavolo.
Tutti tacquero. Le domande erano le seguenti:
1) E' colpevole il contadino Simòn Petrov Kartinkin di anni 33, del villaggio
Borki, distretto di Krapivo, di avere il 17 gennaio milleottocento... nella
città di N... in complicità con altre persone, attentato alla
vita del mercante Smielkòv allo scopo di derubarlo, propinandogli nel
cognac del veleno che ne causò la morte, e di aver poi rubato la somma
di 2500 rubli e un anello di brillanti?
2) E' colpevole del delitto di cui al primo quesito, la borghese Efìmia
Boc'kova, di 43 anni?
3) E colpevole del delitto di cui al primo quesito, la borghese Jekatierina
Micailova Màslova, di 27 anni?
4) Se l'imputata Efìmia Boc'kova non è colpevole del delitto di
cui al primo quesito, è forse colpevole di avere, il 17 gennaio milleottocento...
nella città di N., trovandosi a servizio nell'albergo Mauritania, sottratto
di nascosto da una valigia chiusa appartenente al mercante Smielkòv ospite
di detto albergo, la somma di 2500 rubli, aprendo all'uopo la valigia sul posto
con chiave falsa?
Il capo lesse il primo quesito.
- Ebbene, signori?
A questa domanda la risposta fu trovata subito. Tutti concordemente risposero
che il Kartinkin era colpevole dell'avvelenamento e del furto.
Solo un vecchio artigiano che propendeva sempre per l'assoluzione, si mostrò
di parere contrario.
Il capo credeva che egli non avesse capito, e gli spiegò che il Kartinkin
e la Boc'kova erano indubbiamente colpevoli. L'artigiano rispose che lo capiva
benissimo, ma che era sempre meglio mostrarsi compassionevoli. - Anche noi non
siamo santi! - disse e non volle saperne di cambiar parere.
Al secondo quesito, relativo alla Boc'kova, dopo lunghe discussioni e spiegazioni,
si decise che non era colpevole di avvelenamento giacché mancavano le
prove evidenti della sua partecipazione, tasto sul quale aveva insistentemente
battuto il difensore.
Il mercante, ansioso di assolvere la Màslova, continuava ad insistere
che la Boc'kova era il perno di tutto il delitto. Molti giurati si mostrarono
della sua opinione, ma il capo, volendo mantenersi rigorosamente ligio alla
legge, disse che mancavano le prove per ritenerla partecipe dell'avvelenamento,
e dopo molte discussioni il suo parere finì col trionfare.
Al quarto quesito risposero che la Boc'kova era colpevole, ma per l'insistenza
dell'artigiano aggiunsero: Le si concedono però le attenuanti.
Il terzo quesito, quello relativo alla Màslova, suscitò discussioni
veramente accanite. Il capo insisteva ch'essa era colpevole tanto di avvelenamento
quanto di furto; il mercante invece, e insieme con lui il colonnello, il commesso
e l'artigiano, sosteneva la tesi contraria, ma l'opinione del capo cominciava
a prevalere. Ormai tutti i giurati erano stanchi e propensi a seguire quell'opinione
che prometteva di metterli più presto d'accordo e di dar loro la libertà.
Necliudov, sia da ciò che aveva udito durante l'lstruttoria, sia da quanto
sapeva della Màslova, era certo che non fosse colpevole né del
furto né dell'avvelenamento, e in principio aveva creduto fermamente
che tutti sarebbero stati del suo parere. Ma quando si accorse che, un po' per
la difesa maldestra del mercante, troppo evidentemente basata sul fatto che
la Màslova gli piaceva, un po' per l'opposizione del capo, dovuta appunto
a quella palese parzialità, ma soprattutto per la stanchezza generale,
tutti cominciavano a propendere per l'accusa, voleva intervenire, benché
si sentisse sgomento all'idea di parlare in difesa della Màslova, immaginando
che tutti avrebbero immediatamente indovinato i suoi rapporti con lei. E frattanto
capiva che non poteva lasciare le cose così, che doveva replicare. Arrossiva,
diventava pallido... e stava per parlare quando Piotr Gherassimovic', rimasto
silenzioso fino a quel momento e visibilmente irritato dal tono autoritario
del capo, intervenne ad un tratto nella discussione e disse proprio le cose
che avrebbe voluto dichiarare Necliudov.
- Ma scusate, - egli osservò, - voi dite che lei ha rubato perché
aveva la chiave. Non potrebbero essere invece entrati i due inservienti dopo
di lei ed aver aperto la valigia con una chiave falsa?
- Giusto, giustissimo, - approvò il mercante.
Lei non può aver preso denari, perché nella sua condizione non
avrebbe saputo dove nasconderli.
- Quel che dico anch'io, - rincalzò il mercante.
- E' più probabile che la sua venuta all'albergo abbia suggerito ai domestici
l'idea del furto. Approfittarono dell'occasione e poi addossarono a lei tutta
la colpa.
Piotr Gherassimovic' parlava con tono concitato. La sua asprezza si comunicò
al capo, che per reazione si mise ad insistere sempre più energicamente
sulla tesi opposta. Ma Piotr Gherassimovic' parlava in un modo così persuasivo
che la maggioranza fu d'accordo con lui nel riconoscere che la Màslova
non aveva preso parte al furto dei denari e dell'anello, e che questo le era
stato donato.
Quando poi il discorso cadde sulla partecipazione della Màslova al delitto,
il mercante, suo ardente paladino, sostenne che dovevano proclamarla innocente,
perché non aveva avuto alcuna ragione per avvelenarlo. Ma il capo gli
replicò che ciò era inammissibile, dato che lei stessa aveva confessato
di avergli dato la polverina.
- Sì, è vero, ma pensava che fosse oppio, - disse il mercante.
- Anche l'oppio avrebbe potuto ucciderlo, - osservò il colonnello che
amava le digressioni. E narrò l'avventura della moglie di un suo cognato
che s'era avvelenata con l'oppio e che sarebbe morta, senza l'intervento immediato
di un medico che le aveva prodigato in tempo le cure del caso.
Il tono del colonnello era così ispirato, sicuro e dignitoso, che nessuno
aveva l'animo d'interromperlo. Soltanto il commesso, contagiato dall'esempio,
osò togliergli la parola per raccontare un'altra storia.
- Certe persone ci fanno talmente l'abitudine che possono arrivare fino a quaranta
gocce. Un mio parente...
Ma il colonnello non si lasciò sopraffare e continuò a descrivere
le conseguenze dell'oppio sulla moglie del cognato.
- Badate, signori, che sono già le quattro passate, disse un giurato.
- E allora, signori, - domandò il capo, - la dichiariamo colpevole ma
senza intenzione di furto? e che non ha rubato? Va bene così?
Piotr Gherassimovic', contento della sua vittoria, assentì.
- Diamole anche le circostanze attenuanti, soggiunse il mercante.
Tutti approvarono, solo l'artigiano insisteva perché si rispondesse:
"No, non è colpevole".
- Ma se è la stessa cosa! - spiegò il capo. - Mettendo: "senza
intenzione di furto e che non ha rubato", è come se dicessimo che
è innocente.
- Aggiungici anche: merita le attenuanti; servirà a scopar via quel che
rimane... - aggiunse allegramente il mercante.
Tutti erano così stanchi, e ingarbugliati nella discussione, che nessuno
pensò di aggiungere nel verdetto la frase: senza l'intenzione di uccidere.
Necliudov era tanto turbato che neppure lui ci badò. In questa forma
il verdetto fu scritto e portato nell'aula d'udienza. Rabelais scrive che un
giurista, chiamato a risolvere un problema giudiziario, dopo aver enumerato
tutte le leggi possibili e immaginabili e letto una ventina di pagine di un
assurdo latino giuridico, propose di gettare un dado: pari o dispari... Se pari,
aveva ragione il querelante, se dispari, il querelato.
Così avvenne anche questa volta. Fu adottata quella deliberazione invece
di un'altra non perché tutti i giurati fossero d'accordo, ma anzitutto
perché il presidente, nella sua lunga relazione, aveva trascurato di
dire proprio la frase di cui non si scordava mai: che cioè i giurati
avevano la facoltà di scrivere colpevole, ma senza l'intenzione di uccidere;
in secondo luogo perché il colonnello aveva fatto un racconto troppo
lungo e noioso sulla moglie di suo cognato; in terzo luogo perché Necliudov,
nel suo turbamento, non s'era accorto che era stata omessa la formula relativa
alla mancata intenzione di uccidere e credeva sufficiente l'altra: ma senza
intenzione di furto; in quarto luogo perché Piotr Gherassimovic' era
uscito dalla sala proprio nel momento in cui il capo dava la lettura delle domande
e delle risposte; e finalmente perché i giurati erano stanchi, e nella
fretta di finire, si sentivano disposti ad accettare qualsiasi deliberazione.
I giurati suonarono il campanello. Il gendarme che era di guardia alla porta
con la sciabola sguainata, la rimise nel fodero e si fece da parte. I giudici
ripresero i loro posti, e uno dietro l'altro rientrarono i giurati.
Il capo portava il foglio con aria trionfante. Si avvicinò al presidente
della Corte e glielo porse. Il presidente lesse e con un gesto di meraviglia
allargò le braccia e si volse ai giudici, consultandoli. Era stupito
che i giurati dopo aver scritto la prima formula: ma senza intenzione di furto,
avessero omesso l'altra: ma senza intenzione di uccidere.
Dal verdetto dei giurati risultava che la Màslova non aveva rubato, ma
aveva ucciso un uomo senza un movente plausibile.
- Guardate che controsenso ci han portato qua, disse al giudice di sinistra.
- Si tratta di lavori forzati, e lei è innocente.
- Ma via, come innocente! - rispose il giudice arcigno.
- Ma sicuro che è innocente. Secondo me sarebbe il caso di applicare
l'articolo 818.
L'articolo 818 stabilisce che la Corte può annullare il verdetto dei
giurati qualora lo ritenga ingiusto,
- Che ve ne sembra? - si rivolse il presidente al giudice dall'aria buona.
Il giudice non rispose subito: diede un'occhiata al numero del foglio che gli
stava davanti e ne sommò le cifre pensando che se il numero risultante
era divisibile per tre, avrebbe accettato; l'operazione non gli riuscì,
ma poiché era buono, acconsentì ugualmente.
- Penso anch'io che converrebbe, - rispose.
-E voi? - domanda il presidente al giudice arcigno.
- Per nessuna ragione, - rispose questi recisamente. - I giornali dicono già
che i giurati assolvono i delinquenti. Che direbbero poi se anche la Corte li
assolvesse? Mi rifiuto di acconsentire.
Il presidente guardò l'orologio,
- Peccato, ma che farci? - e consegnò le risposte al capo della giuria
perché ne desse lettura.
Tutti si alzarono e il presidente, appoggiandosi ora su un piede ora sull'altro,
si schiarì la voce e lesse forte le domande e le risposte. I giudici,
il cancelliere, gli avvocati, persino il procuratore generale palesarono il
loro stupore.
Gli imputati sedevano imperturbabili, evidentemente senza capire il significato
di quelle risposte. Tornarono a sedere tutti, e il presidente domandò
al procuratore quale pena intendesse richiedere per gli imputati. Il procuratore,
contento del successo inatteso riguardo alla Màslova, e attribuendolo
alla propria eloquenza, consultò le sue scartoffie, si sollevò
un poco e disse:
- Per Simòn Kartinkin chiedo l'applicazione dell'articolo 1452 nonché
del paragrafo 4 del 1453, per Efimia Boc'kova dell'articolo 1659 e per Jekatierina
Màslova dell'articolo 1454.
Erano queste le pene più severe che si potessero infliggere.
- La Corte si ritira per deliberare, - disse il presidente alzandosi.
Tutti seguirono il suo esempio e col piacevole senso di sollievo che si prova
dopo aver compiuto un'azione lodevole, uscirono dall'aula o si sparsero qua
e là per la sala. - Eh sì mio caro! bell'affare abbiamo combinato!
disse Piotr Gherassimovic' avvicinandosi a Necliudov che stava ascoltando ciò
che gli diceva il capo. - Abbiamo mandato quella disgraziata ai lavori forzati!
- Che dite? - gridò Necliudov, non rilevando affatto, per una volta tanto,
la familiarità antipatica del maestro.
- Ma sicuro, - egli rispose. - Nella risposta non abbiamo messo: colpevole ma
senza intenzione di uccidere. Mi ha detto or ora il cancelliere che il procuratore
generale ha chiesto per lei quindici anni di lavori forzati.
- Ma abbiamo ben deliberato così! - replicò il capo. Piotr Gherassimovic'
lo rimbeccò subito e gli fece osservare che se la Màslova non
aveva preso i soldi, non poteva ovviamente aver avuto l'intenzione di uccidere.
- Ma io vi ho letto le risposte prima di uscire dalla camera di consiglio, nessuno
ha fatto obiezioni!
- Ero uscito dalla stanza proprio in quel momento, - disse Piotr Gherassimovic'.
- Ma voi come avete fatto a lasciarvi sfuggire una cosa simile?
- Non avrei mai pensato che... - disse Necliudov.
- Ecco, a non averci pensato!
- Ma ci si può rimediare! - ribatté Necliudov.
- Eh no, ormai è fatta!
Necliudov guardò gli imputati. Mentre si decideva la loro sorte, essi
sedevano sempre immobili dietro la sbarra, custoditi dai soldati.
La Màslova sorrideva vagamente. E nell'animo di Necliudov s'insinuò
un sentimento cattivo. Poco prima, quando ne prevedeva l'assoluzione e pensava
che sarebbe rimasta in città, non sapeva bene che atteggiamento avrebbe
assunto di fronte a lei. In qualsiasi modo, sarebbe stato difficile. Ed ecco
che i lavori forzati e la Siberia distruggevano a un tratto la possibilità
di ogni rapporto.
L'uccellino ferito a morte avrebbe finito ben presto di dibattersi nel carniere,
e chi ci avrebbe pensato più?
NOTE.
NOTA 1: Il pud equivale a sedici chili e trentotto grammi.
24.
Le previsioni di Piotr Gherassimovic' erano esatte.
Rientrando dalla camera di consiglio, il presidente prese un foglio e lesse:
- "Il 28 aprile dell'anno milleottocento... per ordine di Sua Maestà
Imperiale, la Corte d'Assise del tribunale distrettuale, visto il verdetto dei
signori giurati, a norma dell'articolo 771, paragrafo 3, dell'articolo 776,
paragrafo 3, e dell'articolo 777 del Codice di procedura penale, ha condannato
il contadino Simòn Kartinkin di 33 anni e la borghese Jekatierina Màslova
di 27 anni, ai lavori forzati, e alla perdita dei diritti civili: il Kartinkin
ad anni 8, la Màslova ad anni 4, con le conseguenze per entrambi di cui
all'articolo 25 del Codice penale.
"La borghese Efimia Boc'lcova, di anni 43, è condannata a 3 anni
di reclusione con la perdita dei diritti civili e dei privilegi speciali acquisiti
personalmente e per il suo stato, con le conseguenze di cui all'articolo 49
del Codice penale. Le spese del processo saranno ripartite in parti uguali fra
gli imputati e in caso di insolvenza andranno a carico dell'erario.
"I corpi del reato devono essere venduti, l'anello restituito, i filtri
distrutti.
Kartinkin stava in piedi irrigidito, con le braccia strette al busto e le dita
allargate, e muoveva rapidamente le guance. La Boc'kova sembrava perfettamente
tranquilla.
Nell'udire la sentenza, la Màslova si fece di fiamma.
- Sono innocente io, innocente! - ad un tratto risuonò la sua voce in
tutta l'aula. - Vi sbagliate! Non sono colpevole, io. Non volevo uccidere, non
ci pensavo. Dico la verità, la verità!
E lasciandosi cadere sulla panca, si mise a singhiozzare forte.
Il Kartinkin e la Boc'kova uscirono, ma la Màslova sedeva sempre nello
stesso posto e piangeva; tanto che il gendarme dovette tirarla per la manica
della casacca.
- No, non è possibile lasciar le cose così! - si disse Necliudov,
dimenticando completamente il brutto sentimento di poco prima, e senza rendersene
conto s'affrettò ad uscire nel corridoio per vederla ancora una volta.
Sulla porta si stipava un gruppo animato di giurati e di avvocati, contenti
che il processo fosse finito, sicché egli perdette un po' di tempo prima
di poter uscire. Quando si trovò infine nel corridoio, la Màslova
era già lontana. A passi affrettati incurante dell'attenzione che richiamava
su di sé, egli la raggiunse, le passò davanti e si fermò.
Ormai essa non piangeva più. Solo singhiozzava ogni tanto, e si asciugava
il viso arrossato con una cocca dello scialletto. Gli passò accanto senza
guardarlo e Necliudov non fece nulla per fermarla.
In fretta tornò indietro per parlare al presidente. Ma questi era già
andato e Necliudov lo raggiunse soltanto in portineria.
- Signor presidente, - disse Necliudov, avvicinandosi a lui che aveva già
indossato il cappotto chiaro e stava prendendo dalle mani del portiere il bastone
col pomo d'argento. - Potrei scambiare con voi qualche parola a proposito del
processo che è finito or ora? Sono uno dei giurati.
- Ma come no, principe Necliudov! Felicissimo, ci siamo già incontrati,
- rispose il presidente, stringendogli la mano e ricordando con piacere con
che animazione e con che brio aveva ballato la sera che si era incontrato con
Necliudov: meglio di tutti i giovanotti. - In che posso esservi utile?
- Nel verdetto c'è stato un malinteso relativo alla Màslova. E'
innocente del delitto, eppure l'hanno condannata ai lavori forzati, - disse
Necliudov con aria cupamente assorta.
- La Corte ha emesso il verdetto in base alle risposte che voi stessi avete
dato, - rispose il presidente avviandosi all'uscita; - sebbene anche alla Corte
le risposte siano sembrate non corrispondenti alla realtà dei fatti.
E si rammentò che aveva avuto l'idea di spiegare ai giurati come un loro
eventuale responso di colpevolezza avrebbe implicitamente affermato la premeditazione,
se non fosse stato seguito dalla clausola relativa alla mancata intenzione di
uccidere: avvertimento che nella fretta di finire egli non aveva dato.
- E' vero: ma non è proprio possibile rimediare all'errore?
- Si può sempre trovare un motivo per ricorrere in Cassazione. Dovete
rivolgervi a un avvocato, - disse il presidente mettendosi il cappello un po'
di sghembo e continuando a muoversi verso l'uscita.
- Ma è una cosa terribile!
- Vedete, per la Màslova i casi erano due, - spiegò il presidente,
cercando di essere il più possibile gentile e garbato; e lisciatosi le
basette sopra al colletto del cappotto, prese leggermente Necliudov per il gomito
e spingendolo verso l'uscita, gli domandò: - Venite anche voi, nevvero?
- Sì, - rispose Necliudov vestendosi in fretta. E lo seguì.
Fuori splendeva un bel sole gaio e fu subito necessario alzare la voce per farsi
udire attraverso lo strepito delle ruote sul selciato.
- Una situazione strana, come vedete, - continuò il presidente alzando
la voce; - per questa Màslova i casi erano due: o l'assoluzione quasi
piena, con una condanna a pochi mesi di prigione in cui si sarebbe tenuto conto
della detenzione preventiva, in tutto forse un semplice arresto, oppure i lavori
forzati. Niente vie di mezzo. Se voi aveste aggiunto le parole ma senza intenzione
di uccidere, sarebbe stata assolta.
- Non mi perdonerò mai questa dimenticanza! - esclamò Necliudov.
- Sicuro; il guaio è tutto qui, - disse sorridendo il presidente. E guardò
l'orologio.
Rimanevano soltanto tre quarti d'ora per l'ultimo termine fissato da Klara.
- Adesso, se credete, rivolgetevi a un avvocato. Bisogna trovare un motivo per
ricorrere in Cassazione. Se ne può sempre trovare uno... Dvoriànskaia,
- disse al vetturino, - trenta copeche, non ne dò mai di più.
- Accomodatevi, Eccellenza!
- I miei rispetti. Se potrò esservi utile, abito in via Dvoriànskaia,
casa Dvòrnikov. E' facile da ricordare.
E, inchinatosi con cortesia, se ne andò.
25.
Le parole del presidente e l'aria fresca calmarono alquanto Necliudov. Gli sembrava
d'aver dato troppa importanza ai propri sentimenti, e ciò a causa della
mattinata trascorsa in modo così diverso dal solito.
"Però, che coincidenza strana e impressionante! Bisogna assolutamente
che faccia tutto il possibile per alleggerire la sua sorte... e al più
presto! Subito, anzi. Bisogna che mi informi immediatamente qui in tribunale
dove stanno Fanarin o Mikiscin... Erano due avvocati celebri, di cui ricordava
i nomi.
Necliudov tornò al tribunale, si tolse il cappotto e salì al primo
piano. All'imbocco del corridoio incontrò Fanarin in persona. Lo fermò
e gli disse che aveva bisogno di parlargli. Fanarin lo conosceva di vista e
di nome e gli rispose che sarebbe stato lieto di essergli utile.
Sono un po' stanco... Ma se non è una cosa lunga, ditemi di che si tratta.
Mettiamoci qua.
Fanarin condusse Necliudov in una camera, probabilmente lo studio di qualche
giudice. Si sedettero al tavolo .
- Di che si tratta?
- Anzitutto vorrei pregarvi di una cosa, - disse Necliudov, - che nessuno sappia
che io m'interesso di questa faccenda.
- Ma è sottinteso. Dunque...
- Oggi facevo parte della giuria. Abbiamo condannato una donna ai lavori forzati...
un'innocente. Ciò mi rimorde la coscienza.
Necliudov arrossì involontariamente e si confuse. Fanarin gli lanciò
un'occhiata penetrante e poi abbassò lo sguardo, ascoltando.
- Ebbene? - si limitò a dire.
- Abbiamo condannato un'innocente, e io vorrei ricorrere a un tribunale superiore
per far annullare la sentenza.
- Alla Corte di Cassazione, - precisò Fanarin.
- Vorrei pregarvi di occuparvene voi.
Necliudov aveva una gran fretta di sbrigare la parte più difficile e
perciò disse subito:
- Onorari e spese di causa sono a mio carico, qualunque esse siano. - E arrossì.
- Be', su questo ci metteremo d'accordo, - rispose l'avvocato sorridendo indulgente
a tanta inesperienza. Di che si tratta, dunque?
Necliudov raccontò.
- Benissimo. Domani prenderò la pratica e l'esaminerò. Dopodomani,
anzi giovedì, venite da me verso le sei di sera e vi darò una
risposta. Va bene? E adesso, scusatemi, ho qui ancora da sbrigare alcune pratiche.
Necliudov lo salutò e uscì.
Il colloquio con l'avvocato e il fatto di aver già fatto qualcosa per
la Màslova calmarono il suo spirito. Uscì all'aperto. Il tempo
era splendido, ed egli aspirò con delizia l'aria primaverile. I cocchieri
gli offrirono i loro servigi, ma egli s'incamminò a piedi. Subito tutto
uno sciame di pensieri e di ricordi su Katiuscia e su ciò che le aveva
fatto cominciò a ronzargli nella testa. Si sentì sconfortato,
e il mondo gli parve senza luce. "No, ci penserò dopo..." si
disse; "ora ho proprio bisogno di distrarmi dai pensieri penosi".
Si ricordò del pranzo dei Korciaghin e guardò l'orologio. Non
era troppo tardi, avrebbe fatto ancora in tempo... Un tram a cavalli scampanellò
lì vicino. Si mise a correre e ci saltò sù. In piazza discese,
noleggiò una bella carrozza e dieci minuti dopo era davanti al portone
del palazzo Korciaghin.
26.
- Prego, Eccellenza! Vi aspettano, - disse affabilmente il grasso portiere di
casa Korciaghin, aprendo la porta di quercia che girò silenziosamente
sui cardini inglesi. - I signori sono a tavola, ma ho l'ordine di farvi salire.
Il portiere si avvicinò alla scala e suonò di sopra.
- C'è qualcuno? - domandò Necliudov, togliendosi il cappotto.
- Il signor Kolossòv e Micàil Serghèievic'. Gli altri sono
tutti di casa, - rispose il portiere.
In cima alla scala s'affacciò un imponente domestico in frac e guanti
bianchi. - Accomodatevi, Eccellenza, disse - siete pregato di passare.
Necliudov salì la scalinata e, attraverso un ampio e splendente salone
a lui familiare, entrò nella sala da pranzo.
Intorno alla tavola sedeva tutta la famiglia, eccettuata la madre, la principessa
Sòfia Vassilievna, che non usciva mai dal suo salotto. A capo tavola
stava il vecchio Korciaghin, alla sua sinistra il dottore, alla sua destra l'ospite
Ivàn Ivànovic' Kolossòv, ex maresciallo di provincia e
attualmente membro del consiglio di amministrazione d'una banca, collega liberale
di Korciaghin. Più in là, a sinistra, miss Reder, l'istitutrice
della sorellina di Missy, e la piccola, una bambina di quattro anni. Di fronte,
a destra, il fratello di Missy, Petia, l'unico maschio dei Korciaghin, studente
di sesta ginnasiale che per colpa dei suoi esami tratteneva tutta la famiglia
in città; vicino a lui uno studente che gli faceva da ripetitore, poi
Jekatierina Aleksèievna, una zitella di quarant'anni, slavofila. Di fronte
Micàil Sergheievic', ossia Miscia Teleghin, cugino di Missy. In fondo
alla tavola Missy, e accanto a lei un posto vuoto.
- Oh, benissimo! Sedete, siamo soltanto al pesce, disse il vecchio Korciaghin
masticando a fatica e cautamente coi denti falsi, e fissando Necliudov con gli
occhi iniettati di sangue, che sembravano senza palpebre. - Stiepàn,
- si rivolse con la bocca piena al grasso e imponente maggiordomo, indicandogli
con gli occhi il posto vuoto.
Benché Necliudov conoscesse bene il vecchio e l'avesse visto mangiare
parecchie volte, quel viso rosso con le labbra sensuali e ghiotte che spuntava
dal tovagliolo infilato nel panciotto, quel collo adiposo e soprattutto l'aria
ben pasciuta e militaresca del generale lo colpirono questa volta in modo particolarmente
sgradevole.
Necliudov ripensò senza volerlo a tutto ciò che sapeva sulla crudeltà
di quell'uomo: ricco, di famiglia illustre, non avrebbe avuto bisogno di acquistarsi
meriti speciali, eppure, Dio sa perché, al tempo in cui era stato governatore
di provincia, aveva fatto frustare e persino impiccare molta gente...
- Vostra Eccellenza sarà servita subito, - disse Stiepàn, prendendo
un cucchiaione dalla credenza su cui erano disposti alcuni vasi d'argento, e
facendo un cenno al bel cameriere con le basette, che si mise immediatamente
a preparare la Posata accanto a Missy, dove il posto vuoto era segnato da un
tovagliolo inamidato, piegato con arte e con lo stemma in vista.
Necliudov fece il giro della tavola, stringendo la mano a tutti. Ogni commensale
si alzò per salutarlo, all'infuori del vecchio Korciaghin e delle signore.
E quel girare intorno alla tavola e quello stringer la mano a persone per la
maggior parte sconosciute, gli sembrarono, quella sera, cose assai ridicole
e seccanti.
Egli si scusò del ritardo e fece per sedersi al posto vuoto in fondo
alla tavola, tra Missy e Jekatierina Aleksèievna. Ma il vecchio Korciaghin
volle assolutamente che andasse a prendersi qualche antipasto o un bicchierino
di vodca dalla tavola su cui erano disposte aragoste, caviale, formaggio, aringhe.
Nec]iudov non credeva di essere tanto affamato, ma dopo il primo boccone di
formaggio e di pane, non poté più fermarsi e si mise a divorare
avidamente.
- Ebbene dunque, avete minato le basi? - disse Kolossòv, ripetendo con
ironia l'espressione di un giornale reazionario che aveva attaccato l'istituzione
dei giurati. Assolto i colpevoli e condannato gli innocenti, nevvero?
- Minato le basi... minato le basi, - ripeté ridendo il principe, che
nutriva una fiducia illimitata nell'intelligenza e nel sapere del suo collega
ed amico liberale.
Necliudov, a costo di sembrar scortese, non rispose e, sedutosi davanti alla
minestra fumante che gli era stata servita, continuò a mangiare.
- Lasciatelo mangiare! - disse sorridendo Missy, come per ricordare a tutti,
con l'uso di quel pronome, la sua intimità con lui.
Kolossòv, intanto, esponeva a voce alta e battagliera il contenuto dell'articolo,
che l'aveva tanto indignato, sulla giuria popolare. Gli faceva eco Micail Serghèievic,
il nipote, che riferì il contenuto di un altro articolo dello stesso
giornale.
Missy era, come sempre, assai "distinguée" e ben vestita: elegante
senz'essere chiassosa.
- Dovete essere molto stanco e affamato, - disse a Necliudov, dopo che questi
ebbe finito di mangiare. No, non moltissimo. E voi? Siete state alla mostra?
- domandò.
- No, abbiamo rimandato. Siamo invece andati al lawn tennis dai Salamatov. A
onor del vero, Krooks gioca meravigliosamente.
Necliudov era andato dai Korciaghin per distrarsi, in quella casa s'era sempre
trovato a suo agio non soltanto per il lusso raffinato che agiva piacevolmente
sui suoi sensi, ma anche per l'atmosfera adulatrice che impercettibilmente lo
avviluppava.
Ma quella sera, per un caso singolare, tutto in quella casa lo infastidiva.
Tutto, e il portiere, e l'ampio scalone, e i fiori, e i domestici, e la tavola
imbandita e perfino Missy, che gli sembrava artificiosa e poco attraente. Lo
urtavano il liberalismo e il tono arrogante e volgare di Kolossòv, la
figura taurina e sensuale del vecchio Korciaghin, le facce imbarazzate dell'istitutrice
e del ripetitore, le frasi francesi di Jekatierina Aleksèievna la slavofila.
Ma più di tutto lo aveva urtato l'uso del pronome "lo" riferito
a lui.
Necliudov oscillava sempre fra due modi di giudicare Missy. Ora scopriva in
lei tutte le perfezioni, come se la guardasse con gli occhi socchiusi o al chiaro
di luna: la vedeva fresca, bella, intelligente, e piena di naturalezza. Ora
invece, come in piena luce, era costretto a notare tutti i suoi difetti.
Così quel giorno vedeva fin le più piccole rughe del suo viso,
rilevava benissimo che s'era arricciata i capelli, notava l'angolosità
dei suoi gomiti e, soprattutto l'unghia larga del pollice, identica a quella
del padre.
- Un gioco noiosissimo, - disse Kolossav a proposito del tennis: - era molto
più divertente la laptà (1) della nostra infanzia.
- Perché non avete mai provato. E' terribilmente appassionante! - replicò
Missy. E sembrò a Necliudov che avesse pronunciato la parola terribilmente
con un'affettazione insopportabile.
Ne nacque una discussione a cui presero parte anche Micail Serghèievic'
e Jekatierina Aleksèievna. Soltanto l'istitutrice, il ripetitore e i
bambini tacevano, visibilmente annoiati.
- Discutono sempre! - disse il vecchio Korgianghin ridendo forte. Si sfilò
il tovagliolo dal panciotto e scostando rumorosamente la seggiola che il cameriere
prese a volo, si alzò da tavola. Tutti seguirono il suo esempio e avvicinandosi
al tavolino su cui erano allineate molte coppe d'acqua tiepida e profumata,
si sciacquarono la bocca e ripresero una conversazione che non interessava nessuno.
- Non è vero? - domandò Missy a Necliudov, chiamandolo a confermare
la sua affermazione che nel gioco, più che in qualsiasi altra cosa, si
rivela il carattere delle persone. Aveva notato sul volto di lui quell'espressione
tesa e accusatrice che le faceva paura, e voleva saperne la causa.
- Davvero non lo so. Non ci avevo mai pensato! - rispose Necliudov.
- Volete andare dalla mamma? - domandò Missy.
- Sì, sì, - rispose lui, accendendo una sigaretta, con un tono
che indicava chiaramente il suo scarso entusiasmo per quella visita.
Missy, senza dir nulla, lo guardò con aria interrogativa, ed egli ne
provò rimorso. "Veramente andar in casa altrui per mettere la gente
di cattivo umore...", pensò di se stesso, e sforzandosi di essere
gentile, disse che ci sarebbe andato con piacere se la principessa acconsentiva
a riceverlo.
- Sì, si! La mamma ne sarà lietissima. Potrete fumare anche di
là. C'è anche Ivàn Ivànovic'.
La padrona di casa, la principessa Sòfia Vassilievna, era una signora
che viveva su una poltrona a sdraio. Da otto anni i suoi ospiti la vedevano
così, avvolta in trine e gale, fra i velluti, le dorature, gli avori,
i bronzi, le lacche e i fiori; essa non andava mai da nessuna parte e riceveva
soltanto i suoi amici, cioè le persone che, a parer suo, si distinguevano
dalla massa. Necliudov era tra gli eletti, sia perché passava per un
giovanotto intelligente, sia perché sua madre era stata un'intima amica
della famiglia, sia perché sarebbe stato bello che Missy lo sposasse.
La camera della principessa Sòfia Vassilievna era preceduta da due salotti,
uno grande e uno piccolo. Nel salotto grande Missy, che faceva strada a Necliudov,
si fermò risoluta e appoggiando le mani sulla spalliera di una seggiolina
dorata, lo guardò.
Missy aveva una gran voglia di sposarsi, e Necliudov era un buon partito. E
poi le piaceva, e s'era talmente abituata a considerarlo suo - lui di lei, non
lei di lui - che tendeva al suo scopo con una scaltrezza inconsapevole ma tenace,
quasi da maniaca.
Ora gli voleva appunto parlare per indurlo a spiegarsi.
- Mi sono accorta che vi è accaduto qualcosa, - disse. - Che avete?
Egli si ricordò dell'incontro alle Assise, si oscurò in volto
e arrossì.
- Sì, avete ragione, - rispose, volendo esser sincero: - mi è
accaduto un caso strano, veramente insolito e grave.
- Che cosa? Non potete dirmelo?
- Per ora no. Permettetemi di non parlarne. Non ho ancora potuto analizzarlo
a fondo, - disse, e arrossì ancor di più.
- Non me lo volete dire? - Il suo viso si contrasse mentre con la mano scostava
nervosamente la seggiolina che le serviva d'appoggio.
- No, non posso, - egli rispose. Capiva che con quelle parole rispondeva a se
stesso, riconoscendo che gli era veramente accaduto qualcosa di assai grave.
- Be', allora andiamo.
essa scosse il capo come per scacciare i pensieri inutili, e proseguì.
Il suo passo era più rapido del solito.
Gli parve che essa avesse stretto le labbra nello sforzo di trattenere le lacrime.
Sentì rimorso e gli spiacque di averla afflitta, ma capì che la
più piccola debolezza da parte sua l'avrebbe rovinato per sempre. L'avrebbe
legato. E in quel momento temeva ciò più di tutto. In silenzio
la seguì fino al salottino della principessa.
NOTE.
NOTA 1: Pallacorda.
27.
La principessa Sòfia Vassìlievna aveva terminato il suo pranzo
composto di cibi molto delicati e nutrienti. Mangiava sempre sola perché
nessuno la vedesse in una funzione così poco poetica. Accanto alla sua
poltrona a sdraio vi era un tavolinetto col caffè, ed essa fumava una
sigaretta profumata. Bruna, allampanata, coi denti lunghi e gli occhi grandi
e neri, la principessa Sòfia Vassilievna aveva ancora pretese giovanili.
Correvan voci sui suoi rapporti col dottore. Necliudov, che non se ne era mai
curato, quella sera non poté fare a meno di ricordarsene, e vedendole
accanto il dottore con la sua barba biforcuta e lustra, provò un terribile
senso di ribrezzo. Vicino a Sòfia Vassìlievna, sprofondato in
una poltrona bassa e soffice accanto al tavolino, Kolossav mescolava il caffè.
Sul tavolino era appoggiato un bicchiere di liquore.
Missy accompagnò Necliudov nella stanza della madre, ma non vi si trattenne.
- Quando la mamma sarà stanca e vi manderà via, venite da me,
- disse a Kolossav e a Necliudov, volgendosi a quest'ultimo con un tono di voce
naturalissimo, come se nulla fosse passato tra loro; e con un gaio sorriso,
sfiorando leggera il tappeto spesso, uscì dalla camera.
- Oh! buongiorno, amico mio, sedete e raccontatemi, - disse la principessa Sòfia
Vassìlievna col suo sorriso artificioso e falso ma apparentemente sincero,
e scoprendo i magnifici denti lunghi, eseguiti tanto bene, da sembrar veri.
- Mi dicono che siete arrivato dal tribunale di pessimo umore. Io credo che
per una persona di cuore sia molto penoso, - disse in francese.
- Sì, questo è vero, - rispose Necliudov: - spesso senti che la
tua... senti che non hai il diritto di giudicare...
- Comme c'est vrai! (1) - esclamò lei, come colpita dalla giustezza dell'osservazione,
adulando abilmente, come sempre, il suo interlocutore. - Ebbene, che ne è
del vostro quadro? Mi interessa molto! - soggiunse; - se non fossi l'invalida
che sapete, sarei venuta a trovarvi già da un pezzo.
- L'ho abbandonato del tutto, - rispose asciutto Necliudov che in quel momento
vedeva chiaramente tanto la falsità di quelle lodi quanto l'età
che essa cercava di nascondere. Non riusciva assolutamente ad essere cortese...
- Peccato! Sapete che Riepin in persona m'ha detto che ha un vero talento? -
essa disse, rivolgendosi a Kolossòv.
"Come può non vergognarsi di mentire così?", pensò
Necliudov accigliato.
Ma visto che Necliudov non era del solito umore e che era impossibile attirarlo
in una conversazione piacevole e intelligente, Sòfia Vassìlievna
si rivolse a Kolossòv e gli domandò che cosa ne pensasse dell'ultimo
dramma teatrale. Dal tono della domanda sembrava che il giudizio di Kolossòv
avrebbe dissipato qualunque dubbio, e che ogni parola di quel giudizio avrebbe
avuto il valore di un oracolo. Kolossòv criticò il dramma e colse
l'occasione per esporre le sue idee sull'arte. La principessa, trasecolando
per l'esattezza di quei giudizi, cercava di difendere l'autore del dramma ma
poi si arrendeva subito o ricorreva al compromesso.
Necliudov osservava e ascoltava. Ma vedeva e udiva cose ben diverse da quelle
che gli stavano davanti.
Ascoltando ora Sòfia Vassìlievna ora Kolossòv, egli notò
che a nessuno dei due importava nulla del dramma, come non importava nulla all'una
dell'altro. Parlavano soltanto per appagare il bisogno fisiologico di mettere
in movimento dopo il pasto i muscoli della lingua e della gola. Notò
inoltre che Kolossòv era un po' brillo, per tutta la vodca, il vino e
il liquore che aveva bevuto: la sua ebbrezza, però, diversamente da ciò
che succede ai contadini che bevendo di rado s'ubriacano molto, era quella di
chi ha fatto l'abitudine al vino. Senza traballare o dire sciocchezze, era in
uno stato anormale di esaltata vanità. In terzo luogo, Necliudov osservò
che la principessa, durante la conversazione, guardava inquieta la finestra:
un raggio obliquo di sole stava per arrivare fino a lei, minacciando di illuminare
troppo la sua vecchiaia.
- Com'è vero quel che dite! - essa esclamò a proposito di un'osservazione
di Kolossòv, e premette sulla parete accanto alla poltrona il bottone
del campanello.
Il dottore si alzò e, come uno di casa, uscì dalla camera senza
dir nulla. Sòfia Vassìlievna l'accompagnò con lo sguardo
continuando a discorrere.
- Per favore, Filìp, abbassate quella tendina, disse indicando con gli
occhi la finestra al bel cameriere accorso alla sua chiamata.
- No, checché ne diciate, in lui c'è qualcosa di mistico, e senza
misticismo non c'è poesia, - continuò la principessa seguendo
con occhio corrucciato le mosse del cameriere che calava la tendina.
- Il misticismo senza poesia è superstizione, e la poesia senza misticismo,
prosa... - disse sorridendo languidamente, senza distogliere lo sguardo dal
cameriere che accomodava la tenda.
- Filìp, non quella tenda lì... l'altra alla finestra grande!
- esclamò con voce sofferente, evidentemente compassionandosi per lo
sforzo che le era costato il pronunciare quelle parole; e per calmarsi si portò
alle labbra con la mano carica di anelli una sigaretta profumata.
Il bel Filìp, largo di spalle, atletico, le accennò un inchino
come per scusarsi, e appoggiando delicatamente sul tappeto le sue gambe robuste
dai forti polpacci, si avvicinò obbediente e silenzioso all'altra finestra;
e mentre con lo sguardo attento seguiva la principessa, aggiustava la tenda
in modo che neppure un raggio osasse cadere su di lei. Ma ancora non andava
bene. Sòfia Vassìlievna, spossata, fu costretta a interrompere
una seconda volta il suo discorso sul misticismo per correggere quel Filìp
che non capiva nulla e la tormentava senza pietà. Per un attimo negli
occhi di Filìp s'accese una fiammella. "Dentro di sé la manderà
di certo al diavolo", pensò Necliudov osservando la scena. Ma il
bel Filìp dissimulò subito il moto d'impazienza e obbedì
rispettosamente all'ordine della padrona, la spossata, debolissima, tutta falsa
principessa Sòfia Vassilievna.
- Naturalmente nella teoria di Darwin c'è una gran parte di vero, - diceva
Kolossòv, sdraiandosi scompostamente nella poltrona bassa e guardando
con occhi assonnati la principessa. - Però oltrepassa i limiti. Sì.
- E voi ci credete all'ereditarietà? - domandò a Necliudov Sòfia
Vassilievna, imbarazzata dal suo silenzio.
- Nell'ereditarietà? - ripeté Necliudov. - No, non ci credo! -
rispose distratto, tutto preso com'era da fantasie bizzarre, sorte, chissà
perché, nella sua mente. Accanto all'erculeo bellissimo Filìp,
che egli si raffigurava come modello, gli pareva di vedere Kolossòv nudo,
col suo ventre a cocomero, la testa calva e le braccia flaccide, simili a due
fruste.
In quella torbida fantasia vedeva anche quali dovevano essere in realtà
le spalle ora ricoperte di seta e di velluto di Sòfia Vassilievna: immagine,
questa, tanto orribile, che s'affrettò a scacciarla. Sòfia Vassilievna
lo misurò con gli occhi.
- Ma Missy vi starà aspettando, - disse. - Andate da lei. Voleva suonarvi
una nuova cosa di Grieg... molto interessante.
"Non voleva suonar niente. Se l'è inventato lei per un qualche suo
scopo", pensò Necliudov alzandosi e stringendo la mano diafana,
ossuta, ricoperta di anelli di Sòfia Vassilievna.
Nel salotto gli venne incontro Jekatierina Aleksèievna e subito gli disse,
come sempre in francese: - Vedo proprio che le funzioni di giurato hanno su
di voi un'azione deprimente.
- Sì, scusatemi, oggi sono di cattivo umore e non ho il diritto di seccare
gli altri, - rispose Necliudov.
- Perché siete di cattivo umore?
- Permettetemi di non dirlo, - e Necliudov cercò il suo cappello.
- Vi ricordate quando avete detto che bisogna essere sempre sinceri? tutte le
verità scottanti che diceste a tutti noi? Perché adesso non volete
parlare? Te ne ricordi, Missy? domandò Jekatierina Aleksèievna
a Missy che s'avvicinava.
- Perché quello era un gioco, - rispose Necliudov serio. - Nel gioco
si può. Nella realtà invece siamo cattivi; io, anzi, sono così
cattivo che, perlomeno a me, è impossibile di dire la verità.
- Non cercate di aggiustarla e diteci piuttosto perché siamo così
cattivi, - ribatté Jekatierina Aleksèievna scherzando con le parole
e come se non si accorgesse della serietà di Necliudov.
- Non c'è niente di peggio che l'ammettere il proprio cattivo umore,
- disse Missy. - Io non lo confesso mai neppure a me stessa, e per questo son
sempre allegra. Su, andiamo in camera mia. Cercheremo di cacciar via "votre
mauvaise humeur" (2).
La sensazione di Necliudov era simile a quella che deve provare un cavallo quando
lo accarezzano prima di mettergli il morso e di attaccarlo. E quel giorno gli
riusciva più che mai sgradevole l'idea di essere aggiogato. Si scusò
di dover ritornare a casa, e cominciò a salutare.
Missy trattenne la sua mano più a lungo del solito. - Non dimenticate
che quanto è importante per voi lo è anche per i vostri amici,
- disse. - Verrete domani?
- Sarà difficile, - rispose Necliudov e, assalito dalla vergogna, non
sapeva se per sé o per lei, arrossì e si affrettò a uscire.
- Che gli succede? "Comme cela m'intrigue!" (3) - esclamò Jekatierina
Aleksèievna, quand'egli fu uscito. - Lo saprò senz'altro. Qualche
"affaire d'amour propre, il est très susceptible, notre cher Mitja"
(4).
- "Plutôt une affaire d'amour sale", (5) - voleva dire Missy,
ma si astenne, guardando davanti a sé con un'espressione spenta, assai
diversa da quella con cui aveva poco prima guardato Necliudov. Si tenne per
sé quel gioco di parole di cattivo gusto, e a Jekatierina Aleksèievna
disse soltanto: Tutti abbiamo dei momenti cattivi e dei momenti buoni...
"E' mai possibile che anche lui m'inganni? Dopo quanto c'è stato
fra noi, sarebbe una brutta azione da parte sua".
Se Missy avesse dovuto spiegare che cosa intendeva con le parole "dopo
quanto c'è stato fra noi", non avrebbe saputo dire nulla di preciso.
Eppure sentiva con certezza che egli non soltanto le aveva dato delle speranze,
ma quasi le aveva fatto una promessa, non con parole definite ma con sguardi,
sorrisi, allusioni, sottintesi... A lei ciò era bastato per considerarlo
suo. E ora l'idea di doverlo perdere le riusciva assai dura.
NOTE.
NOTA 1: com'è vero!
NOTA 2: Il vostro cattivo umore.
NOTA 3: Come ciò mi incuriosisce!
NOTA 4: Qualche faccenda d'amor proprio; è molto suscettibile, il nostro
Mitja.
NOTA 5: Qualche d'amore sporco, piuttosto.
28.
"Vergogna e schifo, schifo e vergogna", pensava Necliudov mentre ritornava
a casa a piedi, per strade che gli erano familiari. La sensazione penosa provata
durante la conversazione con Missy non lo abbandonava. Egli sentiva che formalmente,
per così dire, era dalla parte della ragione, poiché non si era
dichiarato e non le aveva mai detto niente di impegnativo. Eppure capiva che
in sostanza s'era legato a lei, che le aveva fatto una promessa. E, d'altra
parte, quella sera aveva sentito con tutto l'essere suo di non poterla sposare.
"Vergogna e schifo, schifo e vergogna", continuava a ripetersi pensando
non solo al contegno verso Missy, ma a tutto in generale.
"Tutto è vergognoso e schifoso, tutto", ripeteva a se stesso
entrando in casa sua.
- Non ceno stasera, - disse a Kornèi, entrato dopo di lui nella sala
da pranzo, dove aveva preparato la tavola e l'occorrente per il tè. -
Andate pure.
- Bene, signore, - rispose Kornei, ma non uscì e cominciò a sparecchiare.
Necliudov osservava Kornèi con malanimo. Avrebbe tanto voluto essere
lasciato in pace e invece gli sembrava che tutti, quasi a farlo apposta, si
divertissero a importunarlo. Quando Kornèi portò via le stoviglie,
Necliudov si avvicinò al samovàr per versarsi una tazza di tè;
ma udì i passi di Agrafena Petrovna e per evitare di vederla si ritirò
precipitosamente nel salotto chiudendo dietro di sé la porta.
Proprio in quel salotto tre mesi prima era morta sua madre.
Ed ora, entrando nella camera illuminata da due lampade a riflettore, davanti
al ritratto del padre e della madre, Necliudov si ricordò come s'era
comportato con la madre negli ultimi tempi, e gli sembrò d'aver tenuto
un contegno artificioso e ripugnante.
Anche in questo, che vergogna e che schifo!
Rammentava che, verso la fine della malattia, le aveva proprio augurato la morte.
Si era detto che voleva vederla liberata dalle sofferenze, ma in realtà
voleva essere liberato lui dalla vista di tutto quel patire. Spinto dal desiderio
di risvegliare in sé un buon ricordo di lei guardò il suo ritratto,
che un noto pittore aveva eseguito per cinquemila rubli. Ella vi appariva in
abito di velluto nero, col seno scoperto. Il pittore, evidentemente, aveva dipinto
con cura particolare il seno, l'incavo tra le due mammelle, le spalle d'una
bellezza abbagliante e il collo.
Questo poi era il colmo della vergogna e dello schifo... V'era un che di ripugnante
e di sacrilego in quella raffigurazione della madre sotto l'aspetto d'una bellezza
seminuda; tanto più ripugnante, in quanto proprio nella stessa stanza
tre mesi prima quella stessa donna giaceva rinsecchita come una mummia, mentre
un odore insopportabile si diffondeva dalla camera per tutta la casa. Necliudov
aveva ancora nelle nari quell'odore. Ricordò che il giorno prima di spirare
sua madre gli aveva stretto la mano bianca e forte con la sua manina scarna,
già un po' livida, l'aveva guardato negli occhi e aveva detto: "Non
giudicarmi, Mitja, se non ho fatto quel che dovevo", e negli occhi sfioriti
dalla sofferenza eran spuntate le lacrime... "Che vergogna!", egli
si disse ancora una volta, alzando lo sguardo alla figura seminuda: le spalle
e le braccia erano marmoree, splendide, e il sorriso pieno di trionfo.
La nudità di quel petto gli rammentò un'altra giovane donna, che
qualche giorno prima aveva visto scollata allo stesso modo. Una sera Missy l'aveva
invitato con un pretesto a casa sua per farsi vedere da lui in abito da ballo,
prima di recarsi a una festa. Ricordò con disgusto le sue spalle e le
braccia bellissime. E quel padre rozzo e bestiale, col suo passato di crudeltà,
e quel "bel esprit" della madre, dalla reputazione sospetta... Tutte
cose ripugnanti e vergognose.
Tutto ispirava vergogna e disgusto, disgusto e vergogna.
"No, no", egli pensava, "bisogna che me ne liberi; che mi svincoli
da tutte queste relazioni coi Korciaghin e con Mària Vassilievna e con
l'eredità e con tutto il resto... Sì, respirare liberamente. Andare
all'estero... a Roma, e finire il mio quadro". Ricordò i suoi dubbi
relativi al proprio talento... "Be', non importa, l'essenziale è
di respirare liberamente".
Prima a Costantinopoli, poi a Roma, ma finirla al più presto con la storia
della giuria. E per quella cosa mettersi d'accordo con l'avvocato. D'un tratto
nella sua mente sorse straordinariamente vivida l'immagine della detenuta coi
suoi occhi neri, lievemente strabici. Come aveva pianto dopo aver finito di
parlare. Nervosamente egli schiacciò nel portacenere la sigaretta che
stava fumando, ne accese un'altra e si mise a camminare sù e giù
per la stanza. E uno dietro l'altro presero forma nel suo ricordo i momenti
trascorsi con lei. Rammentò l'ultimo appuntamento, la passione che s'era
impossessata di lui e la disillusione provata dopo aver soddisfatto i sensi.
Rivide l'abito bianco col nastro azzurro, ricordò la funzione in chiesa.
"Ma io l'amavo, quella notte, l'amavo sinceramente, d'un amore buono, puro!
e l'avevo amata anche prima, e quanto, la prima volta che andai dalle zie a
scrivere la mia tesi!.....
Ritrovò la propria immagine d'un tempo. Si sentì avvolto da un
soffio profumato di freschezza, di gioventù, di vita piena, e si sentì
sconsolatamente triste.
Enorme la differenza tra l'uomo che era stato allora e quello di adesso: se
non maggiore, certo uguale alla differenza tra la Katiuscia della funzione in
chiesa e la prostituta che si ubriacava col mercante, e che avevano condannato
quella mattina. Allora egli era un uomo forte e libero, davanti al quale si
aprivano possibilità infinite. Ora si sentiva impigliato ovunque nella
rete di una vita sciocca, vuota, senza scopo, insulsa. Irretito com'era, non
vedeva alcuna via di uscita e gli mancava quasi completamente la volontà
di trovarne una. Si ricordò com'era fiero una volta della propria dirittura,
come s'era fatto una norma di dir sempre la verità. E la diceva sempre.
Ora invece era immerso completamente nella menzogna; nella più tremenda
delle menzogne: quella che tutti gli uomini del suo ambiente prendevano per
verità. Da questa menzogna non c'era, o almeno egli non la vedeva, alcuna
via di uscita; si era impegolato e assuefatto; ci si crogiolava tutto.
Come poteva rompere i rapporti con Mària Vassìlievna e con suo
marito senza doversi vergognare di guardar in faccia lui ed i suoi figli? Come
sbrogliare senza menzogna la relazione con Missy? Come uscire dalla contraddizione
che esisteva tra l'aver denunciato l'ingiustizia della proprietà terriera
e il continuare a vivere sull'eredità della madre? Come avrebbe riparato
la sua colpa verso Katiuscia? Impossibile lasciar le cose così! "Non
si può abbandonare una donna che si è amata contentandosi di pagare
l'avvocato e di evitarle la galera, che non merita affatto. Riparare una colpa
col denaro come feci allora, pensando che coi soldi ci si possa sdebitare!".
Ricordò lucidamente quando l'aveva rincorsa nel corridoio, le aveva rifilato
i soldi e poi era scappato. "Ah! quel denaro!" E al ricordo riprovò
l'orrore e il ribrezzo d'allora.
- Ohi, ohi! che schifo! - disse ad alta voce come allora, - soltanto un pessimo
soggetto, un mascalzone poteva agire così! E io, io sono quel pessimo
soggetto, quel mascalzone! - disse sempre ad alta voce. - Ma è mai possibile,
- e si fermò di colpo, - che io sia davvero un pessimo soggetto? E che
altro sarei? - rispose a se stesso.- E poi fosse soltanto questo, - continuava
ad accusarsi. - Non è forse uno schifo, una sozzura la tua relazione
con Mària Vassilievna e suo marito? E il tuo atteggiamento verso la proprietà?
Col pretesto che son danari di tua madre, sfruttare una ricchezza che hai dichiarato
illegale? E tutta la tua vita, oziosa, sporca? Bel coronamento dell'opera quel
tuo atto con Katiuscia! Miserabile mascalzone! Che la gente mi giudichi pure
come vuole. Posso ingannare gli altri, non me stesso.
Ad un tratto Necliudov comprese che l'avversione da lui provata negli ultimi
tempi e quel giorno soprattutto per il principe, per Sòfia Vassilievna,
per Missy e per Kornèi, era avversione per se stesso. E, cosa strana,
quell'ammettere la propria bassezza gli dava una sensazione di dolore ma anche
di gioia e di calma.
A Necliudov era già capitato più di una volta di fare quella che
egli chiamava la purificazione dell'anima. Intendeva con ciò quel determinato
stato d'animo per cui ad un tratto, talvolta dopo un lungo intervallo, sentendo
in sé un rallentamento, un arresto persino della vita interiore, si decideva
a far piazza pulita di tutte le sozzure che, accumulate nella sua anima, avevano
provocato la crisi.
Dopo tali risvegli Necliudov s'imponeva sempre delle regole, che questa volta
intendeva seguire fedelmente: scrivere il diario e cominciare una vita nuova,
che sperava di non cambiare mai più. Turning a new leaf (1), come diceva
a se stesso. Ma ogni volta le lusinghe del mondo l'afferravano ed egli, senza
accorgersene, cadeva di nuovo, e spesso più in basso di prima.
Parecchie volte s'era purificato e s'era rialzato. La prima volta, nell'estate
trascorsa dalle zie: risveglio vivissimo, quello, pieno di entusiasmi e i cui
effetti eran durati a lungo. Un'altra crisi simile era avvenuta quando aveva
lasciato la carriera civile e animato da spirito di sacrificio era entrato nell'esercito,
durante la guerra. Ma questa volta l'ingorgo si era formato prestissimo... Aveva
avuto la terza ed ultima crisi quando s'era dimesso dall'esercito ed era andato
all'estero per dedicarsi alla pittura. Da allora era passato molto tempo. Mai
s'era accumulata in lui tanta sozzura, mai egli aveva sentito un contrasto così
stridente fra le esigenze della sua coscienza e la vita che conduceva. E al
pensiero della distanza da colmare, inorridì.
Questa distanza era così grande e l'insozzamento così profondo
che in un primo momento disperò di potervi rimediare. "Ho già
tentato di perfezionarmi, di diventare migliore, e non ci son riuscito...",
gli sussurrava nell'anima la voce del tentatore, "a che scopo fare un'altra
prova? Non sei tu solo così! Tutti lo sono... è la vita",
diceva la voce. Ma l'essere libero, spirituale, che è il solo vero, il
solo possente, il solo eterno, cominciava a risvegliarsi in Necliudov ed egli
non poteva non prestargli fede. Per quanto grande fosse la distanza tra quello
che egli era e quello che avrebbe voluto essere, tutto appariva possibile all'essere
spirituale che si era ridestato in lui. "Spezzerò i lacci di questa
menzogna, a qualunque costo, dirò sempre la verità, a tutti, e
agirò secondo coscienza", egli si disse risolutamente e ad alta
voce.
"Dirò la verità a Missy: che sono un dissoluto e non posso
sposarla e le domanderò perdono di averla turbata. Lo dirò a Mària
Vassilievna. Anzi a lei non ho nulla da dire, dirò a suo marito che sono
un miserabile, che l'ho ingannato. Per l'eredità cercherò di agire
con giustizia. A lei, a Katiuscia, dirò che sono un mascalzone, che riconosco
la mia colpa, e farò tutto il possibile per alleggerire la sua sorte.
Sì, la vedrò e le chiederò perdono come fanno i bambini".
Si fermò. "E la sposerò, se sarà necessario".
Si fermò ancora, congiunse le mani sul petto come faceva da piccolo,
alzò gli occhi al cielo e rivolgendosi a Lui pregò: "Signore,
aiutami, insegnami. Penetra, dimora in me e purificami da ogni colpa".
Pregava, supplicava Dio che lo aiutasse, che penetrasse in lui e lo purificasse
e intanto il miracolo che implorava era già avvenuto. Dio, che viveva
in lui, s'era destato nella sua coscienza. Si sentì Dio: sentì
non soltanto la libertà, il coraggio e la gioia di vivere, ma anche l'enorme
potenza del bene. Si sentì capace di fare tutto ciò che di bello
e di buono può compiere un uomo.
Aveva le lacrime agli occhi, mentre parlava a se stesso: lacrime buone e lacrime
cattive. Buone, perché di gioia per il risveglio dell'essere spirituale
che per tanti anni aveva dormito in lui, cattive, perché lacrime d'intenerimento
sopra se stesso e la propria virtù.
Sentì caldo. S'avvicinò alla finestra e l'aprì. La finestra
dava sul giardino. Era una notte di luna, calma, fresca; sulla strada cigolarono
delle ruote e poi tutto tacque. Proprio sotto alla finestra s'intravedeva l'ombra
dei rami d'un alto pioppo nudo, riflesso con tutte le sue biforcazioni sulla
sabbia di un piazzaletto. A sinistra, il tetto della rimessa, sotto il chiaro
di luna, sembrava bianco; più in là s'intrecciavano i rami degli
alberi, oltre i quali si profilava l'ombra nera del muro di cinta. Necliudov
contemplava il giardino illuminato dalla luna, il tetto e l'ombra del pioppo,
ascoltava e aspirava l'aria fresca, balsamica. "Come si sta bene, Dio mio,
come si sta bene".
Parlava di ciò che era nato nell'anima sua.
NOTE.
NOTA 1: Voltando pagina.
29.
La Màslova rientrò nella sua camerata solo alle sei di sera, stanca
e con le gambe che le facevano male per aver camminato quindici verste sui sassi,
senza averne più l'abitudine. La severità imprevista della sentenza
l'aveva prostrata e poi aveva fame.
Al tribunale, durante un intervallo, vedendo i suoi custodi che mangiavano pane
e uova sode, le era venuta l'acquolina in bocca e s'era accorta d'aver fame.
Ma chieder loro qualcosa le sarebbe sembrato umiliante. Eran poi passate tre
ore, la fame le era scomparsa, ed essa sentiva soltanto una gran debolezza.
In questo stato aveva udito la lettura della sentenza.
Al primo momento pensò d'aver capito male: non poteva credere a ciò
che aveva udito; non sapeva concepire l'idea dei lavori forzati. Ma vedendo
le facce tranquille, impassibili dei giudici e dei giurati che avevano accolto
la notizia come la cosa più naturale del mondo, si era rivoltata e aveva
gridato a tutta la sala la propria innocenza.
Vedendo che anche il suo grido era stato accolto come una cosa molto naturale,
attesa e impotente a mutare gli eventi, s'era messa a piangere e aveva capito
di doversi sottomettere a quella crudele e strana ingiustizia commessa contro
di lei. Non riusciva soprattutto a capacitarsi d'essere stata giudicata con
tanta durezza proprio dagli uomini, da quegli uomini giovani e nel fiore degli
anni, che avevano continuato a guardarla con tanta simpatia. Uno soltanto, il
sostituto procuratore, le era sembrato d'umore completamente diverso. Mentre
sedeva in camera di sicurezza aspettando la Corte, e durante gli intervalli
del processo, aveva notato che tutti, chi per una ragione chi per l'altra, passavano
davanti alla sua porta o entravano nella camera con l'unico scopo di darle un'occhiata.
E all'improvviso quei medesimi uomini, per una ragione incomprensibile, l'avevano
condannata ai lavori forzati, sebbene innocente del fatto che le veniva imputato.
Aveva pianto, ma poi s'era calmata, e in uno stato di completa prostrazione
s'era seduta in guardina aspettando che la venissero a prendere. Non aveva che
un unico desiderio: fumare. Così la trovarono la Boc'kova e il Kartinkin,
che dopo la sentenza eran stati condotti in quella stessa camera. La Boc'kova
cominciò subito ad ingiuriare la Màslova, a chiamarla pezzo da
galera.
- Hai incassato il colpo? Le hai prese, eh? Credevi forse di cavartela, vigliacca!
Hai avuto quel che ti meritavi. In galera, almeno, la pianterai di far la civetta.
La Màslova sedeva con le mani infilate nelle maniche della casacca e
con la testa bassa guardava fissamente a due passi più in là,
il pavimento sudicio. Si limitò a rispondere: - Vi dò noia, io?
Lasciatemi anche voi in pace. Non vi dico niente, io! - ripeté parecchie
volte, poi tacque del tutto. Si rianimò un poco solo quando portarono
via la Boc'kova e il Kartinkin, ed entrò un custode con tre rubli per
lei.
- Sei la Màslova? - le domandò. - To', prendi, te li manda una
signora, - disse, porgendole i denari.
- Che signora?
- Sù, prendi! Non ho altro da fare che perdere il tempo con voi!
Quel denaro l'aveva mandato la Kitàieva. Prima di lasciare il tribunale,
aveva chiesto all'usciere se poteva mandare una piccola somma alla Màslova.
L'usciere aveva detto di sì. Ricevuto il permesso, la donna s'era sfilata
dalla mano bianca e paffuta il guanto scamosciato a tre bottoni, aveva tirato
fuori dalle pieghe posteriori della gonna di seta un portafogli alla moda e
scelto tra un bel mucchio di cedole appena staccate - frutto dei proventi della
sua casa - un biglietto da due rubli e cinquanta, l'aveva porto all'usciere,
aggiungendovi altre due monete da venti copeche e una da dieci. Costui, chiamato
il custode, gli aveva consegnato il denaro in presenza della donatrice.
- Per favore non mancate di darglieli, - aveva detto Karolina Albèrtovna
al custode.
Il custode s'era offeso del sospetto e per questo aveva trattato tanto male
la Màslova.
La Màslova ricevette il denaro con gioia, giacché le avrebbe permesso
di procurarsi l'unica cosa che desiderava in quel momento.
"Potessi soltanto avere una sigaretta e stendermi!", essa pensava,
tutta presa dal desiderio di fumare. Ne aveva una voglia tale, che aspirava
avidamente l'aria impregnata di odor di tabacco che usciva nel corridoio dalla
porta di un ufficio. Ma le toccò aspettare ancora un pezzo poiché
il cancelliere, cui spettava di farla ricondurre, s'era dimenticato degli imputati
e stava discutendo animatamente con un avvocato a proposito dell'articolo clandestino.
Finalmente alle quattro passate la lasciarono andare e i soldati di scorta,
quello di Nizni-Nòvgorod e il ciuvasci, la fecero uscire dalla porta
posteriore del tribunale. Ancora sulla soglia dell'edificio, essa aveva dato
loro venti copeche perché le comprassero due panini e le sigarette. Il
ciuvasci s'era messo a ridere, ma aveva preso i soldi dicendo: Bene, compreremo,
- e onestamente aveva comprato i due panini e le sigarette, riportando anche
il resto.
Per strada era impossibile fumare, sicché la Màslova quando giunse
alla prigione non aveva ancora soddisfatto la sua voglia. Mentre stava per entrare
sotto il portone, un centinaio di detenuti condotti lì dalla stazione
dove erano appena arrivati, le vennero incontro. C'erano uomini con la barba
e altri con la faccia rasa; c'erano giovani e vecchi, russi e allogeni, e molti
avevano la testa rasata a metà. Trascinandosi con fracasso le catene
ai piedi, i detenuti riempirono l'ingresso di polvere, di rumore di passi, di
voci e di un lezzo acre di sudore.
Passando accanto alla Màslova, si voltavano a guardarla. Alcuni le si
avvicinarono e la toccarono.
- Ah, che bella ragazza! - disse uno. - Zietta, i miei rispetti! - esclamò
un altro ammiccando. Un bruno con la nuca azzurra per la rasatura e con un paio
di baffi sul viso rasato, inciampando nelle catene con gran rumore le si gettò
addosso e l'abbracciò.
- O che non lo riconosci, il tuo tesoro? Sù, non darti delle arie! -
egli gridò, mostrando i denti e con un lampo negli occhi, quand'essa
lo respinse.
- Mascalzone, che cosa fai? - urlò il vice direttore sopraggiungendo
dal fondo.
Il detenuto si raggomitolò tutto e balzò via in fretta. Il vice
direttore aggredì la Màslova: - E tu perché sei qui?
La Màslova voleva spiegare che l'avevano ricondotta dal tribunale, ma
era tanto stanca che non si sentiva di parlare.
- Dal tribunale, Eccellenza, - disse il soldato più anziano, facendosi
strada fra i detenuti e portando la mano al berretto.
- E allora consegnala al capo custode. E' una vera indecenza.
- Ai vostri ordini, Eccellenza.
- Sokolòv! Portala via! - urlò il vice direttore.
Il capo custode si avanzò, spinse rabbiosamente la Màslova per
una spalla e fattole un cenno con la testa l'accompagnò fino al corridoio
delle donne.
Qui la palparono, la perquisirono bene e non avendo trovato nulla (il pacchetto
delle sigarette era nascosto in un panino) la spinsero nella camerata da cui
era uscita quella mattina.
30.
La camerata della Màslova era un locale lungo nove arscini e largo sette,
con due finestre, una stufa ingombrante e scalcinata e il tavolaccio di assi
sconnesse che occupava i due terzi della superficie. Sulla parete di fronte
alla porta era appesa un'icona scura, cui era incollata una candela di cera,
mentre un mazzo polveroso di semprevivi vi penzolava sotto. A sinistra della
porta, dove il pavimento appariva tutto annerito, poggiava il bigoncio degli
escrementi. Il controllo era appena passato e le donne erano già rinchiuse
per la notte.
Le abitatrici di quella camerata erano quindici: dodici donne e tre bambini.
Faceva ancora molto chiaro, due donne soltanto erano sdraiate sulle cuccette.
Una, con la casacca tirata sulla testa, era una povera scema, arrestata per
vagabondaggio: dormiva quasi sempre. L'altra, una tisica, era stata condannata
per furto. Costei non dormiva, ma stava coricata con la gabbana sotto la testa
e gli occhi spalancati; per non tossire, si sforzava di trattenere il catarro
che le faceva un groppo in gola.
Le altre donne erano tutte a capo scoperto e in camicia di tela grezza; alcune
sedevano sul tavolaccio intente a cucire, altre stavano alla finestra e guardavano
passare i detenuti. Delle tre che cucivano, una, la Korabliòva, era la
vecchia che al mattino aveva accompagnato la Màslova alla porta: una
donna dalla faccia rugosa, cupa, imbronciata, con una borsa di pelle vizza sotto
il mento; alta e forte, aveva i capelli castani, brizzolati alle tempie, raccolti
in una trecciolina corta, e un porro peloso sulla guancia. L'avevan condannata
ai lavori forzati per aver ucciso il marito con una scure. Ed essa l'aveva ucciso
perché importunava la figlia. La Korablòva era la decana della
camerata e vendeva il vino. Cuciva con gli occhiali e fra le grosse mani di
lavoratrice teneva l'ago alla maniera delle contadine, con tre dita e con la
punta rivolta verso di sé. Le sedeva accanto, intenta a cucire dei sacchi
di canapa, una donna piuttosto piccola, di colorito scuro, con due occhietti
neri e il naso camuso, bonacciona e loquace. Guardiana di un casello ferroviario
doveva scontare tre mesi di pena per aver trascurato di sventolare la bandierina
al passaggio di un treno, causando perciò un sinistro.
La terza donna che cuciva si chiamava Fedossia: Fènic'ka per le sue camerate.
Bianca e rossa, con due occhi azzurri luminosi e infantili, e due lunghe trecce
castane avvolte intorno alla piccola testa, era giovanissima e assai graziosa.
Si trovava in prigione perché aveva tentato di avvelenare il marito.
Il fatto era avvenuto subito dopo il matrimonio, che le avevano fatto contrarre
quand'era una ragazzetta di sedici anni. Ma negli otto mesi successivi che,
in attesa del processo, aveva trascorso a casa in libertà provvisoria,
non solo s'era riconciliata col marito, ma se n'era tanto innamorata che l'annuncio
del giudizio li aveva sorpresi in perfetta armonia d'animo e di corpo. Durante
il processo il marito, il suocero e specialmente la suocera che le si era affezionata
molto, l'avevano difesa strenuamente, ma nonostante tutti i loro sforzi essa
era stata condannata ai lavori forzati in Siberia. Buona, sempre allegra e spesso
sorridente, Fedòssia non solo s'era affezionata alla Màslova,
ma si riteneva in obbligo di prodigarle cure e attenzioni. Sul tavolaccio sedevano
senza far niente altre due donne: una sulla quarantina, dal viso smunto, emaciato.
Benché magra e pallida, si capiva che doveva esser stata molto bella.
Teneva fra le braccia un bambino e gli dava il latte da una mammella bianca
e cadente. Nel suo villaggio, quando il commissario era venuto per condur via
un giovane che doveva prestar servizio militare, i contadini, ritenendola un'azione
contraria alla legge, si erano opposti, e quella donna, zia del giovane coscritto,
era stata la prima a trattenere per la briglia il cavallo sul quale lo portavano
via. Per questo l'avevano condannata.
L'altra donna seduta sul tavolaccio senza far nulla era una vecchietta piccola,
bonaria, tutte rughe, coi capelli grigi e la schiena curva. Seduta accanto alla
stufa, fingeva di acchiappare un bambino di quattro anni dai capelli tagliati
cortissimi che le correva davanti col suo pancino rotondo scoppiando in allegre
risate. Il bimbetto in sola camiciola le passava accanto di corsa e continuava
a ripetere: - Lo vedi che non mi hai preso?
Questa vecchina, accusata insieme col figlio d'incendio doloso, sopportava la
sua reclusione con la massima pazienza e aveva soltanto due crucci, il figlio
che si trovava anch'egli in carcere e il suo vecchio che senza di lei si sarebbe
certamente riempito di pidocchi, giacché la nuora se n'era andata e in
casa non c'era nessuno che lo lavasse.
Oltre a queste sette donne, altre quattro stavano davanti alla finestra aperta,
e aggrappate alle sbarre di ferro, scambiavano segni e grida coi detenuti che
attraversavano il cortile, gli stessi in cui s'era imbattuta la Màslova.
Una di costoro, in prigione per furto, era una rossa, un donnone dal corpo sfatto,
con la faccia, le mani, e il collo grasso che usciva dal colletto slacciato,
di un colore giallastro e ricoperti di lentiggini. Con voce roca gridava parolacce
dalla finestra. Accanto a lei stava una donna non più alta di una bambina
di dieci anni, scura di pelle, sgraziata, col tronco lungo e le gambe cortissime.
Aveva la faccia rossa e chiazzata, gli occhi neri distanti, le labbra grosse
e corte che lasciavano scoperti i denti bianchi e sporgenti. Con voce stridula,
a scatti, rideva alle scene del cortile. Questa detenuta, soprannominata Corosciavka
(1) per i suoi sfoggi di eleganza, era stata condannata per furto e incendio
doloso.
Dietro a loro si vedeva una donna incinta, magra, con le vene sporgenti e un
ventre enorme; aveva un camicia grigia sporchissima e un aspetto da muovere
a pietà. Era stata condannata per ricettazione. Taceva, ma sorrideva
in segno di approvazione e di compiacimento per ciò che avveniva nel
cortile. La quarta in piedi presso la finestra, in carcere per contrabbando
di acquavite, era una contadina piuttosto piccola, tarchiata, con gli occhi
molto sporgenti e la faccia bonaria. Era la madre del bambino che giocava con
la vecchia e di una bambina di sette anni, tutti e due in prigione con lei perché
fuori non aveva a chi affidarli. Guardava come le altre dalla finestra, ma senza
smettere un istante di fare la calza, aggrottava la fronte con aria di disapprovazione
e chiudeva gli occhi alle parole che giungevano dal cortile. La sua bambina,
coi capelli chiarissimi sciolti e indosso soltanto la camicina, stava accanto
alla rossa e, aggrappandosi con la manina magra alla sua gonna, ascoltava attenta
con gli occhi sbarrati gli improperi che si scambiavano fra di loro uomini e
donne e poi li ripeteva sottovoce per imprimerseli nella memoria. La dodicesima
carcerata era la figlia di un sagrestano che aveva affogato in un pozzo la sua
creatura. Era una ragazza alta e ben fatta, con i capelli arruffati che sfuggivano
da una treccia grossa e bionda e con gli occhi sporgenti e fissi. Senza prestare
alcuna attenzione a ciò che le succedeva d'intorno, e con indosso una
camicia grigia e sporca, camminava scalza avanti e indietro per lo spazio libero
della camerata, voltandosi con uno scatto improvviso quando arrivava alla parete.
NOTE.
NOTA 1: La bellona.
31.
Quando la serratura stridette, e la Màslova entrò nel camerone,
tutte si voltarono a guardarla. Persino la figlia del sagrestano interruppe
per un momento la sua passeggiata, guardò la nuova venuta inarcando le
sopracciglia, poi senza aprir bocca si rimise a camminare coi suoi passi lunghi
e risoluti. La Korabliòva puntò l'ago nella tela greggia e guardò
la Màslova attraverso gli occhiali, con aria interrogativa.
- Eh, ohimè! Sei tornata. E io che credevo nella tua assoluzione, - disse
con la sua voce roca, bassa, quasi maschile. - Te l'han fatta, allora!
Si levò gli occhiali e depose il cucito accanto a sé sul tavolaccio.
- Noi, tesoro, si diceva appunto ora con la zia, che forse ti avrebbero liberata
subito. A volte succede, si diceva. Danno anche dei denari se capiti al momento
giusto, - disse la cantoniera con la sua voce cantante. - Mah! che volete! Si
vede che non siamo fortunate... Il Signore, si vede, vuole il suo, tesoro mio!
- disse tutto d'un fiato con la sua voce carezzevole e armoniosa.
- Ti hanno proprio condannata? - domandò Fedossia con affettuosa commiserazione,
guardando la Màslova coi suoi occhi celesti e infantili; e il suo viso
allegro e giovane s'offuscò tutto, come se essa fosse sul punto di piangere.
La Màslova non rispose, si avviò silenziosa al suo posto, il secondo
dal fondo, vicino alla Korabliòva, e sedette sul tavolaccio.
- Scommetto che non hai mangiato, - disse Fedossia, alzandosi e andandole vicino.
La Màslova, senza rispondere, mise i panini sul tavolaccio e cominciò
a spogliarsi. Si tolse la casacca polverosa e il fazzoletto che le copriva i
riccioli neri e sedette.
La vecchietta gobba che all'altro estremo del tavolaccio giocava col bambino,
si avvicinò anch'essa e si fermò di fronte alla Màslova.
-Tz, tz, tz... - schioccò con la lingua, scuotendo impietosita la testa.
Il bambino che aveva seguito la vecchia guardava i panini della Màslova
con gli occhi sgranati e con una mossuccia della bocca. Dopo tutto quello che
aveva passato nella giornata, la Màslova, vedendosi d'attorno tutte quelle
facce compassionevoli, fu presa da una gran voglia di piangere. Le labbra le
tremarono, ma cercò di trattenersi, e si trattenne fino al momento in
cui si avvicinarono la vecchia e il bambino. E quando udì lo tz tz, amorevole
e pietoso della vecchietta e incontrò lo sguardo del bambino che scorreva
serio serio dai panini a lei, non poté più frenarsi. Il viso le
tremò tutto ed essa scoppiò in singhiozzi.
- Te lo dicevo io, di trovarti un bravo difensore, - disse la Korabliòva.
- Che ti han dato, l'esilio? - domandò.
La Màslova avrebbe voluto rispondere, ma non poteva. Singhiozzando, tolse
dal panino il pacchetto di sigarette, sul quale si vedeva una signora con guance
rosse, una pettinatura molto alta, e una scollatura a punta e lo porse alla
Korabliòva. Questa osservò la figura, crollò il capo, disapprovando
soprattutto che la Màslova avesse speso così male i denari; poi
presa una sigaretta, l'accese alla lampada, ne aspirò una boccata, e
gliela mise tra le labbra. La Màslova, senza smettere di piangere, cominciò
a fumare con avidità una boccata dietro l'altra.
- Lavori forzati, - proruppe fra i singhiozzi.
- Non temono Dio, sanguisughe, vampiri maledetti! esclamò la Korabliòva.
- Condannare una ragazza che non ha fatto nulla!
Fra le donne alla finestra risuonò uno scoppio di risa. Rideva anche
la bambina, e la sua risata sottile, fanciullesca, si confondeva con quella
roca e stridula delle detenute. Nel cortile qualcuno aveva fatto un gesto che
aveva provocato l'ilarità delle donne.
- Ah! cane tosato! Che fa? - sbottò la rossa e dondolandosi in tutto
il corpo grasso, col viso schiacciato contro le sbarre, urlò parole oscene
e senza senso.
- Ve', quella pelle di tamburo! Che cos'ha da gracchiare? - disse la Korabliòva,
scuotendo la testa in direzione della rossa, e si rivolse di nuovo alla Màslova.
- Quanti anni?
- Quattro, - rispose la Màslova, e le lacrime le sgorgarono così
abbondanti che una bagnò la sigaretta. La Màslova la schiacciò
con rabbia, la gettò via e ne prese un'altra.
Sebbene non fumasse, la cantoniera si affrettò subito a raccattare il
mozzicone e lo lisciò, sempre continuando a parlare.
- Si vede proprio, tesoro, - diceva, - che la giustizia se l'è pappata
il porco. Fanno quel che vogliono. E noi che s'era predetto che ti avrebbero
fatta uscire! La Matvèjevna diceva di sì, ma io, tesoro, dicevo:
"Ho il presentimento che la rovineranno", e così è stato...
- Evidentemente si compiaceva molto al suono della propria voce.
Frattanto i detenuti avevano lasciato il cortile e le donne s'erano scostate
dalla finestra e avvicinate alla Màslova. La prima ad arrivare fu la
contrabbandiera di acquavite dagli occhi a fior di testa con la sua bambina.
- E allora, sono stati molto severi? - domandò, sedendosi vicino alla
Màslova e continuando a sferruzzare in fretta.
- Sono stati severi perché non ci sono denari. Ci fossero stati i quattrini
per prendere un avvocato in gamba, forse l'avrebbero assolta, - disse la Korabliòva.
- Quello... come si chiama... quel nasone tutto peli, quello, cara mia, vi tirerebbe
fuori dall'acqua asciutte. Avesse potuto prender lui...
- Come faceva a prenderlo, - disse scoprendo i denti la Corosciavka, che s'era
seduta vicino a loro: - Quello per meno di mille non ti sputa nemmeno in faccia.
- Già, si vede che ognuno ha il suo destino, - interloquì la vecchietta
condannata per incendio doloso. - Vi par roba da niente? Al mio ragazzo gli
han portato via la moglie e per giunta l'han mandato in prigione a nutrire i
pidocchi. E io, cacciata qua dentro, vecchia come sono? - cominciò per
la centesima volta a raccontare la sua storia. - Si vede che alla prigione e
alla miseria non si sfugge. Se non è la miseria è la prigione.
- Fanno così con tutti, - disse la contrabbandiera, e, osservata la testa
della bambina, appoggiò la calza vicino a sé, si prese la figlia
tra le ginocchia e con le dita svelte cominciò a cercarle in testa. -
"Perché vendi l'acquavite?". "E i bambini come li nutro?",
- diceva, continuando l'operazione che le era familiare.
Le parole della donna ricordarono alla Màslova l'acquavite.
- Ne berrei un goccio! - disse alla Korabliòva, asciugandosi le lacrime
con la manica della camicia. Ormai non singhiozzava quasi più.
- E perché no? Sù, dammi i soldi, - rispose la Korabliòva.
32.
La Màslova levò dal panino i denari e diede la banconota alla
Korabliòva. Questa la prese, la guardò e sebbene non sapesse leggere,
credette alla conferma della Corosciavka, informatissima su tutto, che quel
biglietto valeva due rubli e cinquanta, e si accostò furtivamente alla
bocca della stufa, dove teneva nascosta la bottiglia di acquavite. Vedendo ciò,
le donne che non avevano la cuccetta vicino alla Maslova, se ne andarono ai
loro posti. La Màslova intanto scosse la polvere dal fazzoletto e dalla
casacca, montò sulla cuccetta e si mise a mangiare un panino.
- Ti ho tenuto da parte il tè, ma si sarà raffreddato - le disse
Fedossia, prendendo da un palchetto una teiera di latta, avvolta in una pezza
da piedi, e un boccale.
La bevanda era completamente fredda e sapeva più di latta che di tè,
ma la Màslova se ne riempì il boccale e lo sorseggiò col
pane.
- To', Finascka, - chiamò forte e, spezzato il pane, ne diede un po'
al bambino che la guardava mangiare.
La Korabliòva, intanto, aveva portato la bottiglia d'acquavite e un boccale
e la Màslova offrì da bere alla Korabliòva e alla Corosciavka.
Queste tre detenute costituivano l'aristocrazia della camerata perché
avevano del denaro e si dividevano i loro beni.
Dopo qualche minuto la Màslova si rianimò e si mise a raccontare
con spigliatezza gli avvenimenti del processo, facendo il verso al sostituto
procuratore e a tutto ciò che l'aveva maggiormente colpita.
In tribunale tutti si voltavano a guardarla e nella camera di sicurezza era
un andirivieni continuo di uomini che volevano vederla... - Anche il soldato
di scorta lo diceva, che venivano tutti per me. Ne entra uno e si mette a cercare
una carta o che so io. Ma si capisce benissimo che è tutta una scusa,
lo vedo che mi divora con gli occhi, - diceva sorridendo e scrollando il capo
perplessa. - Anche loro, che artisti!
- Tutti così, sono, - riprese a dire la casellante con la sua voce che
fluiva melodiosa. - Come mosche sullo zucchero. Sul resto non volano, ma qui
li prendi. Il pane non lo vogliono...
- E anche qui, - l'interruppe la Màslova. - Anche qui ci sono cascata.
Stavo giusto entrando, quando mi imbatto in uno scaglione che arriva dal treno.
Non sapevo come cavarmela, tanto li avevo addosso. Fortuna che il vice direttore
li ha cacciati via. Uno poi era tanto sfacciato che ho faticato a liberarmene.
Com'era? - domandò la Corosciavka.
- Bruno, coi baffi.
- Dev'essere lui.
- Chi lui?
- Ma S'ceglòv! Quello che è passato adesso.
- E chi è?
- Come non sai chi è S'ceglòv? E' evaso due volte dalla galera.
Adesso l'han preso, ma scapperà. Anche i custodi lo temono, - disse la
Corosciavka, che faceva passare i bigliettini ai detenuti ed era al corrente
di tutto ciò che succedeva nella prigione. - Scapperà senza dubbio.
- Se scapperà, non prenderà con sé né te né
me, - disse la Korabliòva.
- Ma tu, piuttosto, dimmi, - si rivolse alla Màslova; - che cosa ti ha
detto l'avvocato per il ricorso? Bisognerà ben presentarlo!
La Màslova rispose che non ne sapeva nulla. Intanto la rossa alzando
le mani lentigginose ai capelli folti e arruffati e grattandosi la testa con
le unghie, si avvicinò alle aristocratiche che bevevano l'acquavite.
- Te lo dirò io, Jekatierina, - cominciò. - Prima di tutto, devi
scrivere che non sei contenta del verdetto e poi dichiararlo al procuratore.
- Ma tu che cosa vuoi? - le si rivolse stizzita con la sua voce di basso la
Korabliòva: - hai fiutato l'acquavite, lascia pur stare di parlar tanto.
Sappiamo anche senza di te ciò che si deve fare, non abbiamo bisogno
del tuo aiuto.
- Non parlo con te, perché ci ficchi il naso?
- Hai voglia di acquavite? Per questo ti avvicini!
- Suvvia, dagliene, - disse la Màslova, che divideva sempre con tutti
quel che aveva.
- So ben io che cosa le darò...
- Su su, dunque, - si mise a dire la rossa, avvicinandosi alla Korabliòva.
- Non ho paura di te.
- Pelle da galera!
- Chi me lo dice...
- Vecchio budello!
- Io, budello? Pezzo da galera, assassina! - urlò la rossa.
- Vattene, ti dico, - minacciò la Korabliòva con aria cupa.
Ma la rossa continuava ad avvicinarsi e la Korabliòva le dette uno spintone
nel seno grasso, scoperto. La rossa non sembrava aspettar altro e con un gesto
subitaneo afferrò con una mano la Korabliòva per i capelli, mentre
con l'altra cercava di schiaffeggiarla, ma la Korabliòva gliela strinse
come in una morsa. La Màslova e la Corasciavka presero la rossa per le
braccia, cercando di allontanarla, ma la mano di costei aggrappata alla treccia
non mollava la presa. Se allentò per un istante la stretta, fu soltanto
per avvolgersi i capelli intorno al pugno. La Korabliòva, con la testa
piegata, martellava il corpo della rossa e cercava di morderle la mano.
Le donne si erano raggruppate intorno alle due litiganti, e cercavano di separarle
e gridavano. Persino la tisica, scossa dalla tosse, s'era avvicinata e guardava
la rissa. I bambini si stringevano paurosamente fra di loro e piangevano. A
quel chiasso accorsero i carcerieri. Le due donne furono separate e la Korabliòva
si sciolse la treccia grigia per togliersi le ciocche strappate, mentre la rossa
si stringeva sul petto giallastro la camicia a brandelli. Gridavano tutte e
due, volevano spiegarsi e si lagnavano.
- Lo so ben io di che si tratta; acquavite. Domani lo dirò al direttore
e penserà lui a punirvi. Sento l'odore, - disse la carceriera, - badate
bene: via tutto o finirà male. Non ho tempo da perdere con voi. A posto
e silenzio!
Ma il silenzio stentava a ristabilirsi. Le donne continuarono a insultarsi ancora
per un pezzo, a raccontarsi com'era andata e di chi era la colpa. Finalmente
i carcerieri si ritirarono e le donne a poco per volta si calmarono e andarono
a dormire. La vecchietta si mise a pregare davanti all'icona.
- Due donnacce da galera si son messe insieme, proruppe d'un tratto la voce
roca della rossa all'altra estremità delle cuccette, accompagnando ad
ogni parola improperi bizzarramente raffinati.
- Bada che non ti voli ancora qualcosa in testa, rispose subito la Korabliòva,
con una raccolta di ingiurie dello stesso genere. Poi tutte e due tacquero.
- Se non me lo impedivano, ti cavavo gli occhi... - ricominciò la rossa
e la risposta della Korabliòva non si fece aspettare.
Seguì una pausa più lunga, poi un nuovo scambio di imprecazioni.
Gli intervalli si facevano sempre più prolungati e alla fine regnò
il silenzio assoluto.
Tutte le donne erano coricate e alcune russavano. Solo la vecchietta, che pregava
sempre a lungo, continuava a inchinarsi davanti all'icona, mentre la figlia
del sagrestano, appena uscita la guardiana, s'era alzata e aveva ripreso a camminare
in sù e in giù per la camerata.
La Màslova non dormiva, oppressa dal pensiero dei lavori forzati. Era
ormai una donnaccia da galera, come già due volte l'avevano chiamata,
prima la Boc'kova, poi la rossa e a quell'idea non poteva adattarsi. La Korabliòva,
che le voltava la schiena, si rigirò.
- Non me lo sarei mai sognato, - disse piano la Màslova. - Certi che
le fanno grosse la passano liscia e io devo soffrire senza nessuna colpa.
- Non affliggerti, ragazza mia. Anche in Siberia si vive. E tu te la caverai
anche là! - la consolava la Korabliòva.
- Lo so che me la caverò, ma non è giusto... Non è un destino
per me. Abituata come sono alla bella vita...
- Nessuno può opporsi ai voleri di Dio! - esclamò la Korabliòva.
- Nessuno...
- Lo so, zietta; ma è difficile lo stesso. - Esse tacquero.
- La senti quella donnaccia? - riprese la Korabliòva, richiamando l'attenzione
della Màslova sui suoni strani che provenivano dall'altra estremità
delle cuccette.
La rossa singhiozzava sommessamente. Piangeva perché l'avevano insultata,
picchiata e lasciata senza acquavite, mentre ne aveva tanta voglia; e perché
in tutta la sua vita non aveva conosciuto altro che insulti, beffe, offese e
busse. Per consolarsi, aveva cercato di rievocare il suo primo amore per Fedia
Molodionkov, un operaio di fabbrica, ma subito le si era affacciato alla mente
anche la fine di quell'amore, quando questo Molodionkov, ubriaco, per farle
uno scherzo, l'aveva cosparsa di vetriolo nel punto più sensibile e poi
s'era messo a sghignazzare coi compagni, mentre lei si contorceva dal dolore.
A quel ricordo la donna aveva sentito pietà di se stessa e pensando che
nessuno l'avrebbe udita s'era messa a piangere. Piangeva come i bambini, gemendo,
tirando su col naso e inghiottendo le lacrime salate.
- Fa pena, - disse la Màslova.
- Fa pena, si sa, ma che non scocci!
33.
Il giorno seguente, quando si risvegliò, Necliudov provò subito
la sensazione che qualcosa gli fosse accaduto; e ancor prima di ricordarsene,
sapeva già che si trattava di un avvenimento buono e importante.
"Katiuscia, il processo". Sicuro, e la risoluzione presa di non mentire
più, di dir sempre tutta la verità. Per una strana combinazione,
quella stessa mattina arrivò finalmente la lettera tanto attesa di Mària
Vassìlievna, la moglie del maresciallo, proprio la lettera che Necliudov
aveva ora più che mai bisogno di ricevere. Essa gli rendeva la sua libertà,
e gli augurava di essere felice nel suo prossimo matrimonio.
"Matrimonio!", disse egli fra sé con ironia. "Come son
lontano da questo". Rammentò la promessa che si era fatta il giorno
avanti di raccontare tutto al marito di lei, di chiedergli perdono e di mettersi
a sua disposizione per qualsiasi soddisfazione gli avesse richiesto. Ma di mattina
la cosa non gli sembrava più tanto facile come la sera prima.
"E poi perché rendere infelice un uomo, rivelandogli ciò
che egli ignora? Se me lo chiederà, gli racconterò tutto. Ma andar
proprio io a dirglielo... No, non è necessario".
Altrettanto difficile gli sembrava quel mattino dir tutta la verità a
Missy. Anche in questo caso non era possibile intavolare l'argomento: sarebbe
stato offensivo. Come in molte relazioni mondane, meglio lasciar le cose sottintese...
Ed egli decise senz'altro che non sarebbe più andato da lei e che avrebbe
detto la verità soltanto se gliel'avessero chiesta. Ma, per quanto riguardava
i suoi rapporti con Katiuscia, nulla doveva rimanere sottaciuto. "Andrò
in prigione, a parlarle, e la pregherò di perdonarmi. E se sarà
necessario, sì... se sarà necessario, la sposerò!",
egli pensava. Il pensiero di sacrificarsi per una riparazione morale e di sposarla,
quel mattino lo commuoveva moltissimo.
Da un pezzo non aveva iniziato la sua giornata con tanta energia. Ad Agrafena
Petrovna che era entrata in camera dichiarò subito con una fermezza di
cui egli stesso si meravigliò, che non aveva più bisogno né
dell'appartamento né dei suoi servigi. Per un tacito accordo era stato
deciso che egli avrebbe conservato quella casa così grande e costosa
per portarvi la moglie. La cessione della casa, quindi, assumeva un significato
speciale. Agrafena Petrovna lo guardò sorpresa.
- Vi sono molto grato, Agrafena Petrovna, per le cure che mi avete prodigato,
ma a me ora non serve un appartamento così grande e tanta servitù.
Se però volete aiutarmi, siate così gentile da occuparvi della
roba, e riporla per ora come quando era viva la mamma. Mia sorella Natascia,
poi, provvederà per il meglio.
Agrafena Petrovna scosse la testa.
- Come? Ma vi occorrerà certamente! - osservò.
- No, non mi occorrerà, Agrafena Petrovna, sono sicuro che non mi occorrerà,
- replicò Necliudov, rispondendo a quel che essa aveva voluto dire tentennando
la testa.
- Dite per favore a Kornèi che gli pagherò due mesi anticipati,
ma che non ho più bisogno di lui.
- Fate male, Dmitri Ivànovic', a far così, - essa mormorò.
- Be', anche se andrete all'estero, vi occorrerà sempre una casa.
- Non è come pensate, Agrafena Petrovna. Non vado all'estero, e se mai
partirò, sarà per tutt'altro paese.
Ad un tratto si fece di porpora.
"Si, bisogna che glielo dica", pensò, "non c'è
niente da nascondere. Bisogna dir tutto a tutti".
- Ieri mi è successa una cosa molto strana e grave. Ricordate la Katiuscia
della zia Mària Ivànovna?
- Certo! Le ho insegnato a cucire...
- Be', proprio ieri c'è stato in tribunale il processo di questa Katiuscia
e io ero giurato.
- Ah, mio Dio che pena! - disse Agrafena Petrovna. - E di che cosa era accusata?
- Di omicidio... e tutto questo l'ho fatto io.
- E come potete averlo fatto voi? Parlate in modo molto strano, - esclamò
Agrafena Petrovna e nei suoi vecchi occhi s'accese una scintilla.
Essa conosceva la storia di Katiuscia.
- Sì, la colpa è soltanto mia. E questo cambia tutti i miei piani.
- Ma in che modo, cambia i vostri piani? - disse Agrafena Petrovna, trattenendo
un sorriso.
- Se lei si è messa su quella strada per colpa mia, tocca a me cercar
di aiutarla...
- Bontà vostra... Però voi non ci avete una colpa speciale in
questo. Succede a tutti, e se si fanno le cose con giudizio, tutto s'aggiusta
e si dimentica e la vita continua, disse Agrafena Petrovna in tono austero e
serio; - non è poi il caso che vi prendiate voi la responsabilità.
Anche prima avevo sentito dire che s'era allontanata dalla retta via, e allora
chi ne ha colpa?
- Io. E voglio rimediare.
- Be', ormai è difficile...
- Questo è affar mio. E se è a voi che pensate, quello che la
mamma desiderava...
- Non è a me che penso. La defunta mi ha colmato di tanti benefici che
non desidero nulla. La Lisanka mi vuol con sé, - era una sua nipote maritata,
- e se qui non sarò più necessaria, andrò a stare con lei.
Ma fate male a prendervela tanto a cuore, son cose che capitano a tutti.
- Be', io la penso diversamente. E se mi aiuterete ad affittare la casa e ad
imballare la roba, ve ne sarò grato. Non prendetevela con me! Io vi sono
molto, molto grato di tutto.
Cosa strana: da quando Necliudov aveva cominciato a disprezzare se stesso e
a considerarsi un poco di buono, aveva cessato di odiare gli altri, e persino
per Agrafena Petrovna e per Kornèi provava un sentimento di affetto e
di considerazione. Avrebbe voluto far ammenda anche davanti a Kornèi,
ma il suo aspetto era così rispettoso e allontanante che non ne ebbe
il coraggio.
Recandosi in tribunale, mentre con la solita carrozza percorreva le solite strade,
Necliudov si stupiva di se stesso, tanto gli pareva di essere un altro uomo.
Il matrimonio con Missy, che fino al giorno prima gli era sembrato così
prossimo, gli appariva ora addirittura impossibile. E ieri egli pensava che
senza alcun dubbio la ragazza sarebbe stata felice di sposare un uomo come lui;
oggi si sentiva indegno non solo di sposarla, ma persino di starle vicino. "Se
soltanto sapesse chi sono, non mi riceverebbe più. E io che mi arrogavo
di biasimarla perché aveva civettato con un altro! E poi, anche ammettendo
che mi sposasse, potrei forse essere felice, od anche soltanto tranquillo sapendo
che quella è qui in prigione e che domani o dopodomani partirà
a tappe per la galera? La donna che io ho rovinato andrà ai lavori forzati,
e io qui riceverò le congratulazioni e porterò in visita la giovane
moglie... Oppure accompagnerò al Consiglio provinciale il maresciallo
che ho indegnamente tradito, e dopo averlo aiutato a contare i voti pro e contro
il regolamento dell'ispettorato scolastico, eccetera eccetera, fisserò
un appuntamento a sua moglie... Che orrore! Oppure riprenderò il quadro
che evidentemente non finirò mai perché non è il caso che
io mi occupi di simili bazzecole, e ho ben altro da fare, ora, che questo!",
diceva fra sé, sempre più rallegrandosi del cambiamento che sentiva
avvenire in se stesso.
"Anzitutto", pensava, "bisogna che veda l'avvocato e senta il
suo parere e poi... poi andrò in carcere da lei, la detenuta di ieri,
e le dirò ogni cosa".
E al solo pensiero che l'avrebbe riveduta, che le avrebbe confessato tutto,
e la sua colpa e il suo desiderio di riscattarla ad ogni costo, fosse anche
col matrimonio, si sentiva preso dall'entusiasmo e gli venivano le lacrime agli
occhi.
34.
Al tribunale, appena entrato in corridoio, Necliudov incontrò l'usciere
del giorno prima e s'informò da lui dove erano tenuti i prigionieri già
giudicati e da chi si poteva ottenere il permesso di vederli.
L'usciere gli rispose che erano dislocati in diverse prigioni e che fino alla
notificazione definitiva della sentenza il permesso per le visite dipendeva
dal procuratore.
- Vi verrò a prendere dopo l'udienza e vi accompagnerò io stesso
da lui. Adesso non c'è ancora. Dopo l'udienza. Ora vi prego di passare
in sala; il dibattimento sta per cominciare.
Necliudov ringraziò della sua cortesia l'usciere che quel giorno gli
faceva una gran pena, e si avviò verso la stanza dei giurati. Stava per
entrarvi quando i suoi colleghi ne uscirono per andare nella sala d'udienza.
Il mercante, che aveva mangiato bene e bevuto meglio, come il giorno prima,
ed era del suo solito ottimo umore, accolse Necliudov come un vecchio amico.
Persino Piotr Gherassimovic', con tutta la sua familiarità e il suo ridere,
non suscitò quel giorno in Necliudov nessun sentimento di antipatia.
Necliudov avrebbe voluto raccontare a tutti, anche ai giurati, la sua storia
con l'imputata del giorno prima. "Veramente", pensò, "ieri
durante il processo avrei dovuto alzarmi e confessare in pubblico la mia colpa".
Ma quando si trovò coi colleghi nella sala delle udienze e cominciarono
a svolgersi le solite formalità preliminari, egli sentì che nonostante
tutta la sua buona volontà non avrebbe mai avuto il coraggio di turbare
un'assemblea così solenne.
Come il giorno prima, l'usciere annunciò: - Entra la Corte, - e i tre
giudici togati salirono sul pretorio, e dopo un minuto di silenzio, i giurati
sedettero sui seggioloni. E poi i gendarmi, e il ritratto, e il prete. Tutto
come il giorno prima, tranne il giuramento dei giurati e il discorso tenuto
loro dal presidente. Quel giorno si trattava di un furto con scasso. L'imputato,
custodito da due gendarmi con le spade sguainate, era un ragazzo sui vent'anni,
magro e stretto di spalle, con una casacca grigia e il viso grigio anemico.
Sedeva solo sulla panca degli imputati e con la coda dell'occhio guardava le
persone che entravano. Questo giovane era accusato di aver scassinato con un
compagno la serratura di una rimessa e di aver rubato delle vecchie passatoie
per un valore di tre rubli e sessantasette copeche. Dall'atto di accusa si capiva
che la guardia di città lo aveva arrestato mentre si allontanava con
l'altro, che portava sulle spalle le passatoie. Tutti e due avevano confessato
subito la loro colpa ed erano stati imprigionati. Il compagno del giovane, un
fabbro, era morto in carcere; sicché soltanto uno veniva ora processato.
Le vecchie passatoie erano sulla tavola dei corpi di reato.
Il processo si svolgeva esattamente come quello del giorno prima, con tutto
l'arsenale di prove, di indizi, di testimonianze, di giuramenti, di interrogatori,
di perizie e di domande che s'incrociavano. La guardia urbana, citata come testimone,
alle domande del presidente, del pubblico ministero, del difensore, rispondeva
con voce atona: "Signorsì", "non lo so", e poi ancora
"signorsì"... Ma nonostante la sua ottusità soldatesca
e il suo tono macchinale, si capiva che il ragazzo gli faceva pena e che egli
raccontava malvolentieri come l'aveva arrestato. La parte lesa, il proprietario
della casa in cui era avvenuto il furto e delle passatoie rubate era un vecchietto
dall'aria biliosa, che quando fu invitato a testimoniare se riconosceva le sue
passatoie, lo fece molto malvolentieri: quando poi il sostituto procuratore
gli domandò a che cosa gli servivano e se gli servivano molto, si adirò
e rispose: - All'inferno queste maledette passatoie! non mi servivano a niente.
Se avessi saputo che mi avrebbero dato tanti fastidi, invece di porgere querela,
avrei pagato un bel biglietto rosso (1) o anche due per evitare d'esser trascinato
qua a deporre. Ho speso, solo in carrozza, cinque rubli. E per giunta non sto
bene, ho l'ernia e i reumatismi.
Così parlarono i testimoni e in quanto all'imputato confessò tutto.
Si guardava in giro come una bestiola presa in trappola e con voce mozza raccontava
com'era avvenuto il fatto.
La cosa era chiara, ma il sostituto procuratore, alzando le spalle col gesto
che gli era abituale, faceva un mucchio di domande sottili, destinate a confondere
l'astuto delinquente.
Nella sua requisitoria egli dimostrò che il furto era stato perpetrato
in un locale d'abitazione mediante scasso, per cui bisognava infliggere al ragazzo
una pena esemplare.
Il difensore, nominato d'ufficio dal tribunale, affermò invece che il
furto non era stato commesso in un locale d'abitazione, e che perciò,
pur trattandosi sempre d'un reato, quel delinquente non era poi così
pericoloso per la società come affermava il sostituto procuratore.
Allo stesso modo del giorno prima, il presidente cercava d'essere imparziale
e giusto e cercava d'inculcare ai giurati, diffondendosi in spiegazioni minuziose,
cose che essi sapevano e non potevano non sapere.
Come il giorno prima, si facevano gli intervalli, si fumava, l'usciere annunciava
l'entrata della Corte e i due gendarmi che custodivano l'imputato stavano seduti
con la sciabola sguainata, cercando di reagire al sonno.
Dal processo risultava che quel ragazzo fin da piccolo era stato messo dal padre
in una manifattura di tabacco, vi aveva lavorato cinque anni, e proprio quell'anno,
in seguito a disaccordi tra il padrone e gli operai, era stato licenziato. Rimasto
così senza occupazione, aveva cominciato ad andare a zonzo per la città,
bevendosi gli ultimi soldi. In un'osteria aveva fatto conoscenza con un altro
disoccupato, un fabbro che era rimasto senza lavoro ancora prima di lui e al
quale piaceva molto il vino, e tutti e due, ubriachi, di notte, avevano rotto
la serratura di una rimessa prendendo il primo oggetto capitato loro a tiro.
Furono acciuffati. Confessarono tutto. Nella prigione dove li rinchiusero in
attesa del processo, il fabbro morì. Ed ora questo ragazzo era raffigurato
come un essere pericoloso, dal quale bisognava proteggere la società.
"Pericoloso come la criminale di ieri", pensò Necliudov, ascoltando
ciò che si svolgeva davanti a lui. "Loro, sono pericolosi. E noi
no?... io, che sono uno scapestrato, un impostore? e tutti noi e tutti quelli
che conoscendomi bene, non solo non mi disprezzano, ma mi rispettano? E poi,
anche ammettendo che quel ragazzo sia l'unico essere pericoloso qui dentro,
che cosa dobbiamo fare onestamente di lui, ora che è nelle nostre mani?
E' evidente che quel ragazzo non è un malfattore eccezionale: tutti lo
capiscono che è un uomo come tanti altri, ridotto a quel punto soltanto
perché le circostanze ve lo hanno fatalmente spinto. Dunque è
altrettanto evidente che se non vogliamo vedere ragazzi così, dobbiamo
cercare di distruggere le condizioni che favoriscono la formazione di questi
disgraziati.
"Sarebbe bastato", pensava Necliudov, osservando la faccia malaticcia
e impaurita del ragazzo, "sarebbe bastato che qualcuno si fosse mosso a
compassione di lui e lo avesse soccorso, quando i suoi, spinti dalla miseria
l'avevano mandato in città... O anche più tardi lo avesse soccorso,
quando dopo aver lavorato dodici ore in fabbrica, andava coi compagni più
vecchi di lui, che lo trascinavano all'osteria. Se allora qualcuno gli avesse
detto: "Non andarci, Vania, è male", il ragazzo non sarebbe
andato a zonzo e non avrebbe commesso cattive azioni . Ma nessuno aveva mai
avuto pietà di lui, in tutti quegli anni che aveva passato in città
come una bestiolina imparando il mestiere, e correndo a far commissioni per
i lavoranti, con la testa rasata per non riempirsi di pidocchi. Al contrario,
da quando viveva in città, gli operai e i compagni non avevano fatto
altro che ripetergli che è in gamba chi imbroglia, chi beve, chi impreca,
chi picchia, chi conduce una vita disordinata.
Quando poi, malato e corrotto da un lavoro malsano, dal bere, dalla vita scioperata,
abbrutito e incretinito, come in sogno, s'è messo a bighellonare per
la città, senza meta, e senza riflettere è entrato in una rimessa
e ha rubato delle passatoie che non servivano a nessuno, noi, che non manchiamo
di nulla, noi uomini ricchi ed istruiti, invece di ricercare le cause che hanno
ridotto il ragazzo ad essere quello che è, vogliamo porvi rimedio col
punirlo! Che orrore!".
Necliudov pensava a tutte queste cose, senza badare più a ciò
che avveniva intorno a lui. Ed egli stesso si sentì sgomento davanti
a quel mondo che gli si rivelava.
Si domandava stupito come avesse potuto non accorgersi prima di tutto ciò,
e come mai gli altri potevano non essersene ancora accorti.
NOTE.
NOTA 1: Biglietto da dieci rubli.
35.
Quando fu annunciato il primo intervallo, Necliudov si alzò e uscì
nel corridoio con l'intenzione di non rientrare più nell'aula. Facessero
pure di lui ciò che volevano, ma prestarsi ancora a quella commedia gli
riusciva impossibile.
Si fece indicare dove era l'ufficio del sostituto procuratore, e vi si avviò.
Il portiere non voleva lasciarlo passare, affermando che il procuratore era
molto occupato, ma Necliudov non gli diede retta e avvicinatosi alla porta si
rivolse a un impiegato che gli veniva incontro, pregandolo di comunicare al
procuratore che era un giurato e che desiderava vederlo per una faccenda importantissima.
Il titolo principesco e il vestito elegante gli furono d'aiuto. L'impiegato
l'annunciò e Necliudov fu fatto entrare. Il procuratore lo ricevette
in piedi visibilmente malcontento dell'insistenza con cui Necliudov aveva chiesto
di vederlo.
- Che cosa desiderate? - gli domandò con tono severo.
- Sono un giurato: mi chiamo Necliudov e bisogna assolutamente che veda l'imputata
Màslova, - rispose in fretta e risolutamente, arrossendo e rendendosi
conto di compiere un passo decisivo per la sua vita.
Il procuratore era un uomo basso, bruno, coi capelli corti brizzolati, gli occhi
vivaci e luccicanti e la barba folta, tagliata corta sul mento sporgente.
- La Màslova? Sì, la conosco. Imputata di avvelenamento, - disse
calmo il procuratore. - Ma perché avete bisogno di vederla? - Poi, un
po' meno aspramente, soggiunse: - Non posso darvi l'autorizzazione di vederla
se non conosco il motivo della vostra richiesta.
- Si tratta, per me, di una cosa estremamente importante, - spiegò Necliudov
avvampando.
- Ah sì? - disse il procuratore, e alzando gli occhi guardò attentamente
Necliudov.
- C'è già stato il processo, o no?
- Sì, ieri, ed è stata condannata a quattro anni di lavori forzati,
ma non c'entra, è innocente.
- Già. Se è stata condannata soltanto ieri, - disse il procuratore,
senza prestare alcuna attenzione alla frase di Necliudov sull'innocenza della
Màslova, - allora fino alla pubblicazione della sentenza deve trovarsi
nel carcere preventivo. Le visite si concedono solo in determinati giorni. Vi
consiglio di rivolgervi là.
- Ma io devo vederla il più presto possibile, - esclamò Necliudov,
col mento tremante, sentendo che s'avvicinava il momento decisivo.
- E perché? - domandò il procuratore, inarcando le sopracciglia
con una certa inquietudine.
- Perché è innocente e condannata ai lavori forzati. E io sono
colpevole di tutto, - disse Necliudov con voce tremante, rendendosi conto di
dire una cosa che non andava detta.
In che modo, dunque? - s'informò il procuratore. Perché l'ho ingannata
e ridotta nelle condizioni in cui si trova adesso. Se lei non fosse quella che
io l'ho fatta diventare, non si sarebbe esposta ad una imputazione simile.
- Però non vedo ancora che rapporto ci sia con la visita che desiderate.
- Voglio occuparmi di lei e... sposarla, - proferì Necliudov. E come
sempre quando toccava quell'argomento, gli spuntarono le lacrime agli occhi.
- Sì? Già, già! - disse il procuratore. - E' davvero un
caso molto singolare. Voi, se non erro, siete un membro dell'assemblea di Krasnopiòrsk?
- domandò il procuratore, come ricordandosi d'aver già udito parlare
di questo Necliudov che stava ora esponendogli un progetto così strano.
- Scusate, ma non credo che questo c'entri con la mia richiesta, -obiettò
Necliudov arrabbiato.
- Naturalmente no, - disse il procuratore sorridendo a fior di labbra e senza
confondersi affatto, - ma il vostro desiderio è così insolito
ed esce talmente dalle forme consuete...
- E allora, posso aver questo permesso?
- Permesso? Sì, ora vi dò subito un biglietto. Abbiate la compiacenza
di sedervi. - Si avvicinò alla tavola, sedette e si mise a scrivere.
- Sedete, vi prego.
Necliudov restava in piedi.
Scritto il lasciapassare, lo consegnò a Necliudov, guardandolo con curiosità.
- Devo aggiungere ancora - disse Necliudov, - che non posso più continuare
a prendere parte alla sessione.
- Per far questo, come sapete, occorre addurre motivi plausibili.
- Il motivo è che io ritengo ogni giudizio del tribunale non soltanto
inutile, ma anche immorale.
- Già, - disse il procuratore, col solito sorriso a fior di labbra, come
per significare che dichiarazioni simili non gli erano nuove e costituivano
per lui una categoria speciale di fatti spassosi. - Già. Ma voi certamente
capite che io, nella mia qualità di procuratore, non posso essere d'accordo
con voi e perciò vi consiglio di fare un esposto in tribunale e il tribunale
si pronuncerà sulla vostra dichiarazione e deciderà se ritenerla
accettabile o meno, nel qual caso vi infliggerà un'ammenda. Rivolgetevi
al tribunale.
- L'ho detto e non voglio ripeterlo più, - esclamò irritato Necliudov.
I miei rispetti, - disse il procuratore e chinò la testa, ansioso di
sbarazzarsi al più presto di quello strano visitatore.
- Chi c'era da voi? - domandò uno dei giudici, entrando nel gabinetto
del procuratore subito dopo l'uscita di Necliudov.
- Necliudov, sapete, quel tale che al consiglio provinciale di Krasnopiòrsk
aveva fatto tante proposte stravaganti. Figuratevi, è giurato e dice
che tra gli imputati si trova una donna, una ragazza, condannata ai lavori forzati
che egli ha sedotto e ora vuol sposare.
- Possibile?
- Così mi ha detto, è in un vero stato di esaltazione.
- C'è qualcosa di non perfettamente normale nella gioventù di
oggi.
- Ma lui non è più giovanissimo.
- Be', com'è noioso, bàtiuska, il vostro famoso Ivàcenkov.
Fa morire; parla e parla senza fine.
- Bisogna semplicemente fermarli, se no diventano dei veri ostruzionisti.
36.
Dopo la visita al procuratore, Necliudov andò direttamente al carcere
preventivo. Ma, a quanto risultò, là non c'era nessuna Màslova
e il direttore spiegò a Necliudov che essa doveva trovarsi nelle vecchie
prigioni, destinate ai deportati all'esilio. Necliudov vi si recò.
Jekatierina, infatti, si trovava là.
La distanza dal carcere preventivo alla fortezza dei condannati all'esilio era
enorme, e quando Necliudov vi arrivò era già sera. Volle avvicinarsi
alla porta dell'immenso e tetro edificio, ma la sentinella non lo lasciò
passare, e suonò. Apparve un carceriere. Necliudov gli mostrò
il permesso ma il carceriere disse che senza il consenso del direttore non poteva
lasciarlo passare. Necliudov si recò dal direttore. Mentre saliva le
scale gli giunsero all'orecchio le note di un pezzo difficile, di bravura, suonato
sul pianoforte. Quando poi una domestica irascibile con un occhio bendato gli
aprì la porta, fu come investito dall'irruenza di quei suoni, che prorompevano
da una stanza vicina. Era una rapsodia di Liszt fra le più suonate, eseguita
egregiamente, ma solo fino a un certo punto. A quel punto la musica si spezzava
per ricominciare daccapo. Necliudov domandò alla domestica dall'occhio
bendato se il direttore era in casa.
La domestica rispose di no.
- Tornerà presto?
La rapsodia s'interruppe di nuovo e di nuovo si ripeté, con un brillante
fluire di note, fino al punto fatale.
- Vado a domandarlo.
E la domestica uscì.
La rapsodia aveva appena ripreso il suo slancio quando d'un tratto si interruppe
prima di arrivare al punto critico e s'udì una voce:
- Digli che non c'è e che per oggi non ci sarà. E' in visita,
che cosa vengono a scocciare? - esclamò dietro la porta una voce di donna
e subito la rapsodia riattaccò per fermarsi di nuovo. Si udì il
rumore di una sedia smossa. Evidentemente la pianista stizzita voleva protestare
di persona col visitatore importuno, capitato in un'ora indebita.
- Papà non c'è, - disse con voce irritata, uscendo dalla stanza,
una signorina pallida, patita, coi capelli in disordine, e gli occhi cerchiati,
melanconici. Vedendo un uomo giovane con un bel cappotto, si raddolcì.
- Entrate, prego... Di che avete bisogno?
- Di vedere una detenuta.
- Una politica forse?
- No. Ho il permesso del procuratore.
- Mah, non so, papà non c'è. Ma entrate, vi prego, di nuovo lo
invitò dalla piccola anticamera. - Se no, rivolgetevi al vice direttore;
adesso è in ufficio, parlate con lui. Come vi chiamate?
- Grazie, - disse Necliudov senza rispondere alla domanda, e se ne andò.
Non s'era ancora rinchiusa la porta alle sue spalle che di nuovo si udirono
le stesse note briose e decise, così poco intonate sia al luogo in cui
risuonavano, sia al viso della povera ragazza che vi si applicava con tanta
tenacia.
Nel cortile Necliudov incontrò un giovane ufficiale dai baffi ritti e
incerati e gli domandò del vice direttore. Era per l'appunto lui. Egli
prese il lasciapassare, lo osservò attentamente e disse che trattandosi
di un permesso per il carcere preventivo, non osava considerarlo valido.
- E poi è tardi. Ritornate domani. Domani alle dieci l'ingresso è
libero a tutti. Venite che ci sarà il direttore. Potrete avere il colloquio
nel parlatorio comune o anche in segreteria, se il direttore lo permetterà.
Riusciti vani per quel giorno i suoi tentativi di una visita, Necliudov tornò
a casa. Agitato dal pensiero di vederla, camminava per la strada ripensando
non più al processo, ma ai discorsi che aveva fatto col procuratore e
coi direttori. Aveva cercato un abboccamento con lei, aveva espresso le sue
intenzioni al procuratore, ed era stato in due prigioni per vederla: tutto ciò
lo turbava tanto che per un pezzo non gli riuscì di calmarsi. Arrivato
a casa, tirò subito fuori il suo diario che da molto tempo non apriva
più, ne rilesse alcuni passaggi e scrisse: "Da due anni non scrivo
il diario; ormai credevo di aver abbandonato per sempre questa bambinata. Ma
non è una bambinata, bensì un colloquio con me stesso, con quell'io
vero e di natura divina che vive in ogni uomo. Per tutto questo tempo il mio
io ha dormito e non avevo con chi conversare. Il caso straordinario che avvenne
il 28 aprile in tribunale, dov'ero giurato, lo ha risvegliato improvvisamente.
Sul banco degli imputati vidi lei, la Katiuscia che avevo sedotto, in divisa
di detenuta.
Per un bizzarro malinteso e per un mio errore è stata condannata ai lavori
forzati. Sono stato dal procuratore e alla prigione. Non mi hanno permesso di
passare, ma sono deciso a tutto per poterla vedere, per umiliarmi davanti a
lei e riparare alla mia colpa, foss'anche col matrimonio. Signore, aiutami.
Mi sento l'animo lieve e pieno di gioia".
37.
Quella notte la Màslova stentò a prender sonno. Giaceva con gli
occhi aperti e pensava, guardando la porta che nel suo continuo andare e venire
la figlia del sagrestano di tratto in tratto le nascondeva.
Pensava che nell'isola di Sacalin non avrebbe mai sposato un forzato, ma si
sarebbe sistemata in qualche altro modo. Forse con uno dei capi o con uno scrivano
o anche con un carceriere o un secondino. Si sentivan tutti molto portati a
questo genere di cose... "Basta non dimagrire. Sennò son fritta!".
Ricordò come l'avevan guardata il difensore, il presidente, gli uomini
incontrati per strada e quelli che passavano apposta davanti a lei in tribunale.
Ricordò che Berta, venuta a trovarla in prigione, le aveva raccontato
che lo studente di cui s'era innamorata dalla Kitàieva, andando da loro
aveva chiesto di lei e l'aveva molto compianta. Ricordò la lite con la
rossa e ne provò pietà; ricordò il panettiere che le aveva
mandato un panino di più. Ricordò molti, ma non ricordò
Necliudov. Ai suoi anni d'infanzia e di giovinezza e soprattutto al suo amore
per Necliudov non pensava mai. Era troppo doloroso. Quei ricordi giacevano intatti
in fondo all'anima sua. Necliudov, non lo vedeva mai neppure in sogno. Quel
giorno in tribunale non l'aveva riconosciuto, non tanto perché fosse
invecchiato e avesse la barba, mentre allora era in divisa e senza barba, coi
baffi e i capelli corti, ma folti e ricciuti; non l'aveva riconosciuto soprattutto
perché non pensava mai a lui. Aveva seppellito tutti i ricordi del loro
passato comune in quella terribile notte buia, quando egli, di ritorno dalla
guerra, non s'era fermato dalle zie. Fino a quella notte, finché aveva
ancora sperato nel suo ritorno, non solo non aveva sentito il peso del bambino
che portava in seno, ma spesso s'era commossa e stupita per quel muoversi tenero
e talvolta brusco che sentiva in sé. Ma dopo quella notte tutto cambiò.
E il bambino che doveva nascere divenne soltanto un ostacolo. Le zie aspettavano
Necliudov, l'avevano pregato di venire, ma egli aveva telegrafato che non poteva,
perché doveva rientrare a Pietroburgo entro la scadenza del termine.
Quando Katiuscia lo seppe, decise di andare alla stazione per vederlo. Il treno
passava alle due di notte. Messe a dormire le sue signorine e persuasa Mascka,
la figlia della cuoca, ad accompagnarla, s'era infilata un paio di vecchie scarpe,
s'era messa in testa un fazzoletto e di nascosto era corsa alla stazione.
Era una notte buia, d'autunno, pioveva e tirava vento. La pioggia un po' cadeva
a goccioloni caldi, un po' cessava. Nei campi non si vedeva la strada sotto
ai piedi, nel bosco faceva buio come in un forno, e Katiuscia, sebbene conoscesse
la via, si smarrì nel bosco e raggiunse la piccola stazione in cui il
treno si fermava tre minuti, soltanto quand'era già stato dato il secondo
segnale. Correndo lungo la banchina Katiuscia lo vide subito dietro il finestrino
di un vagone di prima classe. In quel vagone c'era molta luce. Seduti sulle
poltrone di velluto l'uno dirimpetto all'altro, due ufficiali in maniche di
camicia giocavano a carte. Sul tavolino accanto alla finestra ardevano colando
due grosse candele. Lui, coi calzoni attillati e la camicia bianca, sedeva sul
bracciolo di una poltrona, col gomito appoggiato allo schienale e rideva. Appena
lo riconobbe, Katiuscia picchiò ai vetri con la mano intirizzita. Ma
proprio in quel momento batté il terzo segnale e il treno si mosse lentamente,
dapprima a ritroso, e poi avanzando a strappi, una vettura dopo l'altra. Uno
dei giocatori si alzò con le carte in mano e guardò dal finestrino.
Essa picchiò ancora e accostò il viso al vetro. In quel momento,
con un colpo secco, anche il vagone presso cui stava Katiuscia, subì
una scossa e si mise in moto. Essa gli andò dietro guardando nella vettura.
L'ufficiale cercò di abbassare il vetro, ma non ci riuscì. Si
alzò Necliudov e spingendo via l'ufficiale cominciò a calare il
vetro. Il treno accelerava la corsa, sicché Katiuscia doveva camminare
svelta. Il treno aumenta ancora di velocità e il finestrino si aprì.
In quel preciso istante il conduttore le diede un urtone e saltò nella
vettura. Lei rimase indietro, ma continuò a correre sulle assi bagnate
della banchina; poi la banchina finì e Katiuscia per poco non cadde correndo
giù dai gradini che davano sulla strada. Correva, ma il vagone di prima
era già lontano. Le sfilarono davanti le vetture di seconda, poi, ancora
più veloci quelle di terza, ma essa continuava a correre.
Quando l'ultimo vagone col fanale in coda fu passato, essa si trovava già
oltre la pompa, fuori di ogni riparo e il vento le soffiava addosso strappandole
il fazzoletto dal capo e incollandole il vestito alle gambe; mentre correva,
il fazzoletto le volò via, ma essa non si fermò.
- Zia Micàilovna! - gridava la bambina, che le teneva dietro a stento,
- avete perso il fazzoletto!
Katiuscia si fermò. Gettata la testa all'indietro se la prese fra le
mani e scoppiò in singhiozzi.
- Se n'è andato! - gridò.
"Lui nel vagone illuminato, su un sedile di velluto, che scherza e che
beve... e io qua a piangere, nel fango, nel buio, sotto la pioggia e il vento...",
pensò tra sé; sedette per terra e singhiozzò così
forte che la bambina si spaventò e si strinse al suo vestito inzuppato.
- Zia, andiamo a casa!
"Passerà un treno, sotto un vagone mi butterò, e sarà
finita!", pensava intanto Katiuscia, senza rispondere alla bambina.
Aveva deciso di far così. Ma proprio allora, come sempre succede non
appena la calma subentra all'agitazione, la creaturina, la sua creaturina che
essa portava in sé, improvvisamente sussultò, diede un colpo e
si stirò dolcemente, poi ricominciò ancora a battere con un picchio
sottile, tenero, acuto. E d'un tratto tutto ciò che un minuto prima le
rendeva insopportabile la vita, tutto l'odio che provava per lui e il desiderio
che aveva di vendicarsi anche a costo della vita, svanirono di colpo. Si calmò,
si alzò, si accomodò le vesti, si rimise il fazzoletto in testa
e s'avviò verso casa.
Vi giunse spossata, bagnata, sporca e da quel giorno s'iniziò in lei
quel mutamento spirituale che l'aveva gradualmente portata ad esser la donna
che era ora. Da quella notte terribile cessò di credere in Dio e nel
bene. Fino ad allora aveva creduto in Dio e nella fede degli uomini, ma da quella
notte si convinse che nessuno crede in Lui e che tutto ciò che si dice
di Dio e della sua legge è soltanto inganno e ingiustizia. Lui che essa
amava e da cui sapeva d'essere amata, l'aveva sedotta, abbandonata e insultata
nei suoi sentimenti. Ed era il migliore degli uomini che conosceva. Gli altri
erano ancora peggio. Tutti i fatti della sua vita ne erano una continua conferma.
Le zie di lui, che erano due vecchiette religiose, l'avevano scacciata di casa
quando non aveva più potuto servirle come prima. Fra le persone con le
quali aveva avuto a che fare, le donne si eran valse di lei per far quattrini,
gli uomini, cominciando dal vecchio commissario fino ai guardiani delle carceri,
avevano sempre visto in lei soltanto uno strumento di piacere. Per nessuno al
mondo esisteva qualcosa d'altro. Di ciò l'aveva ancor più convinta
il vecchio scrittore, col quale s'era messa nel secondo anno della sua vita
libera. Costui le diceva apertamente che in questo - poesia ed estetica com'egli
lo chiamava - consiste la felicità.
Tutti vivevano soltanto per sé, per il proprio piacere, e ogni discorso
su Dio e sul bene non era che inganno. E se qualche volta le veniva fatto di
domandarsi perché tutto, nel mondo, fosse così mal combinato,
e perché gli uomini non facessero che tormentarsi reciprocamente e soffrire,
si affrettava a pensare ad altro. Per scacciare la noia, bastava un po' di fumo,
un bicchierino d'acquavite... Oppure, meglio ancora, far all'amore con qualcuno.
Le sarebbe passata.
38.
Il giorno dopo, una domenica, alle cinque del mattino, appena si udì
nel corridoio del reparto femminile il solito fischio, la Korabliòva,
che era già desta, svegliò la Màslova.
"Lavori forzati!", pensò con orrore, stropicciandosi gli occhi
e aspirando involontariamente l'orribile fetore del camerone; ebbe voglia di
riaddormentarsi, di rifugiarsi di nuovo nel regno dell'incosciente, ma la consueta
paura sopraffece il sonno, sicché si sollevò e, rialzate le gambe,
si mise a sedere guardandosi attorno. Le donne eran già tutte deste,
solo i bambini dormivano ancora. La contrabbandiera d'acquavite dagli occhi
a fior di testa tirava a sé pian piano, per non svegliare i bambini,
la sua casacca stesa sotto di loro. La detenuta per ribellione tendeva davanti
alla stufa gli stracci che le servivano da pannolini, mentre il bambino strillava
disperatamente in braccio a Fedossia, la ragazza dagli occhi azzurri che lo
cullava e lo ninnava con voce tenera.
La tisica, col viso iniettato di sangue, si stringeva il petto e tossiva, tossiva;
nei momenti di tregua emetteva sospiri che sembravano gridi. La rossa, che s'era
appena svegliata, se ne stava pancia all'aria, con le grosse gambe inarcate
e raccontava allegramente, a voce alta, il sogno che aveva fatto. La vecchietta
dell'incendio stava di nuovo dinanzi all'icona e, mormorando sempre le stesse
parole, faceva segni di croce e inchini. La figlia del sagrestano sedeva immobile
sulla cuccetta e, ancor mezzo addormentata, fissava davanti a sé lo sguardo
vitreo. La Corosciavka s'arrotolava sul dito i capelli neri, unti e ispidi.
Nel corridoio si udì un rumore di kotì (1) strascicati, la serratura
stridette e due detenuti in giubba e calzoni grigi, che arrivavano appena a
mezza gamba, entrarono nel camerino, e sollevato sul palo con faccia seria e
rabbiosa il bigoncio degli escrementi lo portarono fuori. Le donne uscirono
nel corridoio per andarsi a lavare ai rubinetti. Ma qui la rossa e una donna
della camerata vicina s'azzuffarono. Di nuovo parolacce, grida, lagnanze...
- Ma volete proprio il rigore? - urlò il carceriere e dette un tal pugno
sulla schiena grassa e nuda della rossa, che se ne udì il colpo in tutto
il corridoio.
- Guai se sento ancora la tua voce!
- Eh, il vecchio s'è scaldato! - disse la rossa, prendendo quel gesto
per una carezza.
- Sù, muovetevi! Preparatevi per la messa.
La Màslova stava ancora pettinandosi che comparve il direttore col suo
seguito.
- All'appello! - gridò il carceriere.
Da un'altra camera uscirono altre detenute e tutte si disposero lungo il corridoio
in due file; le donne della seconda fila dovevano tenere le mani sulle spalle
delle compagne che stavano davanti a loro. Furono contate tutte. Dopo il controllo
venne la carceriera incaricata di condurre le detenute in chiesa. La Màslova
e Fedossia si trovavano nel mezzo della colonna composta di più di cento
donne uscite da tutte le camerate. Tutte portavano fazzoletti bianchi in testa,
camicette e sottane dello stesso colore e solo qua e là si vedeva qualche
abito colorato: erano donne che seguivano coi bambini i loro mariti. Il corteo
empiva tutta la scala. Si sentiva lo scalpiccio molle dei piedi calzati di kotì,
un brusio di voci, qualche risata. A sua volta la Màslova vide la faccia
cattiva della sua nemica, la Boc'kova, che camminava in testa, e la mostrò
alla Fedossia. Giunte in fondo alla scala, le donne tacquero e facendo il segno
della croce e inchinandosi, entrarono per la porta spalancata nella chiesa ancor
vuota, tutta splendente d'oro. Il loro posto era a destra, ed esse, pigiandosi
e stringendosi l'una all'altra, si accomodarono. Subito dopo con le casacche
grige, entrarono i condannati alla deportazione, che aspettavano il momento
di partire per l'esilio imposto loro dalla società; essi tossendo rumorosamente,
si disposero in gruppo compatto a sinistra e nel centro della chiesa. In alto,
nelle tribune, dove erano già stati accompagnati, v'erano da una parte
i forzati con la testa per metà rasata, che rivelavano la loro presenza
col rumore delle catene, e dall'altra, non rasati e senza ceppi, i detenuti
sotto processo.
La chiesa della prigione era stata costruita di recente e addobbata da un ricco
mercante che aveva speso parecchie decine di migliaia di rubli; luccicava tutta
di colori vivaci e d'oro.
Per un certo tempo nella chiesa regnò il silenzio. Si udivano soltanto
soffiate di nasi, colpi di tosse, strilli di bambini e di tanto in tanto il
rumore delle catene.
Ad un tratto i detenuti che erano nel mezzo si fecero rapidamente da parte,
si pigiarono gli uni contro gli altri e formarono un varco, in mezzo al quale
passò il direttore che andò a collocarsi davanti a tutti, nel
centro della chiesa.
NOTE.
NOTA 1: Scarpe da contadini simili alle pantofole.
39.
Cominciò il servizio divino.
Il servizio consisteva in questo: il prete, indossata una veste speciale di
broccato, bizzarra e assai malcomoda, tagliava a pezzetti un pane, lo disponeva
in un piattino e poi lo immergeva in un calice di vino, pronunciando, nel frattempo,
nomi e preghiere d'ogni sorta. Il sagrestano, intanto, senza interrompersi un
momento, prima leggeva e poi cantava, alternandole col coro dei detenuti, alcune
preghiere in slavo, che già di per sé poco comprensibili, lo erano
ancor meno a causa della lettura rapida e del canto.
Il contenuto delle preghiere consisteva principalmente nell'augurare prosperità
all'imperatore e alla sua famiglia. Queste invocazioni venivano ripetute molte
volte insieme con altre preghiere e anche separatamente, in ginocchio. Poi il
sagrestano lesse alcuni versetti degli Atti degli Apostoli, con una voce così
stranamente tesa che non si poteva capire nulla; e il prete lesse molto distintamente
un passo del Vangelo di Marco: quello in cui si dice che Cristo, risorto, prima
di salire in cielo e di sedere alla destra del Padre, è apparso a Maria
Maddalena, scacciandone dal corpo sette diavoli, e poi agli undici discepoli,
comandando di predicare l'Evangelo a tutte le creature; e come abbia dichiarato
inoltre che chi non avesse creduto sarebbe perito, chi invece avesse creduto
e si fosse battezzato, sarebbe stato salvo e avrebbe per di più scacciato
i demoni, guarito i malati con l'imposizione delle mani, parlato nuove lingue,
preso in mano i serpenti e, anche bevendo il veleno, invece di morire sarebbe
rimasto vivo e vegeto. La sostanza della funzione consisteva nel presupporre
che i pezzetti di pane tagliati e messi nel vino dal prete, dopo varie manipolazioni
e preghiere si sarebbero trasformati nel corpo e nel sangue di Dio. Le manipolazioni
poi consistevano in questo, che il prete con gesti uniformi, per quanto glielo
consentiva il sacco di broccato nel quale era infagottato, sollevava le mani
e le teneva tese in alto per qualche minuto; poi si metteva ginocchioni e baciava
la tavola e gli oggetti che vi erano sopra. Ma l'atto essenziale si compiva
nel momento in cui il sacerdote, preso con tutte e due le mani un tovagliolo,
lo agitava con gesto largo e uniforme al di sopra del piattino e del calice
d'oro. Giacché si presupponeva che in quell'istante il pane e il vino
si trasformassero in carne e in sangue, questa parte della funzione era messa
in scena con solennità particolare.
"Per la santissima, purissima e benedettissima Madre di Dio", tuonò
poi il prete dietro l'iconostasi, mentre il coro cantava esultante che era bellissima
cosa glorificare colei che aveva generato Cristo senza peccato, Maria la Vergine
immacolata, degna per questo d'essere più onorata dei cherubini e più
glorificata dei serafini. Dopo ciò la trasformazione si poteva considerare
avvenuta; e il prete, tolto il tovagliolo dal piattino, ruppe in quattro il
pezzetto di pane che era nel mezzo, lo immerse nel vino e se lo mise in bocca.
Per presupposto, egli aveva mangiato un pezzetto del corpo di Dio e bevuto un
sorso del suo sangue. Poi il prete tirò una tenda, aprì la porta
di mezzo dell'iconostasi e col calice d'oro fra le mani, si mostrò al
pubblico invitando i devoti a mangiare anch'essi il corpo e il sangue di Dio,
presenti nel calice.
Si fecero avanti alcuni bambini.
Il prete domandava loro il nome, poi, pescando cautamente nel calice con un
cucchiaino, ficcava un pezzetto del pane intinto nel vino ben in fondo alla
bocca di ciascuno mentre il sacrestano asciugava le bocche e cantava con voce
esultante un inno sui bambini che mangiano il corpo di Dio e bevono il suo sangue.
Quindi il prete riportò il calice dietro il tramezzo dove, bevute le
ultime gocce di sangue rimaste nel calice e mangiati tutti i pezzetti del corpo
di Dio, si succhiò con cura i baffi, s'asciugò la bocca, asciugò
il calice, e in stato di perfetta letizia uscì con passo gagliardo dal
tramezzo, facendo scricchiolare le suole sottili degli stivali di vitello.
Così terminò la più importante funzione cristiana.
Ma il prete, animato dal desiderio di confortare gli infelici reclusi, al rituale
solito ne aggiunse uno speciale. Si collocò davanti all'immagine presumibilmente
dorata, nonostante il viso nero e le mani nere, di quello stesso Dio che aveva
mangiato, immagine illuminata da una diecina di ceri, e cominciò in uno
strano falsetto, non si sa se a cantare o a recitare le seguenti parole:
- "Gesù dolcissimo; gloria degli apostoli, laude dei martiri, Signore
onnipotente, salvami, Gesù mio salvatore, Gesù, mio bellissimo,
a te ricorro, Gesù salvatore, abbi pietà di me, per intercessione
tua, di tutti i tuoi santi, di tutti i profeti, Gesù mio salvatore, fammi
degno delle dolcezze del paradiso, Gesù che ami gli uomini".
Qui fece una pausa, prese fiato, si segnò, s'inchinò fino a terra,
e tutti lo imitarono. S'inchinarono il direttore, i carcerieri, i detenuti,
mentre in alto sempre più spesso tintinnavano le catene.
- "Creatore degli angeli e Signore delle forze", egli riprese, - "Gesù
mirabilissimo, meraviglia degli angeli, Gesù potentissimo, liberatore
del genere umano, Gesù dolcissimo, magnificenza dei patriarchi, Gesù
gloriosissimo, fortezza dei sovrani, Gesù buonissimo, compimento dei
profeti, Gesù ammirabile, fortezza dei martiri, Gesù mitissimo,
gioia dei monaci, Gesù misericordiosissimo, dolcezza dei sacerdoti, Gesù
pietosissimo, astinenza dei penitenti, Gesù soavissimo, gioia dei reverendi,
Gesù purissimo, castità delle vergini, Gesù sempiterno,
salvezza dei peccatori, Gesù figlio di Dio, abbi pietà di me",
- e finalmente si fermò ripetendo con un sibilo sempre più acuto
la parola Gesù; con una mano tratteneva la tonaca sulla sottoveste, e
piegato su un ginocchio s'inchinava fino a terra, mentre il coro intonava le
ultime parole: Gesù figlio di Dio, abbi pietà di me"; e i
detenuti cadevano e si rialzavano, agitando le chiome che erano rimaste sulla
metà non rasata della loro testa, e facendo tintinnare i ferri intorno
alle gambe magre.
Continuò così per un pezzo. Dapprima le laudi che terminavano
con l'"abbi pietà di me", poi quelle che finivano con l'"alleluia".
E ogni volta che il prete si interrompeva, i detenuti si segnavano e facevano
un inchino. Ma poi incominciarono a inchinarsi una volta sì e una volta
no, poi ogni due volte, e tutti si sentirono molto lieti quando le laudi furono
finite e il sacerdote con un sospiro di sollievo chiuse il libriccino e si ritirò
dietro il tramezzo. Restava ancora un'ultima parte. Da una grande tavola il
prete sollevò una croce d'oro con piccoli medaglioni di smalto alle estremità
e si fece in mezzo alla chiesa. Per primo s'avvicinò alla croce il direttore
e la baciò, poi i carcerieri, e infine, spingendosi e ingiuriandosi sottovoce,
i detenuti. Il prete, mentre discorreva col direttore, ficcava la croce e la
sua mano nella bocca, e qualche volta nel naso dei detenuti che si accostavano
per baciare l'una e l'altra.
Così terminò quella funzione cristiana che si compiva per il conforto
e l'edificazione dei fratelli traviati.
40.
A nessuno dei presenti, cominciando dal prete e dal direttore fino alla Màslova,
veniva in mente che quello stesso Gesù che il prete aveva invocato sibilando
una quantità innumerevole di volte, esaltandolo con le parole più
strane, aveva proibito proprio le cose che lì si facevano; aveva proibito
non solo quella verbosità insensata e la magia sacrilega esercitata dai
sacerdoti intorno al pane e al vino, ma aveva proibito anche nel modo più
categorico che gli uni chiamino maestri gli altri, aveva proibito le preghiere
nei templi, comandando a ciascuno di pregare in solitudine, aveva proibito i
templi stessi, dicendo che era venuto per distruggerli, perché bisogna
pregare non nei templi, ma in spirito e in verità; soprattutto aveva
proibito di giudicare gli uomini, di tenerli segregati, di tormentarli, di infamarli,
di giustiziarli come lì si faceva; non solo, ma aveva proibito ogni violenza
sulle persone, dicendo che era venuto a liberare gli schiavi.
A nessuno dei presenti passava per la mente che quanto s'era fatto lì
costituiva il sacrilegio e la beffa più solenne verso quel Cristo in
nome del quale si faceva. Nessuno pensava che la croce dorata coi piccoli medaglioni
di smalto che il prete aveva portato in mezzo alla chiesa e fatto baciare alla
gente, non era altro che l'immagine di quel patibolo su cui Cristo era stato
suppliziato, proprio per aver proibito tutte quelle cose che ora in nome suo
lì si compivano.
A nessuno veniva in mente che quei preti, che sotto la specie del pane e del
vino s'immaginano di mangiare e di bere il corpo e il sangue di Cristo, effettivamente
mangiano il suo corpo e bevono il suo sangue, ma non a pezzettini e nel vino,
bensì scandalizzando quei piccoli coi quali Cristo s'era identificato;
e come se ciò non bastasse, li privano del maggiore dei beni e li sottopongono
ai tormenti più crudeli, mentre celano agli uomini la buona novella che
Egli aveva loro portato.
Il prete faceva con coscienza tranquilla tutto ciò che faceva, perché
fin dall'infanzia era stato abituato a pensare che quella era l'unica vera fede,
la fede in cui avevano creduto tutti gli uomini santi del passato e in cui ora
credevano i capi della religione e dello Stato. Egli non credeva che il pane
diventasse corpo, o che giovasse all'anima pronunciare molte parole; e neppure
d'aver mangiato un pezzetto di Dio, giacché in ciò è impossibile
credere; era però convinto che fosse necessario credere in questa religione.
E a rafforzare maggiormente la sua convinzione c'era il fatto che da diciott'anni
traeva da quei riti un reddito sufficiente a mantenere la famiglia, il figlio
al ginnasio e la figlia in un istituto religioso. Il sagrestano poi credeva
ancor più fermamente del prete, giacché aveva dimenticato tutto
il significato dei dogmi e sapeva soltanto che per versare il vino per la commemorazione
dei defunti, per le ore, per il te deum semplice e per quello solenne, sono
stabilite delle tariffe che i veri cristiani pagano volentieri. Perciò
gridava storpiandoli i suoi "abbi pietà, abbi pietà!"
e cantava e leggeva con la tranquilla certezza che ciò fosse necessario
come vendere la legna, la farina e le patate. Il direttore della prigione e
i carcerieri benché non avessero mai saputo né cercato di sapere
in che consistessero i dogmi e che cosa significassero gli atti del culto, ritenevano
che fosse necessario credere, perché così credevano tutte le autorità
superiori, a cominciare dallo zar. Inoltre sentivano confusamente, ma non avrebbero
saputo spiegare come, che quella fede giustificava il loro brutto mestiere.
Se non avessero creduto per loro sarebbe stato più difficile, anzi addirittura
impossibile dedicarsi con ogni impegno a tormentare altri uomini, cosa che invece
facevano senza rimorsi di coscienza. Il direttore, così mite com'era,
non avrebbe mai potuto vivere a quel modo, se non avesse avuto il sostegno di
questa fede. Perciò si teneva immobile, diritto, s'inchinava e si segnava
con fervore e cercava di commuoversi quando cantavano i cherubini, e alla comunione
dei bambini s'era fatto avanti e aveva con le sue proprie mani sollevato e sorretto
un bimbo che si comunicava.
La maggior parte dei detenuti, ad eccezione dei pochi che vedevano chiaramente
la frode esercitata ai danni dei devoti, e che nell'intimo loro se la ridevano,
credeva per lo più che nelle icone dorate, nei ceri, nei calici, nei
paramenti, nelle croci, in quel continuo ripetere le parole incomprensibili
"Gesù dolcissimo" e "abbi pietà", fosse racchiuso
un potere misterioso, capace di concedere grandi vantaggi in questa e nella
vita futura.
Benché molti di loro avessero talvolta cercato di acquistare tali vantaggi
in questa vita mediante preghiere, te deum, candele, le loro preghiere erano
rimaste inesaudite; ma tutti erano fermamente convinti che fosse un insuccesso
casuale e che quella istituzione approvata da uomini dotti e da metropoliti,
fosse comunque molto importante e indispensabile, se non per questa per la vita
futura.
A questo modo credeva anche la Màslova. Essa, come gli altri, durante
il servizio divino, aveva provato una sensazione mista di devozione e di noia.
In principio trovandosi nella calca dietro il tramezzo, non aveva potuto vedere
nessuno tranne le sue compagne, ma quando le comunicande si spinsero avanti,
e anch'essa s'avanzò con Fedossia, vide il direttore, e dietro a lui,
fra i carcerieri, un uomo biondo dalla barbetta biondissima, il marito di Fedossia,
che teneva gli occhi fissi sulla moglie. Durante il te deum la Màslova
passò il tempo a guardarlo e a parlottare con Fedossia; si faceva il
segno della croce e s'inchinava solo quando lo facevano
tutti.
41.
Necliudov uscì di casa presto. Nel vicolo passava un contadino col carretto
e gridava con voce strana: - Latte, latte, latte!
Il giorno avanti era caduta la prima pioggia tiepida di primavera. Dove la strada
non era lastricata, eran spuntati ad un tratto i primi fili d'erba. Nei giardini
le betulle s'erano rivestite di peluria verde, mentre i pruni e i pioppi allargavano
le loro foglie lunghe e profumate. Nelle case e nei negozi si mettevano all'aria
i telai delle doppie finestre e si pulivano i vetri. Al mercato dei robivecchi
che Necliudov dovette attraversare, una folla compatta formicolava intorno alle
file dei banchetti; vi si vedevano uomini laceri con stivali sotto le ascelle,
pantaloni e panciotti ben stirati gettati sulle spalle.
Attorno alle bettole c'era già folla: operai liberi dal lavoro di fabbrica,
coi giubbetti puliti e gli stivali lucidi, e donne coi fazzoletti di seta colorata
in testa e i mantelli coi lustrini. Le guardie urbane, coi cordoni gialli alle
pistole, spiavano, immobili al loro posto, qualche disordine che avrebbe potuto
distrarre la loro noia opprimente.
Per i viottoli dei viali e sulle aiuole verdeggianti d'erba novella, correvano
giocando i bambini e i cani, mentre le bambinaie chiacchieravano allegramente
fra di loro, sedute sulle panchine.
Nelle vie ancor fresche e umide sul lato sinistro dove non batteva il sole e
asciutte nel mezzo, s'udiva il frastuono ininterrotto dei grossi carri traballanti
sul selciato, il tintinnio delle carrozze e lo squillo dei tranvai. L'aria vibrava
tutta di suoni diversi e del rintocco delle campane, che chiamavano la gente
a funzioni sacre identiche a quella che s'era svolta poco prima nel carcere.
E la folla vestita a festa si separava seguendo le direzioni delle varie parrocchie.
Il vetturino non condusse Necliudov fin davanti alla prigione, ma si fermò
a una svolta che vi conduceva. Un crocchio di uomini e di donne, quasi tutti
con fagotti, aspettava lì all'angolo, a un centinaio di passi dalla prigione.
A destra si stendevano alcune costruzioni piuttosto basse, di legno, a sinistra
sorgeva una casa a due piani con un'insegna. Più in là, l'enorme
mole di pietra della prigione, cui era vietato avvicinarsi. Una sentinella armata
di fucile camminava avanti e indietro, richiamando severamente all'ordine chi
cercava di passare. Presso il cancello delle baracche di legno, a destra, di
fronte alla sentinella, sedeva su una panchina un custode in divisa gallonata,
con un taccuino fra le mani.
A lui si rivolgevano i visitatori; gli dicevano chi volevano vedere, ed egli
prendeva nota. Anche Necliudov gli si avvicinò, e fece il nome di Jekatierina
Màslova. Il custode gallonato lo annotò.
- Perché non lasciano ancora entrare? - domandò Necliudov.
- C'è la messa. Appena sarà finita potrete passare.
Necliudov si unì alla gente che aspettava. Uno straccione, col cappello
sgualcito, un paio di ciabatte sui piedi nudi e la faccia tutta segnata da strisce
rosse, si staccò dal gruppo e si diresse verso la prigione.
- Dove vai? - gli gridò il soldato col fucile.
- E tu perché urli? - rispose tornando indietro lo straccione, per nulla
turbato dal grido della sentinella; - se non mi lasci passare, aspetterò.
Gridi che neanche un generale!
Una risata di approvazione s'alzò dalla folla. I visitatori erano quasi
tutti vestiti miseramente, alcuni addirittura da straccioni, ma fra gli altri
ve n'erano di quelli, uomini e donne, che avevano un aspetto decoroso. Accanto
a Necliudov stava un uomo ben vestito, rasato con cura, massiccio, colorito,
con un involto, evidentemente di biancheria, in mano. Necliudov gli domandò
se era la prima volta che si trovava lì, l'uomo dell'involto rispose
che ci veniva tutte le domeniche. Attaccarono discorso.
Era un portiere di banca e andava in prigione a visitare un fratello, condannato
per falso. Il brav'uomo raccontò a Necliudov tutta la sua storia, e si
disponeva a sua volta a interrogare il suo interlocutore, quando la loro attenzione
fu attratta dal sopraggiungere di una carrozza coi cerchioni di gomma, tirata
da un robusto morello di razza, dalla quale uscirono uno studente e una signora
velata. Lo studente reggeva tra le mani un grosso involto; s'avvicinò
a Necliudov e gli domandò se credeva che fosse permesso, e come doveva
fare, per distribuire dei panini che aveva nell'involto.
- E' un desiderio della mia fidanzata. Questa è la mia fidanzata. I suoi
genitori ci hanno consigliato di portarli ai detenuti.
- Anch'io è la prima volta che vengo, e non sono pratico, ma credo che
dobbiate rivolgervi a quell'uomo, - rispose Necliudov, indicandogli a destra
il guardiano gallonato, seduto col taccuino in mano.
Mentre Necliudov parlava con lo studente, il portone di ferro con lo spioncino
nel mezzo si aprì, e ne uscì un ufficiale in divisa accompagnato
da un carceriere; e il custode col taccuino annunciò che i visitatori
potevano entrare. La sentinella si fece in disparte e la gente, quasi temesse
di arrivare in ritardo, affrettando il passo e correndo, si precipitò
verso la porta della prigione. Davanti all'ingresso un carceriere, man mano
che gli passavano davanti, contava i visitatori ad alta voce: sedici, diciassette,
eccetera... Un altro carceriere, all'interno dell'edificio, tastava una per
una le persone che entravano e le contava ancora, prima che varcassero la seconda
porta. In questo modo, ripetendo il controllo al momento dell'uscita, avrebbero
potuto assicurarsi che nessuno fosse rimasto in prigione e che nessuno ne fosse
abusivamente uscito. Il carceriere, senza guardare in faccia chi passava, batté
forte sulla schiena a Necliudov, e questi, al contatto di quella mano, sulle
prime si risentì, ma quando si ricordò del motivo per cui era
venuto, provò vergogna di sentirsi malcontento e offeso.
Il primo locale dopo l'ingresso era un gran camerone a volta con piccole finestre
munite di sbarre di ferro. In questa stanza, detta delle riunioni, Necliudov
si stupì moltissimo di vedere dentro una nicchia un gran crocifisso.
"Come mai?", pensò, associando involontariamente nella sua
immaginazione la figura del Cristo coi liberi e non coi reclusi.
Necliudov camminava lentamente, lasciando il passo ai visitatori frettolosi.
Egli provava un sentimento misto di orrore per i malfattori chiusi in quella
prigione e di compassione per gli innocenti, come il ragazzo del giorno prima
e come Katiuscia, anch'essi certamente lì dentro; e inoltre si sentiva
timido e commosso all'idea dell'incontro imminente. All'uscita da quel camerone,
all'altra estremità, un sorvegliante stava dicendo qualcosa. Ma Necliudov,
sprofondato nei suoi pensieri, non ci badò e seguì la corrente
dei visitatori, che per la maggior parte si recavano nel reparto degli uomini,
non in quello delle donne, dove doveva andare lui.
Lasciando passare avanti i frettolosi, entrò per ultimo nel locale adibito
a parlatorio. La prima cosa che lo colpì, fu il frastuono assordante
di centinaia di voci che gridavano tutte insieme. E solo quando si fu avvicinato
alla gente e vide tante persone appiccicate ad una rete come mosche allo zucchero,
capì di che si trattava. La stanza, con le finestre sulla parete posteriore,
era divisa in due da una doppia inferriata, che dal soffitto scendeva fino al
pavimento. Nello spazio fra le due reti camminavano i sorveglianti; da una parte
stavano i detenuti, dall'altra i visitatori. Tra gli uni e gli altri, vi era
la doppia rete e uno spazio di tre arscini, sicché era impossibile non
solo far passare qualsiasi oggetto, ma neppure distinguere bene le facce, soprattutto
per un miope. Era persino difficile parlare; per farsi udire bisognava che uno
gridasse con tutto il fiato che aveva in corpo. Da ambedue le parti si vedevano
visi schiacciati contro la rete; mogli, mariti, padri, madri e figli, che cercavano
di vedersi reciprocamente e di dirsi ciò che loro premeva. Ma poiché
ognuno voleva farsi udire dal suo interlocutore, e la voce dei vicini soffocava
la propria, così si faceva a chi gridava più forte. Ne derivava
quel clamore rotto da grida che aveva sorpreso Necliudov quand'era entrato.
Impossibile pretendere di capire ciò che la gente diceva: soltanto dalle
espressioni delle facce si poteva farsi un'idea degli argomenti di conversazione
e dei rapporti che correvano tra gli interlocutori.
Accanto a Necliudov c'era una vecchietta col fazzoletto in testa. Aggrappata
alla rete, col mento tremante, gridava qualcosa a un giovanotto pallido, con
la testa rapata a metà. Il detenuto, inarcando le sopracciglia e aggrottando
la fronte, l'ascoltava attentamente. Vicino alla vecchia, un giovane in farsetto
s'era portato le mani alle orecchie e scuotendo il capo ascoltava un detenuto
dalla faccia patita e dalla barbetta brizzolata che gli assomigliava. Più
in là uno straccione gridava qualcosa gesticolando, e rideva. Seduta
per terra accanto a lui, una donna con un bambino, avvolta in un bello scialle
di lana, singhiozzava guardando un uomo canuto che era dall'altra parte della
rete; probabilmente era la prima volta che lo vedeva col vestito da detenuto,
la testa rapata e i ferri ai piedi. Dietro la donna, il portiere che aveva conversato
con Necliudov gridava qualcosa a squarciagola a un detenuto calvo con gli occhi
lucidi, che era dall'altra parte.
Quando Necliudov capì che avrebbe dovuto parlare in quelle condizioni,
fu preso da un senso di rivolta contro chi aveva creato e conservava un simile
ordine di cose. Gli sembrava incredibile che un sistema tanto atroce da schernire
a quel modo i sentimenti umani, non suscitasse lo sdegno di nessuno. E tutti,
i soldati, il direttore, i visitatori e i detenuti si comportavano come se la
considerassero la cosa più naturale del mondo.
Necliudov rimase in quella stanza non più di cinque minuti. Provava uno
strano senso di tristezza e di impotenza, di disarmonia con tutto l'universo.
Una sensazione di nausea morale, simile a quella che si prova per il beccheggio
di una nave, si impadronì di lui.
42.
"Eppure bisogna che faccia quello che mi sono proposto", si disse,
facendosi animo. Ma come?
Mentre cercava con gli occhi un superiore, vide un uomo coi baffi, piccolo e
magro, che aveva le spalline da ufficiale e camminava dietro a tutti. Si rivolse
a lui.
- Non potreste dirmi, signore, - domandò con una cortesia piuttosto forzata,
- dov'è il reparto delle donne, e in che posto si può parlare
con loro?
Dovete andare nel reparto delle donne?
- Sì, vorrei vedere una detenuta, - rispose Necliudov, con la stessa
gentilezza forzata.
- Dovevate dirlo quando eravate nella sala delle riunioni. Chi volete vedere?
- Jekatierina Màslova.
- Una politica? - domandò il vice direttore.
- No, semplicemente...
- E' già stata processata?
- Sì, tre giorni fa, - rispose umile Necliudov, temendo di poter in qualche
modo guastare la buona disposizione del direttore, che sembrava interessarsi
dei suoi casi.
- Se dovete andare dalle donne, favorite da questa parte, - disse il direttore,
giudicando evidentemente dall'aspetto esteriore di Necliudov che era una persona
degna di riguardo. - Sìdorov, - si rivolse ad un sottufficiale baffuto
e ricoperto di medaglie, - accompagna questo signore nel femminile.
- Sissignore.
In quel momento presso la rete si udirono dei singhiozzi strazianti. Tutto era
strano per Necliudov, e più di tutto il fatto di dover ringraziare e
sentirsi obbligato al direttore e al capo carceriere, due persone che commettevano
le atrocità cui aveva assistito in quella casa.
Il carceriere fece uscire Necliudov in un corridoio e, per una porta proprio
dirimpetto, lo fece entrare nel parlatorio delle donne.
Questa stanza, come quella degli uomini, era divisa in tre da due inferriate;
era però notevolmente più piccola e meno gremita di visitatori
e di detenute. Eppure le grida e il frastuono vi erano identici. Anche qui tra
le reti camminava il personale, rappresentato da una guardiana in divisa coi
galloni e i risvolti azzurri alle maniche e una fusciacca uguale a quella dei
carcerieri. Come dagli uomini, anche qui la gente s'attaccava alle reti; da
un lato i visitatori vestiti nei modi più disparati, da quello opposto
le detenute, chi in bianco, chi con gli abiti propri. La grata era tutta gremita
di gente. Alcuni si alzavano in punta di piedi per farsi udire al di sopra delle
teste, altri, seduti per terra, discorrevano fra di loro. Fra tutte le detenute
spiccava, per il suo modo strano di gridare e per il suo aspetto, una zingara
arruffata e magra, col fazzoletto che le era scivolato dai capelli ricciuti.
Stava quasi al centro della rete, appoggiata a un pilastro, e gesticolando rapidamente
gridava qualcosa a uno zingaro in redingote azzurra, legata stretta in fondo
alla vita. Vicino a costui un soldato s'era accoccolato per terra, e parlava
con una detenuta. In piedi, appiccicato alla rete, un giovane contadino dalla
barbetta chiara, in "lapti", col viso rosso per lo sforzo di trattenere
le lacrime, ascoltava ciò che gli diceva una detenuta bionda, graziosa,
che lo guardava coi suoi limpidi occhi azzurri. Erano Fedossia e suo marito.
Accanto a loro uno straccione discorreva con una donna dalla faccia larga, tutta
scarmigliata; poi due donne, un uomo, un'altra donna - e dirimpetto altrettante
recluse. Fra queste la Màslova non c'era. Ma dietro le detenute, vi era
ancora una donna, e Necliudov intuì subito che si trattava di lei. Il
suo cuore si mise a battere forte e il suo respiro si fermò. Il momento
fatale si avvicinava. S'accostò alla rete e la riconobbe. Da dietro le
spalle di Fedossia, ascoltava sorridendo le parole di lei. Non era in divisa,
come due giorni prima, ma indossava una camicetta bianca, stretta in vita da
una cintura e molto sollevata sul petto. Dal fazzoletto le sfuggivano come al
processo ciocche ondulate di capelli neri.
"Adesso si deciderà tutto", egli pensò. "Come devo
fare a chiamarla? Forse verrà da sola..."
Ma essa non si avvicinava. Aspettava Klara e non pensava affatto che quell'uomo
fosse lì per lei.
- Chi volete, - domandò, avvicinandosi a Necliudov, la guardiana che
stava tra le reti.
- Jekatierina Màslova, - riuscì malamente ad articolare Necliudov.
- Màslova, c'è qualcuno per te! - gridò la carceriera.
La Màslova si guardò intorno; poi a testa alta e sporgendo il
petto, con quella espressione premurosa nota a Necliudov, s'avvicinò
alla rete, insinuandosi fra due detenute. Il suo sguardo tra sorpreso e interrogativo
si fermò su Necliudov. Non lo riconobbe.
Ma vedendo dall'abito che si trattava di persona ricca, sorrise.
- Venite da me? - disse, accostando alla rete il viso sorridente, dagli occhi
un po' strabici.
- Volevo vedere... - Necliudov non sapeva se darle del voi o del tu. Decise
per il voi, e disse con voce normale. - Volevo vedervi... io...
- Piantala di menarmi per il naso! - gridava vicino a lui lo straccione. - L'hai
preso, sì o no?
- Ti dico che sta morendo. Che vuoi di più? - gridava un altro dalla
parte opposta.
La Màslova non capiva le parole di Necliudov, ma dall'espressione del
suo volto mentre egli parlava, d'un tratto lo riconobbe. Non voleva credere
a se stessa. Il sorriso però scomparve dalla sua faccia, e la fronte
le si aggrottò penosamente.
- Non sento quel che dite! - gridò battendo le palpebre e rabbuiandosi
sempre di più.
- Son venuto...
"Sì, farò il mio dovere, confesserò la mia colpa"
pensò Necliudov. A quel pensiero gli vennero le lacrime agli occhi, e
gli fecero groppo alla gola. Aggrappandosi con le dita alla rete, tacque, facendo
uno sforzo per non scoppiare in pianto.
- Perché ti allarmi? ti dico che non è il caso, - qualcuno gridò
da una parte.
- In nome di Dio, non so niente di niente! - strillò una detenuta dall'altra.
Vedendo la sua agitazione, la Màslova lo riconobbe.
- Assomiglia, ma non lo riconosco... - essa gridò senza guardarlo; e
il suo viso che s'era improvvisamente fatto di fiamma, assunse un'espressione
ancor più cupa.
- Sono venuto per chiedervi perdono, - egli gridò ad alta voce, senza
inflessioni, come se recitasse una lezione a memoria. Appena ebbe pronunciato
quelle parole, si vergognò e si guardò intorno. Ma subito gli
venne il pensiero che se provava vergogna, tanto meglio per lui, giacché
era giusto la soffrisse.
E riprese a dire forte, gridando:
- Perdonami, son terribilmente colpevole verso di te.
Essa stava immobile tenendo fisso su di lui il suo sguardo strabico. Egli, incapace
di proseguire, si scostò dalla rete, sforzandosi di trattenere i singhiozzi
che gli straziavano il petto. Il direttore, quello stesso che aveva indirizzato
Necliudov nella sezione donne, l'aveva seguito nel reparto, evidentemente incuriosito.
Vedendo che Necliudov non era alla rete gli domandò come mai non stesse
parlando con la persona di cui aveva chiesto. Necliudov si soffiò il
naso, si scosse e cercando di mostrarsi indifferente, rispose:
- Non posso parlare attraverso la rete, non si capisce niente.
Il direttore rifletté un momento.
- Be', si potrebbe forse farla venire qui per qualche minuto. Mària Kàrlovna!
- si rivolse alla carceriera. - Fate venir fuori la Màslova.
43.
Poco dopo da una porta laterale uscì la Màslova. Accostatasi lievemente
a Necliudov, si fermò e lo guardò di sotto in sù. I capelli
neri, come due giorni prima, s'attorcigliavano in ciocche inanellate, il viso
dal colorito malsano gonfio e pallido, era grazioso e perfettamente tranquillo;
solo gli occhi strabici, d'un nero lucente, brillavano in modo insolito, da
sotto le palpebre enfiate.
- Potete parlare qui, - disse il direttore scostandosi.
Necliudov si mosse verso una panca addossata a una parete.
La Màslova guardò il vice direttore con aria interrogativa e poi,
stringendosi nelle spalle quasi stupita, seguì Necliudov sulla panca
e sedette accanto a lui, accomodandosi la gonna.
- Lo so che vi è difficile perdonarmi. - cominciò Necliudov, ma
s'interruppe di nuovo, impedito dalle lacrime: - e se ormai è impossibile
rimediare al passato, son però deciso a fare tutto quello che posso.
Ditemi.
- Come avete fatto a trovarmi? - domandò lei senza rispondere alla sua
domanda, guardandolo e non guardandolo coi suoi occhi strabici.
"Signore aiutami! Ispirami quello che debbo fare" si disse Necliudov,
osservando il viso di lei tanto mutato, su cui si leggeva un'espressione cattiva.
- Due giorni fa ero nella giuria, - egli rispose; - il giorno che vi han fatto
il processo. Non mi avete riconosciuto?
- No. Non avevo il tempo per riconoscervi. E poi non guardavo, - essa rispose.
- E' nato un bambino nevvero? - le domandò e si sentì avvampare.
- E' morto subito, grazie a Dio! - rispose lei brevemente e con aria cattiva,
distogliendo lo sguardo.
- Ma in che modo? perché?
- Io stessa ero malata, per poco non son morta, disse, senza alzare gli occhi.
- Come mai le zie vi hanno lasciata andare via?
- Chi tiene una cameriera con un bambino? Appena se ne sono accorte mi hanno
scacciata. Ma a che scopo parlarne... non ricordo nulla, tutto ho dimenticato.
Una storia finita.
- No non è finita. Non posso lasciare le cose così. Almeno adesso
vorrei riparare la mia colpa.
- Non c'è niente da riparare; quel che è stato è stato.
Cose passate! - disse lei e senza che egli se l'aspettasse minimamente, ad un
tratto lo guardò in faccia e sorrise in un modo sgradevole, provocante
e pietoso. La Màslova non aveva mai pensato che potesse capitarle di
rivederlo, soprattutto in quel momento e in quel luogo, e perciò la sua
comparsa l'aveva colta alla sprovvista, rievocandole un passato di cui s'inibiva
il ricordo. Si rammentò allora confusamente di quel mondo meraviglioso
di sentimenti e di pensieri che un giovane affascinante innamorato di lei d'un
amore corrisposto le aveva dischiuso, e poi della crudeltà inspiegabile
di lui e di tutta la serie di umiliazioni e di sofferenze che erano state il
seguito e la conseguenza di quella incantata felicità... E provò
una gran pena. Ma non essendo in grado di raccapezzarsi, si comportò
come faceva sempre: respinse lontano da sé quei ricordi e si affrettò
a disperderli nella nebbia della sua vita corrotta. In un primo momento aveva
ravvisato, nell'uomo che le sedeva accanto, il giovane amato, ma vedendo che
ciò le faceva troppo male, aveva rinunciato a pensarci. L'uomo ben vestito,
il signore elegante dalla barba profumata non fu più per lei il Necliudov
che aveva amato, ma uno dei tanti uomini che, quando ne sentivano il bisogno,
si servivano di esseri come lei, e dai quali gli esseri come lei dovevano cercare
di trarre il maggior vantaggio. E perciò gli aveva sorriso con aria provocante.
Essa taceva, pensando al miglior modo di trar profitto da lui.
- Quella è una storia ormai finita, - disse. - Adesso invece mi hanno
condannata ai lavori forzati. - Le sue labbra tremarono, mentre pronunciava
le parole terribili.
- Ero sicurissimo della vostra innocenza, - disse Necliudov.
- Certo che sono innocente. Son forse una ladra o una rapinatrice? Qui si dice
che tutto dipende dall'avvocato, - proseguì. - Dicono che bisogna far
ricorso. Soltanto che costa caro, dicono...
- Sì, senz'altro, - rispose Necliudov. - Mi son già rivolto a
un avvocato.
- Non bisogna far economia, per uno bravo, - essa replicò.
- Farò tutto il possibile.
Seguì una pausa.
Essa gli lanciò un altro dei suoi sorrisi.
- Vorrei chiedervi... un po' di denaro, se potete. Non molto... una decina di
rubli. Di più non mi occorre, disse a un tratto.
- Ma certo, ma certo, - pronunciò confuso Necliudov, portando la mano
al portafoglio.
Essa lanciò una rapida occhiata al direttore, che camminava avanti e
indietro per il camerone.
- Non ora, aspettate che si sia allontanato, se no me li portano via.
Appena il direttore si fu voltato dall'altra parte, Necliudov tirò fuori
il portafoglio; ma non ebbe il tempo di passarle un biglietto da dieci rubli
che il direttore si voltò di nuovo verso di loro. Egli lo strinse nella
mano.
"Ma questa è una donna morta", pensò, guardando quel
viso un tempo grazioso, ora imbruttito e gonfio, in cui gli occhi neri, strabici,
splendevano di una luce non buona, mentre seguivano il direttore e la mano che
stringeva il denaro. Egli esitò un attimo.
Il tentatore che aveva parlato in lui nella notte precedente, s'insinuò
di nuovo nel suo animo, cercando al solito di distoglierlo dal pensare a ciò
che doveva fare, per indurlo invece a riflettere sulle conseguenze dei suoi
atti e a ciò che era utile.
"Non ne caverai nulla da questa donna", diceva la voce; "non
riuscirai ad altro che a legarti un sasso al collo, che ti farà affogare
e t'impedirà di essere utile al tuo prossimo... Darle del denaro, tutto
il denaro che ho in tasca, dirle addio e farla finita una volta per tutte",
gli venne fatto di pensare.
Ma subito ebbe la percezione che in quello stesso momento in lui avveniva qualcosa
di assai grave. La sua vita spirituale era come sui piatti di una bilancia che
il minimo sforzo poteva far pendere da una parte, piuttosto che dall'altra.
Ed egli compì questo sforzo, invocando il nome di quel Dio che già
il giorno prima aveva sentito presente nell'anima sua. E quel Dio gli rispose.
Egli decise di dirle tutto subito.
- Katiuscia! Sono venuto da te per chiederti perdono, ma tu non mi hai risposto
se mi perdoni, se mi perdonerai un giorno o l'altro, - le disse, passando improvvisamente
al tu.
Lei non lo ascoltava, ma guardava ora la sua mano, ora il direttore. Quando
questi voltò le spalle, essa allungò la mano, afferrò la
banconota e la nascose nella cintola.
- Strano ciò che dite! - esclamò con un sorriso che gli parve
di scherno.
Necliudov sentiva in lei qualcosa di decisamente ostile, che impedendole di
assumere un altro atteggiamento nei confronti di lui, gli rendeva impossibile
di toccarle il cuore. Ma, cosa strana, questa impressione, invece di allontanarlo,
lo attirava ancor di più, come una forza che gli riusciva nuova. Egli
sentiva di doverle risvegliare lo spirito. Impresa estremamente ardua, ma allettante
per la sua stessa difficoltà. Provava ora per lei un sentimento che non
aveva ancora mai provato per nessuno, e in cui non vi era niente di personale.
Da lei non desiderava nulla per sé; desiderava soltanto che essa non
fosse più quella di adesso, ma si risvegliasse e tornasse ad essere quella
di prima.
- Katiuscia, perché parli così? Io ti conosco bene, ti ricordo
al tempo di Pànovo...
- Perché ricordare il passato? - disse lei asciutta.
- Lo ricordo perché voglio riparare. Voglio riscattare la mia colpa,
Katiuscia, - egli riprese, e stava per dirle che era pronto a sposarla, quando
incontrò il suo sguardo e vi lesse qualcosa di così spaventosamente
abietto e repellente, che non gli riuscì di continuare.
Intanto i visitatori cominciavano ad uscire. Il direttore s'avvicinò
a Necliudov e gli fece osservare che l'ora delle visite era terminata. La Màslova
s'alzò aspettando con aria remissiva che la lasciassero andare.
- Arrivederci, devo dirvi ancora molte cose, ma, come vedete, adesso è
impossibile, - disse Necliudov e le tese la mano. - Ritornerò.
- Mi sembra che abbiate detto tutto...
- No, farò in modo di rivedervi dove si possa parlare, e allora vi dirò
una cosa molto importante, - replicò Necliudov.
- Ma sì, venite, - essa disse, sorridendo come sorrideva agli uomini
ai quali voleva piacere.
Mi siete più vicina di una sorella, - disse Necliudov.
Strano! - rispose lei, e tentennando il capo si allontanò dietro la rete.
44.
Fin dalla prima visita Necliudov s'aspettava che Katiuscia, rivedendolo così
pentito e ansioso di aiutarla, si sarebbe rallegrata e commossa, tornando ad
essere la Katiuscia d'un tempo. Dovette constatare invece con orrore che Katiuscia
non c'era più e che ormai esisteva soltanto la Màslova. Ciò
lo sorprese e lo sgomentò.
Lo stupiva soprattutto che la Màslova, anziché vergognarsi della
sua condizione di prostituta, se ne mostrasse contenta, quasi fiera, mentre
invece si vergognava molto della sua condizione di reclusa. Ma in realtà
non avrebbe potuto essere altrimenti. Infatti per poter agire nella vita, tutti
abbiamo bisogno di attribuire al nostro lavoro importanza e dignità.
E ne deriva che un uomo, a qualunque condizione appartenga, riesce sempre a
formarsi un concetto della vita, tale che gli faccia sembrare la sua attività
degna e importante.
Si è soliti pensare che il ladro, l'assassino, la spia, la prostituta,
considerando riprovevoli le proprie professioni se ne debbano vergognare. Ma
avviene esattamente il contrario. Le persone poste dal destino e dai propri
errori in una determinata condizione, per quanto questa possa essere falsa,
riescono sempre a vedere la vita da un punto di vista che giustifica e nobilita,
ai loro propri occhi, la loro posizione. Per sostenere questo punto di vista
essi si appoggiano istintivamente alla cerchia di persone che condividono le
loro stesse idee sulla vita e sul posto che occupano nella società.
Noi ci meravigliamo se un ladro si vanta della sua destrezza, una prostituta
della sua depravazione, e un assassino della sua crudeltà. Ma ce ne meravigliamo
soltanto perché si tratta di un gruppo sociale assai limitato, al quale
noi siamo estranei. Ma forse non si verifica lo stesso fenomeno fra la gente
ricca, che è fiera della propria ricchezza, cioè del frutto di
un ladrocinio? Fra i comandanti dell'esercito che si vantano dei loro successi
militari, ossia di assassinii? Fra i potenti, orgogliosi del loro potere, acquistato
con la violenza? Non ci accorgiamo come tutti costoro deformino il concetto
della vita e della morale, per giustificare se stessi; ma non ce ne accorgiamo,
solo perché il numero delle persone che hanno idee così false
è assai grande e noi stessi vi siamo inclusi.
Un simile concetto sulla sua vita e sul posto che occupava nella società
se lo era formato anche la Màslova. Sebbene prostituta e condannata ai
lavori forzati, il concetto che s'era fatta della vita le permetteva di approvare
se stessa e persino di sentirsi fiera davanti agli altri della sua condizione.
Questa concezione del mondo era basata sull'idea che il bene principale di tutti
gli uomini, nessuno escluso, - vecchi, giovani, studenti, generali, colti e
ignoranti consista nei rapporti sessuali con donne attraenti; e perciò
tutti gli uomini, benché fingano d'interessarsi d'altro, in realtà
anelano soltanto a questo. Lei, una donna attraente, poteva a suo piacimento
appagare o non appagare quella loro brama ed era perciò una persona importante
e necessaria. La sua vita passata e presente era conferma dell'esattezza di
questa concezione.
Per dieci anni, dovunque si fosse trovata, cominciando da Necliudov e dal vecchio
commissario, fino ai guardiani delle carceri, aveva sempre visto che tutti gli
uomini avevano bisogno di lei; quelli che non ne avevano bisogno, per lei non
esistevano neppure. Il mondo intero le appariva come un'accolta di uomini travolti
dalla lussuria, che da ogni parte la spiavano, capaci di far ricorso, per possederla,
a qualsiasi mezzo. L'inganno, la violenza, il denaro, l'astuzia.
Così interpretava la vita la Màslova, e data questa concezione,
non solo non si considerava l'ultima delle donne, ma credeva anzi di essere
una persona assai importante. E a tale sua concezione della vita teneva come
a null'altro al mondo, giacché capiva che, mutandola, lei stessa avrebbe
perso l'importanza che quel modo di vivere le conferiva fra gli uomini. E per
non perdere il suo valore nella vita, si aggrappava istintivamente alla cerchia
di persone che avevano le sue stesse idee. Intuendo che Necliudov voleva condurla
in un mondo diverso, gli faceva resistenza, poiché prevedeva che là
dove egli l'attirava, avrebbe inevitabilmente perso il posto che ora occupava
nella vita, e che le infondeva sicurezza e un alto concetto di sé. Per
la stessa ragione scacciava dal suo cuore i ricordi della prima giovinezza e
dei suoi primi rapporti con Necliudov. Quei ricordi non s'accordavano con la
concezione che s'era fatta della vita: li aveva completamente scacciati dalla
memoria, o meglio, li conservava intatti in un cantuccio del suo cuore; intatti,
ma chiusi ermeticamente, murati, come fanno le api coi nidi dei vermi che sanno
capaci di distruggere l'alveare, se riescono a penetrarvi.
Per questa ragione il Necliudov di adesso non era più per lei l'uomo
che una volta aveva amato di un amore puro; era un signore ricco, di cui poteva
e doveva approfittare, e col quale potevano sussistere soltanto quei rapporti
che essa intratteneva con gli altri uomini.
"No, non ho potuto dirle la cosa principale", pensò Necliudov
dirigendosi con gli altri all'uscita. "Non le ho detto che la sposerò.
Non gliel'ho detto, ma glielo dirò", pensava.
I due carcierieri di guardia alla porta contavano di nuovo i visitatori perché
non ne uscisse uno di troppo, o uno di troppo non rimanesse in prigione. Necliudov
ricevette un nuovo colpo sulla schiena, ma questa volta non s'offese; neppure
se ne accorse.
45.
Necliudov s'era proposto di cambiare vita: affittare il vasto appartamento,
licenziare la servitù e trasferirsi all'albergo. Ma Agrafena Petrovna
gli fece osservare che fino all'inverno non era il caso di modificare comunque
l'andamento della casa; d'estate nessuno prende in pigione appartamenti, mentre
bisogna pur vivere e tenere la mobilia e la roba in qualche posto. Sicché
tutti i tentativi di Necliudov per cambiar la sua vita esteriore - avrebbe voluto
sistemarsi in un modo semplice, alla studentesca - non approdarono a nulla.
Oltre al fatto che le cose rimasero al punto di prima, in casa cominciò
una intensa attività: si lustrarono i vetri, furono stesi e battuti gli
indumenti di lana e le pellicce. A questo lavoro presero parte il portiere,
il suo aiutante, la cuoca e lo stesso Kornèi. Dapprima furono messe all'aria
e tese sulle corde certe divise e certe pellicce strane che nessuno adoperava
mai; poi furono portati fuori i tappeti e i mobili, e il portiere col suo aiutante,
rimboccate le maniche sulle braccia muscolose, cominciarono a battere ritmicamente
con tutta la loro energia, mentre per la casa si diffondeva l'odor della naftalina.
Passando dal cortile e guardando dalle finestre, Necliudov si stupiva di quella
gran quantità di roba, senza dubbio inutile. "Tutte cose che servono
soltanto perché Agrafena Petrovna, Kornèi il portiere, il suo
aiutante e la cuoca facciano un po' di ginnastica", pensava Necliudov.
"Non vale la pena di cambiar genere di vita, finché la faccenda
della Màslova non è definita", egli pensava. "E poi,
è troppo difficile. Tanto le cose si sistemeranno da sole, quando la
metteranno in libertà o la spediranno in Siberia, dove la seguirò".
Nel giorno fissato, Necliudov si recò dall'avvocato Fanarin. Egli abitava
un sontuoso appartamento in una casa di sua proprietà. Ornato di piante
enormi e di magnifiche tende alle finestre, era arredato con quello sfarzo che
generalmente è segno di un eccesso di denaro, troppo facilmente guadagnato;
sfarzo che capita di vedere nelle case di chi s'arricchisce improvvisamente.
Nella sala d'aspetto Necliudov trovò altri clienti che aspettavano il
loro turno, come dal medico, seduti con aria abbattuta intorno ai tavolini,
dove cercavano di distrarsi coi giornali illustrati. Il sostituto dell'avvocato,
seduto a una grande scrivania, riconobbe Necliudov, gli si avvicinò per
salutarlo e gli disse che l'avrebbe subito annunciato al principale. Ma non
era ancora arrivato alla porta dello studio, che questa si aprì. Un uomo
tarchiato di mezza età, dal viso rosso e i baffi folti, che indossava
un abito nuovo fiammante, stava conversando ad alta voce e animatamente con
Fanarin. Tutti e due avevano sulla faccia l'espressione caratteristica di chi
ha appena concluso un affare vantaggioso ma non del tutto onesto.
- Colpa vostra, signor mio, - diceva Fanarin sorridendo.
- Mi piacerebbe andare in paradiso, ma i peccati non mi "lassano".
- Be', be', lo sappiamo...
E tutti e due si misero a ridere in un modo che suonò falso.
- Ah, principe, accomodatevi, - disse Fanarin vedendo Necliudov, e con un ultimo
cenno di saluto al mercante che s'allontanava, introdusse Necliudov in uno studio
arredato austeramente. - Fumate pure, - proseguì l'avvocato, sedendo
di fronte a Necliudov, e trattenendo un sorriso di compiacenza per il buon esito
dell'affare di poco prima. - Grazie, sono venuto per quel processo della Màslova.
- Sì, sì, subito. Ah, ma che canaglia questi grassi borghesi!
Avete osservato quel bel tipo? Ha un capitale di dodici milioni. E dice "lassano".
Già... Ma se sa di potervi tirar fuori un biglietto da venticinque rubli,
coi denti ve lo strappa.
"Lui dice lassano e tu un biglietto da venticinque rubli...", pensò
Necliudov. Provava un senso invincibile di ripugnanza per quell'uomo spigliato,
che col suo tono voleva dimostrare che con lui, Necliudov, si sentiva su uno
stesso piano mentre col cliente di prima e con tutti gli altri, era convinto
di non aver nulla in comune.
- Uff non ne posso proprio più... che mascalzone! avevo bisogno di sfogarmi...
- disse l'avvocato, quasi giustificandosi per essere uscito dal seminato. -
Be', dunque, riguardo alla vostra faccenda... Ho letto attentamente l'incartamento
e "codesto contenuto non approvai", come dice Turghèniev. Cioè,
l'avvocatuccio non valeva uno zero e si è lasciato sfuggire tutti i motivi
di ricorso in Cassazione.
- E allora che avete deciso?
- Un momento. Ditegli, - si rivolse al suo sostituto che era entrato, - che
quel che ho detto ho detto. Se può, bene, se non può, non importa.
- Ma lui non è d'accordo.
- Allora non importa, - rispose l'avvocato e il suo viso da soddisfatto e bonario
si fece cupo e cattivo.
- E poi dicono che gli avvocati si fan pagare per niente, - egli riprese atteggiando
di nuovo il viso a un'espressione benevola. - Ho salvato un debitore insolvente
da un'imputazione assolutamente viziosa e adesso tutti corrono da me. Ma le
cause di questo genere costano una fatica enorme. E' proprio vero che, come
dice non so che scrittore, anche noi lasciamo un pezzetto di carne nel calamaio...
Tornando dunque al nostro processo, o meglio al processo che vi interessa, -
proseguì, - è stato condotto malissimo; motivi validi per ricorrere
non ce ne sono. Ma tuttavia tentare si può, ed ecco qua ciò che
ho messo insieme.
E da un foglio manoscritto, mandando giù in fretta le formule, e pronunciando
il resto con molta espressione, cominciò a leggere: - "Ricorso alla
sezione penale della Corte di Cassazione, eccetera eccetera presentato dalla
tal dei tali eccetera eccetera. Con sentenza pronunciata eccetera, eccetera,
in base al verdetto eccetera eccetera, una certa Màslova è stata
riconosciuta colpevole di aver ucciso mediante avvelenamento il mercante Smielkòv
e in base all'articolo 1454 del Codice penale eccetera, eccetera, è stata
condannata ai lavori forzati eccetera, eccetera".
Egli si fermò; nonostante la lunga abitudine, ascoltava con evidente
piacere la sua opera.
- "Questo verdetto è a nostro parere, il risultato di errori e di
vizi di procedura così gravi", - egli continuò ispirato,
- "che ci sembra passibile di annullamento. In primo luogo, durante l'istruttoria,
la lettura della perizia medica sui visceri dello Smielkòv fu interrotta
fin dall'inizio dal presidente": e uno.
- Ma è stato il pubblico ministero che ne ha preteso la lettura, - osservò
Necliudov sorpreso.
- Fa lo stesso, anche la difesa poteva avere delle ragioni per chiederla.
- Ma quella lettura era assolutamente inutile...
- Però è un motivo... Continuiamo: "In secondo luogo, il
difensore della Màslova", - riattaccò a leggere, - "durante
la sua arringa, nel punto in cui cercava di caratterizzare la personalità
della Màslova, esponendo le ragioni intime della sua caduta, fu interrotto
dal presidente il quale riteneva che le parole del difensore non si riferivano
al fatto in sé.
"Ora nelle cause penali, come più volte la Corte suprema ha fatto
presente, L'indagine sul carattere dell'imputato ha un'importanza capitale,
non foss'altro che per risolvere giustamente il quesito relativo all'imputazione".
E due, - egli disse guardando Necliudov.
- Ma se parlava tanto male che non si capiva un'acca, - osservò Necliudov
sempre più sorpreso.
- Quel ragazzo è perfettamente stupido ed è naturale che non poteva
dir niente di sensato, - spiegò Fanarin ridendo. - Ma è pur sempre
un motivo... Sentite poi: "In terzo luogo, il presidente, nel suo discorso
conclusionale contrariamente al disposto categorico del paragrafo 1, articolo
801 del Codice penale ha omesso di spiegare ai giurati quali elementi giuridici
determinano il concetto della colpevolezza, e non li ha avvertiti che essi anche
se davano come provato il fatto dell'aver la Màslova propinato il veleno
allo Ssmielkòv, avevano però la facoltà di non imputarglielo
a colpa, escludendo in lei l'intenzione di uccidere e di conseguenza riconoscendola
colpevole non di un crimine, ma di un atto colposo la cui conseguenza è
stata, inaspettatamente per la Màslova, la morte del mercante".
E questo è il punto principale.
- Ma anche noi potevamo accorgercene. La colpa è nostra.
- E finalmente in quarto luogo, - proseguì l'avvocato: "la risposta
dei giurati al quesito della Corte sulla colpevolezza della Màslova fu
data in una forma che aveva insita in sé una contraddizione. La Màslova
era accusata di aver avvelenato lo Smielkòv con premeditazione, a scopo
esclusivo di lucro, il che risultava essere l'unico movente del delitto. Ma
i giurati, nella risposta, scartarono l'intenzione del furto e la partecipazione
della Màslova alla sottrazione dei valori, dimostrando con ciò
che essi intendevano escludere anche l'intenzione di uccidere da parte dell'imputata.
Soltanto per un malinteso provocato dall'esposto incompleto del presidente,
essi non formularono la risposta nei dovuti termini. Ne consegue che il verdetto
dei giurati richiedeva inequivocabilmente l'applicazione degli articoli 816
e 808 del Codice penale, ossia che il presidente spiegasse ai giurati l'errore
commesso e ordinasse loro una nuova deliberazione, allo scopo di elaborare una
nuova risposta sul quesito relativo alla colpevolezza dell'imputata".
- E allora perché il presidente non l'ha fatto?
- Il perché vorrei saperlo anch'io, - disse Fanarin ridendo.
- Credete che la Cassazione correggerà l'errore?
- Dipende da chi in quel momento comporrà la sezione. Sicuro... Più
avanti scrivo: "Un simile verdetto non dava diritto alla Corte", -
egli proseguì in fretta, - "di sottoporre la Màslova alla
sanzione penale; l'applicazione nei suoi confronti del paragrafo 3, articolo
771 del Codice penale, costituisce una netta e grave violazione dei principi
fondamentali della nostra procedura penale. Per le ragioni sopra elencate ho
l'onore di sollecitare, conforme agli articoli 909, 910 e al paragrafo 2 degli
articoli 912 e 928 del Codice Penale eccetera, eccetera, l'annullamento e il
rinvio di questo processo ad un'altra sezione dello stesso tribunale per un
nuovo esame". Ecco qua tutto quel che si poteva fare. Ma, se devo essere
sincero, credo che ci sian scarse probabilità di riuscita. Tutto dipende
dalle persone che comporranno la Corte di Cassazione. Se avete una pedina da
muovere, non perdete tempo.
- Conosco qualcuno.
- Affrettatevi prima che vadano a curarsi le emorroidi e vi tocchi aspettare
tre mesi. E nel caso di un insuccesso, ci rimane sempre la domanda di grazia
a Sua Maestà. Anche qui si tratta di agire dietro le quinte. Contate
pure su di me non per le pratiche di retroscena, s'intende, ma per la compilazione
dell'istanza.
- Grazie. E per il vostro onorario...
- Il mio sostituto vi consegnerà la bella copia del ricorso e vi dirà
la cifra.
- Vorrei chiedervi una cosa ancora. Il procuratore mi ha rilasciato il permesso
di visitare questa persona in carcere, ma là mi hanno detto che per le
visite fuori orario e non in parlatorio ci vuole anche il permesso del governatore.
E' vero?
- Credo di sì. Ma adesso il governatore non c'è, lo sostituisce
il vice governatore. E' talmente idiota che ci caverete ben poco.
- Màslennikov?
- Sì.
- Lo conosco, - disse Necliudov e si alzò per andarsene.
In quel momento irruppe nella stanza una donna piccola, bruttissima, dal naso
camuso, ossuta e gialla. Era la moglie dell'avvocato, ed evidentemente non si
lasciava per nulla deprimere dalla propria bruttezza. Non soltanto vestiva in
un modo stravagante, tutta drappeggiata in sete e in velluti giallo chiaro e
verde, ma s'era anche arricciati i pochi capelli che aveva in testa. Si precipitò
tutta trionfante nello studio, seguita da un uomo lungo e sorridente con la
faccia terrea, che indossava una redingote coi risvolti di seta e una cravatta
bianca. Uno scrittore che Necliudov conosceva di vista.
- Anatòl, - essa disse aprendo la porta, - vieni da me. Semiòn
Ivànovic' mi ha promesso di recitarci i suoi versi e tu devi assolutamente
leggerci Garscin.
Necliudov fece per andarsene, ma la moglie dell'avvocato scambiò sottovoce
qualche parola col marito e subito si rivolse a lui.
- Per favore, principe - io vi conosco e ritengo inutile la presentazione -
fateci l'onore di assistere alla nostra mattinata letteraria. Sarà molto
interessante. Anatòl legge in modo incantevole.
- Vedete come sono eterogenee le mie occupazioni? - disse Anatòl allargando
le braccia e indicando la moglie con un sorriso, come per significare che ad
una persona così seducente era impossibile resistere.
Necliudov con aria afflitta e severa ma estremamente cortese, ringraziò
la moglie dell'avvocato per l'onore fattogli e si scusò di non poter
accettare. Poi uscì dallo studio.
- Che smorfioso! - disse di lui la moglie dell'avvocato, non appena fu uscito.
Nella sala d'aspetto il sostituto consegnò a Necliudov il ricorso, e
alla domanda sull'onorario rispose che Anatoli Petrovic' chiedeva mille rubli;
affrettandosi a soggiungere che l'avvocato non accettava mai cause di quel genere,
e aveva fatto un'eccezione soltanto per lui.
- Ma il ricorso chi deve firmarlo?
- L'imputata stessa. Se però è una cosa complicata, Anatòl
Petrovic' può firmare per lei.
- No, ci andrò io e la farò firmare, - rispose Necliudov, lieto
che gli si offrisse un'occasione di rivederla prima del giorno stabilito.
46.
All'ora solita, nei corridoi della prigione risuonarono i fischi dei carcerieri
e fra lo stridere delle serrature si spalancarono le porte dei corridoi e delle
camerate. Cominciò lo stropiccio dei piedi scalzi e dei tacchi dei kotì.
Nei corridoi passarono i detenuti coi bigonci, appestando l'aria di un fetore
disgustoso; uomini e donne si lavarono, si vestirono e uscirono nei corridoi
per il controllo, e dopo l'appello andarono a prendere l'acqua bollente per
il tè.
Quel mattino, durante il tè, in tutte le camerate della prigione si faceva
un gran discorrere sul fatto che in giornata due detenuti dovevano subire la
battitura con le verghe.
Uno di questi era un giovane che sapeva leggere e scrivere bene, un commesso
di nome Vassìliev, il quale in un impeto di gelosia, aveva ucciso l'amante.
I compagni di camerata l'amavano per la sua allegria, la sua generosità
e per la risolutezza nel modo di trattare coi superiori. Conosceva il regolamento
e ne esigeva l'applicazione. Per questo i capi non lo potevano soffrire. Tre
settimane prima un guardiano aveva picchiato un detenuto perché, nel
passare col recipiente della zuppa, gliene aveva rovesciata un po' sulla divisa
nuova. Vassìliev aveva preso le parti del detenuto, dicendo che il regolamento
proibiva di battere i carcerati.
- Te lo farò vedere io il regolamento! - minacciò il carceriere,
coprendo Vassìliev d'insulti. Questi replicò sullo stesso tono.
L'altro alzò la mano per picchiarlo, ma Vassiliev lo afferrò per
il braccio e lo immobilizzò per qualche minuto; poi gli fece fare un
giro su se stesso e lo scaraventò fuori della porta. Il carceriere lo
denunciò e il direttore fece rinchiudere Vassìliev in una cella
di rigore.
Le celle di rigore erano una fila di bugigattoli oscuri chiusi all'esterno con
catenacci. In quelle celle buie e fredde non vi erano né letto, né
tavola, né seggiola, sicché il prigioniero doveva sedere o sdraiarsi
sul pavimento sudicio, dove una gran quantità di topi gli correva addosso
da tutte le parti, e con tanta audacia, che in quel buio non gli riusciva nemmeno
di salvare il pane. Portavano via il pane di mano, e se uno cessava di muoversi,
eran anche capaci di assalirlo.
Vassìliev dichiarò che siccome non era colpevole non sarebbe andato
nella cella di rigore. Vi fu trascinato. Tentò di liberarsi dai carcerieri
e due detenuti gli dettero man forte. Accorsero altri carcerieri fra i quali
un certo Petròv, famoso per i suoi muscoli. I detenuti furono sopraffatti
e gettati nelle celle di rigore.
Il governatore, immediatamente informato che nel carcere c'era stata una specie
di sommossa, mandò l'ordine scritto di infliggere ai due principali colpevoli
trenta colpi di verga per ciascuno.
La punizione doveva aver luogo nel parlatorio delle donne.
Già dalla sera innanzi tutto il carcere conosceva la notizia. Nelle camerate
si faceva un gran discorrere della prossima punizione.
La Korabliòva, la "Corosciavka", Fedossia e la Màslova
sedevano nel loro cantuccio; bevevano il tè e discorrevano, tutte rosse
ed eccitate per la vodca, che ora alla Màslova non mancava mai e che
essa offriva generosamente alle compagne.
- Non l'ha mica fatto per prepotenza, - diceva la Korabliòva a proposito
di Vassìliev, mordendo pezzettini di una zolletta di zucchero coi suoi
denti forti. - Ha preso solo le parti di un compagno. Perché oggidì
non è più permesso di picchiare.
- E' un bravo ragazzo, dicono, - soggiunse Fedossia che a testa scoperta, le
lunghe trecce giù per le spalle, sedeva sopra un ceppo davanti al tavolaccio
dove era appoggiata la teiera.
- Ecco una cosa da dire a lui, Micàilovna, - si rivolse la cantoniera
alla Màslova alludendo con quel lui a Necliudov.
- Glielo dirò. Per me farebbe qualunque cosa, - rispose la Màslova
sorridendo e dondolando la testa.
- Ma chissà quando verrà... e loro, intanto, dicono che sono già
andati a prenderli, - osservò Fedossia. - Che pena! - soggiunse sospirando.
- Ho ben visto io fustigare un contadino al mio paese. Mio suocero mi aveva
mandato dal sindaco. Io ci andai e che cosa vidi? Lui che... - e la cantoniera
cominciò una lunga storia.
Il suo racconto fu interrotto da un rumore di voci e di passi nel corridoio
soprastante.
Le donne tacquero ascoltando.
- Lo portano già dabbasso, quei demoni! - disse la "Corosciavka".
- Adesso chissà quante gliene daranno. Tutti i carcerieri l'han sù
con lui a morte, perché non gliene lascia passare una.
In alto ritornò il silenzio. La cantoniera finì di raccontare
la sua storia: come s'era spaventata quando nella rimessa del Comune aveva visto
fustigare un contadino e s'era sentita rimescolare le viscere. La "Corosciavka"
a sua volta raccontò come avevano fustigato S'ceglòv e lui non
aveva neppure fiatato. Poi Fedossia ripose la teiera e le tazze; la Korabliava
e la cantoniera si misero a cucire e la Màslova sedette sulla cuccetta
con le ginocchia fra le mani. S'annoiava a morte... Voleva stendersi per dormire,
quando la carceriera le gridò che andasse in ufficio: l'aspettava una
visita.
- Non dimenticarti di noi, - le disse la vecchia Mensciòva, mentre la
Màslova si accomodava il fazzoletto davanti a uno specchio mezzo scrostato:
- l'incendio non l'abbiamo appiccato noi; è stato lui, quel furfante.
Anche il garzone l'ha visto! Le anime non le può uccidere. Digli che
faccia chiamare Dmitri, lui gli spiegherà tutto per bene. Ma che razza
di sistemi! Noi, che non ne sappiamo un'acca, ci han chiusi sotto chiave, e
intanto lui, quel mascalzone, se ne sta nella sua bettola a spassarsela con
la donna di un altro.
- Questo non è giusto, - affermò la Korabliòva.
- Lo dirò, lo dirò senz'altro, - rispose la Màslova. -
Qua un altro goccio per farmi coraggio, - soggiunse strizzando l'occhio. La
Korabliòva le riempì mezza tazza di vodca. La Màslova bevette,
s'asciugò la bocca e, di ottimo umore, ripetendo le parole: "per
farmi coraggio", scuotendo la testa e sorridendo, seguì la carceriera
nel corridoio.
47.
Già da un pezzo Necliudov aspettava nell'ingresso. Giunto al carcere
aveva suonato alla porta e aveva consegnato al guardiano di giornata il permesso
del procuratore.
- Che volete?
- Voglio vedere la detenuta Màslova.
- Adesso è impossibile: il direttore è occupato.
- E' in ufficio? - domandò Necliudov.
- No, qui in parlatorio, - rispose l'altro un po' impacciato, o così
parve a Necliudov.
- E' forse giorno di visita?
- No, è una questione interna, - quello rispose.
- Come potrei vederlo?
- Aspettate che esca; allora gli parlerete.
In quel momento comparve da una porta laterale un sergente maggiore coi galloni
luccicanti, la faccia splendente e lustra, i baffi impregnati di fumo di tabacco,
e si rivolse severamente al guardiano:
- Perché lo avete fatto entrare qui? In direzione...
- Mi hanno detto che il direttore era qui, - rispose Necliudov, meravigliandosi
dell'imbarazzo che traspariva anche dai modi del sergente.
In quel momento la porta interna si aprì e ne uscì Petròv,
tutto sudato e accaldato.
- Se ne ricorderà, - esclamò rivolto al sergente. Costui accennò
con lo sguardo a Necliudov. L'altro tacque, aggrottò la fronte e uscì
dalla porta di fondo.
"CHI, se ne ricorderà? Perché son tutti così imbarazzati?
Perché il sergente gli ha fatto quel segno?", pensava Necliudov.
- Qui non si può stare; favorite in direzione, - ripeté il sergente
a Necliudov, e questi stava già per andarsene quando dalla porta di fondo
entrò il direttore ancor più confuso dei suoi subordinati. Continuava
a sospirare. Alla vista di Necliudov si rivolse al guardiano.
- Fedotov, la Màslova del quinto donne in direzione, - disse. - Accomodatevi,
- si rivolse a Necliudov.
Salirono una scala ripida ed entrarono in una stanza piccolissima, con una finestra,
una scrivania e qualche seggiola. Il direttore si sedette. - Che mestiere ingrato!
ingrato davvero... - disse rivolgendosi a Necliudov e tirando fuori una grossa
sigaretta.
- Avete un'aria stanca, - disse Necliudov.
- Stanco di tutto quel che devo fare... è un mestiere duro. Si vorrebbe
alleviare la loro sorte e si fa peggio; non ho altro in mente che di andarmene.
Che mestiere!
Necliudov non sapeva quali fossero di preciso le difficoltà in cui si
dibatteva il direttore, ma lo vedeva in uno stato tale di scoramento e di desolazione
che ne provò pietà.
- Sì, lo credo che sia un mestiere ingrato, - egli disse. - Perché
lo fate?
- Non ho mezzi, la famiglia...
- Ma se vi è tanto duro...
- Be' nonostante tutto, vi dirò che, per quanto mi è possibile,
cerco di far del bene, di mitigare, se appena posso. Chiunque altro al mio posto
si comporterebbe ben diversamente. Si fa presto a dire... Più di duemila
persone, e che razza di persone! Bisogna sapere come prenderle. Anche loro sono
esseri umani, ti fanno pietà. Ma è un errore anche lasciar correre.
E incominciò a raccontare di una rissa avvenuta di recente fra i detenuti
e finita con un omicidio. Il racconto fu interrotto dall'ingresso della Màslova,
preceduta dal carceriere.
Necliudov la scorse sulla soglia dell'uscio, prima che lei notasse la presenza
del direttore. Aveva la faccia rossa. Camminava lesta dietro al carceriere e
continuava a sorridere tentennando il capo. Visto il direttore, lo fissò
spaventata, ma si riprese subito e vispa e allegra si rivolse a Necliudov.
- Buongiorno, - disse sorridendo con voce strascicata, e questa volta gli strinse
forte la mano.
- Vi ho portato il ricorso da firmare, - disse Necliudov, un po' sorpreso dall'aria
spigliata con cui l'aveva accolto. - L'avvocato ha steso il ricorso: bisogna
firmarlo e poi lo spediremo a Pietroburgo.
- Perché no, si può anche firmarlo. Tutto si può, - essa
disse, strizzando un occhio e sorridendo.
Necliudov levò dalla tasca un foglio piegato e s'avvicinò alla
tavola.
- Si può qui? - domandò Necliudov al direttore.
- Vieni qua, siediti, - disse il direttore: - eccoti la penna. Sai scrivere?
- Una volta ero capace, - essa rispose.
Con un sorriso s'accomodò la gonna e le maniche della camicetta, sedette
alla tavola, prese goffamente la penna con la mano piccola ed energica, poi
scoppiando a ridere guardò Necliudov.
Egli le indicò dove doveva scrivere e che cosa. Lei intinse con cura
la penna e la scosse leggermente; poi scrisse il proprio nome.
- Basta così? - domandò guardando ora Necliudov ora il direttore,
incerta se posare la penna sul calamaio o sul foglio.
- Devo dirvi qualcosa, - disse Necliudov, e le tolse la penna di mano.
-Va bene... ditela; - rispose lei e si fece seria come se fosse stata colta
da un pensiero improvviso o da un colpo di sonno. Il direttore si alzò
e uscì. Necliudov rimase solo con lei.
48.
Il carceriere che aveva accompagnato la Màslova si sedette sul davanzale
della finestra, lontano dalla tavola.
Per Necliudov era arrivato il momento fatale. Egli continuava a rimproverarsi
di non averle detto fin dal primo colloquio la cosa più importante, cioè
la sua intenzione di sposarla, ed ora s'era imposto di parlargliene.
Essa sedeva da una parte della tavola, Necliudov si sedette di fronte a lei.
La camera era chiara e per la prima volta Necliudov poteva vederla in faccia
distintamente e da vicino: notava le rughe intorno agli occhi e alla bocca,
il gonfiore delle palpebre. E la pena che provava per lei si ravvivò
ancor di più.
Puntando i gomiti sul tavolo in modo da non essere udito dal carceriere - un
tipo d'ebreo con le fedine brizzolate - disse:
- Se il ricorso non riesce, inoltreremo un'istanza all'imperatore. Faremo tutto
ciò che sarà possibile.
- Se si fosse fatto prima! con un buon avvocato...
Essa l'interruppe. - Quel mio difensore invece era proprio uno stupidello. Sapeva
soltanto farmi dei complimenti..., - disse ridendo. - Se avessero saputo allora
che mi conoscevate, le cose sarebbero andate diversamente. E invece così...
una ladra, pensano tutti.
"Com'è strana, oggi", pensò Necliudov e stava per riprendere
il discorso quando lei lo interruppe di nuovo.
- Ecco quel che vorrei dirvi. Da noi c'è una vecchietta. Tutti, sapete,
se ne meravigliano persino. Una vecchietta straordinaria! L'han messa dentro
e non ha fatto niente; tanto lei che il figlio, e tutti sanno che sono innocenti.
Li accusano di aver appiccato un incendio e così son dentro. Lei, sapete,
ha sentito che vi conosco, - disse la Màslova girando la testa e guardandolo;
- e mi ha detto: "Digli che provi a far chiamare mio figlio, lui gli racconterà
tutto". Si chiamano Mensciav. Lo farete, non è vero? E' una vecchietta
talmente straordinaria, se sapeste... si vede subito che non è colpevole.
Provate, caro, ad interessarvene! - disse guardandolo, poi abbassò gli
occhi e sorrise.
- Va bene, m'informerò... - rispose Necliudov, sempre più sorpreso
di vederla così disinvolta. - Ma ora vorrei parlarvi un po' di me. Ricordate
quel che vi dissi l'altra volta? - le domandò.
- Ne avete dette tante di cose... Che avete detto l'altra volta? - essa disse,
continuando a sorridere e volgendo la testa ora da una parte ora dall'altra.
- Vi ho detto che ero venuto a chiedervi perdono! - egli rispose.
- Ma che cos'è questo perdonare, e perdonare... non serve a niente...
è meglio che voi...
- Voglio rimediare al male commesso, - Necliudov proseguì, - coi fatti,
non con le parole. Ho deciso di sposarvi...
Il viso di lei assunse ad un tratto un'espressione di spavento. I suoi occhi
strabici, fermi su di lui, lo guardavano senza vederlo.
- E che c'entra, ora, questo? - pronunciò con cipiglio cattivo.
- Sento che davanti a Dio ho il dovere di farlo.
- Ma che Dio mi andate a tirar fuori? Continuate a dire delle cose che non c'entrano.
Dio? che Dio? Allora dovevate ricordarvi di Dio... - disse, e si fermò
di botto con la bocca aperta.
Necliudov solo allora sentì che il suo alito mandava un forte odor di
vodca e comprese il perché della sua animazione.
- Calmatevi, - le disse.
- Non ho niente da calmarmi! pensi che sia ubriaca? Anche se lo sono, so quello
che dico! - mormorò in fretta e si fece di fiamma. - Io sono una donna
da galera, una prostituta, voi un signore, un principe... non è il caso
che tu ti venga ad insudiciare con me. Vattene dalle tue principesse, il mio
prezzo è un biglietto rosso.
- Per quanto dure siano le tue parole, non potranno mai esprimere quel che sento
io, - disse piano Necliudov, tremando come una foglia, - non puoi immaginarti
fino a che punto io mi sento colpevole verso di te!
- Mi sento colpevole... - lo contraffece lei maligna. - Allora no, non ti sentivi
colpevole, quando mi hai rifilato i cento rubli. Ecco, il tuo prezzo...
- Lo so, lo so, ma che farci adesso? - esclamò Necliudov. - Adesso ho
deciso di non abbandonarti: e farò come ho detto.
- E io ti dico che non lo farai! - essa esclamò e rise forte.
- Katiuscia! - egli cominciò, cercandole la mano.
- Vattene da me! Io sono una forzata, tu un principe... non è questo
il tuo posto, - gridò sconvolta dall'ira, strappando via la mano. - Vuoi
redimerti a mie spese, - proseguì, affrettandosi a dir tutto ciò
che le tumultuava nell'anima - ti sei valso di me per godertela in questa vita,
e di me ti vuoi adesso servire per salvarti in quell'altra! Ti detesto, detesto
i tuoi occhiali, tutto il tuo muso grasso e sozzo. Va via, va via! - gridò,
balzando in piedi con uno scatto impetuoso.
Il guardiano si avvicinò.
- Che scene stai facendo? E' questo il modo...
- Lasciatela, per piacere, - disse Necliudov.
- Che non si lasci andare, - minacciò il guardiano.
- No, aspettate per favore, - pregò Necliudov.
Il guardiano riprese il suo posto alla finestra. La Màslova tornò
a sedersi. Teneva gli occhi bassi e stringeva forte le piccole mani con le nocche
intrecciate.
Necliudov, in piedi davanti a lei, non sapeva che fare.
- Tu non mi credi, - le disse.
- Che vogliate sposarmi... non sarà mai. Piuttosto m'impicco. Ecco la
mia risposta.
- Ma io continuerò ad aiutarti.
- Be', questo è affar vostro. Basta che sappiate che io non ho bisogno
di voi. Questo ve lo dico sinceramente, - disse. - Ma perché non son
morta allora! - soggiunse e pianse d'un pianto sconsolato.
Necliudov non poteva parlare. Le lacrime di lei si comunicavano a lui. Essa
alzò gli occhi, lo guardò come stupita, e con una cocca del fazzoletto
cominciò ad asciugarsi le lacrime che le rigavano le gote.
Il carceriere si avvicinò di nuovo e annunciò che il colloquio
era finito. La Màslova s'alzò.
- Ora siete agitata. Se me lo permetteranno, ritornerò domani. Intanto
pensateci, - disse Necliudov.
Lei non rispose e non lo guardò. Uscì dietro il guardiano.
- Be', ragazza mia, adesso ti andrà bene, - disse la Korabliòva
alla Màslova, quando questa rientrò nella camerata. - Si vede
che s'è preso una bella cotta; tientelo stretto, finché viene.
Ti farà uscire. Ai ricchi tutto è possibile. - Questo è
proprio vero! - esclamò la cantoniera con voce cantante. - Se un povero
si vuol sposare, anche la notte è corta per pensarci su, ma il ricco,
detto, fatto... Quel che desidera si avvererà. Da noi, tesoro, un signore
di riguardo, sapete che ha fatto?
- E allora della mia faccenda gli hai parlato? - domandò la vecchia.
La Màslova non rispose a nessuno. Si stese sulla cuccetta e vi rimase
fino a sera con lo sguardo strabico fisso in un punto. In lei si svolgeva un
lavorio tormentoso. Ciò che Necliudov le aveva detto, la riportava in
quel mondo in cui aveva sofferto e dal quale era uscita. Non l'aveva capito
quel mondo, e l'aveva odiato. Ora squarciato il velo dell'oblio in cui s'era
avvolta, il pensiero di ciò che era stato la faceva troppo soffrire.
Quella sera si comprò dell'altra acquavite e s'ubriacò con le
compagne.
49,
"Già. E' proprio così", pensava Necliudov uscendo dal
carcere. Soltanto ora capiva pienamente la gravità della sua colpa. Se
non avesse cercato di rimediare, di espiare il male commesso, non ne avrebbe
mai misurato la profondità, come lei a sua volta non si sarebbe mai resa
conto del torto ricevuto. Soltanto ora ogni cosa era venuta a galla, in tutto
il suo orrore. Soltanto ora egli vedeva che cosa aveva fatto dell'anima di quella
donna, ed essa vedeva e capiva che cosa s'era fatto di lei.
Prima Necliudov si trastullava col suo sentimento, si compiaceva di se stesso
e del suo desiderio di espiazione. Ma ora provava un vero sgomento. Sentiva
che non avrebbe più potuto lasciarla; e nello stesso tempo non riusciva
ad immaginarsi quale esito avrebbero avuto i loro nuovi rapporti.
All'uscita dalla prigione, si avvicinò a Necliudov un carceriere decorato
di croci e di medaglie e con una faccia antipatica e ipocrita gli consegnò
un biglietto di soppiatto.
- E' per Vostra Eccellenza, da parte di una certa persona... - disse porgendo
a Necliudov una busta.
- Che persona?
- Leggete e vedrete. Una detenuta, una politica... Io sono in quel reparto.
Perciò lei mi ha pregato... E benché non sia permesso, ma per
umanità... - disse il guardiano ipocritamente.
Necliudov era un po' stupito che il carceriere addetto ai politici consegnasse
dei messaggi addirittura nella prigione e quasi in vista di tutti; non sapeva
ancora che costui, oltre che da carceriere, faceva anche la spia. Prese il biglietto
e mentre usciva dalla prigione, lo lesse. Era scritto a matita, con carattere
fermo e ortografia d'avanguardia, e diceva:
"Sapendo che frequentate il carcere e vi interessate a una detenuta della
sezione criminale, avrei piacere di parlarvi. Chiedete un colloquio con me.
Ve lo concederanno. Vi dirò molte cose importanti per la vostra protetta,
e per il nostro gruppo. Vostra riconoscentissima - Viera Bogoducavskaia".
Viera Bogoducavskaia era maestra in un villaggio remoto della provincia di Navgorod,
quando Necliudov s'era recato in quel villaggio con alcuni compagni per una
caccia all'orso. Essa s'era rivolta a Necliudov chiedendogli del denaro che
le consentisse di andare all'università. Necliudov aveva esaudito la
sua richiesta e s'era poi dimenticato di lei.
E ora risultava che questa persona era una detenuta politica, e si trovava nella
prigione! Probabilmente era venuta a conoscere la sua storia e perciò
gli offriva i suoi servigi.
Come tutto era facile e semplice, prima! E adesso, invece, difficile e complicato.
Necliudov rievocò lucidamente e con un senso di piacere il giorno lontano
in cui aveva conosciuto la Bogoducavskaia. Era stato prima del carnevale, in
un villaggio sperduto a sessanta verste dalla ferrovia. Una caccia fortunata:
due orsi uccisi. Avevano finito di pranzare e si disponevano a ripartire, quando
il padrone dell'izba che li ospitava era venuto a dire che la figlia del sagrestano
desiderava parlare al principe Necliudov.
- Carina? - qualcuno aveva domandato.
- Be', piantatela, - aveva detto Necliudov; poi, serio in viso, s'era alzato
da tavola, si era asciugato la bocca e domandandosi sorpreso che cosa mai poteva
voler da lui la figlia del sagrestano, era entrato nella capanna del padrone.
Nella stanza lo aspettava una ragazza con cappello di feltro e pelliciotto;
un tipo segaligno, dal viso magro e brutto, in cui di bello non vi erano che
gli occhi con le sopracciglie arcuate.
- Ecco, Viera Efrèmovna, parla con lui, - le aveva detto la vecchia;
- questo è il principe in persona. Io me ne vado.
- In che posso esservi utile? - aveva domandato Necliudov.
- Io... io... Vedete, voi siete ricco, spendete il denaro per delle sciocchezze...
per la caccia, lo so, - aveva cominciato la ragazza tutta confusa; - io, invece,
non desidero che una cosa: d'esser utile alla gente, ma non posso perché
sono ignorante.
I suoi occhi erano sinceri, buoni, e tutta la sua fisonomia esprimeva una risolutezza
e insieme una timidezza così commoventi che Necliudov, come a volte gli
succedeva, s'era immedesimato, l'aveva capita e aveva avuto compassione di lei.
- Che posso fare per voi?
- Sono maestra. Vorrei frequentare l'università ma non mi lasciano. Anzi,
non è che non mi lascino... soltanto, ci mancano i mezzi. Fatemi un prestito,
quando avrò finito l'università, vi salderò il mio debito.
Ho pensato: i ricchi uccidono gli orsi, fan bere i contadini... son tutte cose
brutte. Perché non dovrebbero fare anche del bene? M'occorrono solo ottanta
rubli. Ma se non volete, fa lo stesso, - aveva detto con un moto di collera.
- Al contrario, vi sono molto grato che mi offriate l'occasione... Ve li porto
subito, - aveva risposto Necliudov .
Fuori dall'izba, aveva trovato uno dei suoi amici che era stato ad ascoltare
la loro conversazione. Senza rispondere agli scherzi dei compagni, aveva preso
il denaro dalla borsa da viaggio e glielo aveva portato. - Vi prego, vi prego...
non ringraziatemi. Io, piuttosto, devo ringraziare voi...
A Necliudov faceva ora piacere rievocare tutti quei ricordi: come per un filo
non s'era bisticciato con un ufficiale che voleva volgere la cosa in uno scherzo
di cattivo genere; come era stato difeso da un altro compagno che da quel giorno
gli era diventato assai più caro. Ripensò alla caccia fortunata
e allegra, e al senso di euforia che aveva provato ritornando di notte alla
stazione. Le slitte a due cavalli, che procedevano silenziose in fila indiana,
al piccolo trotto; la strada stretta che correva fra i boschi di abeti ora bassi
ora alti, avvolti da falde compatte di neve. Nel buio, le sigarette accese brillavano
come fiammelle rosse diffondendo un odore piacevole.
Ossip, il guardiacaccia, passò da una slitta all'altra sprofondando nella
neve fino alle ginocchia; adattò le stanghe e raccontò degli alci,
che in questa stagione vagano nella neve fonda e rodono la scorza dei pioppi
tremuli. Raccontò anche degli orsi, in letargo nelle loro tane profonde,
che soffiano coll'alito caldo attraverso gli spiragli.
Necliudov ricordò ogni cosa, ma soprattutto la sensazione beata del sentirsi
sano, forte e spensierato. I polmoni, tendendo il pelliciotto, respirano l'aria
gelata; sulla faccia, spruzzi di neve che il giogo arcuato della slitta scuote
dai rami; il corpo è caldo, il viso fresco, l'anima sgombra di pensieri,
di rimorsi, di paure, di desideri... Com'era bello! E adesso? Mio Dio, com'era
tutto penoso e difficile...
Di certo Viera Efrèmovna era una rivoluzionaria e l'avevano messa in
prigione per la sua attività politica. Bisognava vederla, soprattutto
perché poteva indicare il modo di giovare alla Màslova.
50.
Il mattino seguente quando si svegliò, Necliudov ricordò gli avvenimenti
della vigilia ed ebbe paura.
Ma, nonostante lo sgomento, era più che mai deciso a proseguire l'opera
iniziata.
Cosciente di questo suo dovere, uscì di casa per recarsi da Màsliennikov:
voleva chiedergli il permesso di parlare nella prigione, non solo con la Màslova,
ma anche con la vecchia Mensciòva e col figlio, dei quali la Màslova
l'aveva pregato di occuparsi. E poi avrebbe anche cercato di ottenere un colloquio
con la Bogoducavskaia, che poteva essere utile alla Màslova.
Necliudov conosceva Màsliennikov da un pezzo, fin dai tempi del reggimento;
Màsliennikov, allora, ne era il tesoriere. Era un ufficiale d'indole
assai bonaria e ossequiente alla legge, per il quale non esistevano che il reggimento
e la famiglia imperiale. Ora Necliudov lo ritrovava amministratore nel governatorato
di provincia; aveva infatti sposato una donna ricca e decisa, che l'aveva costretto
a lasciare la carriera militare per quella civile.
Essa si burlava di lui e lo accarezzava come se fosse un animale addomesticato.
L'inverno prima Necliudov era stato una sera a casa loro, ma quella coppia gli
era sembrata così poco interessante che non vi era più ritornato.
Màsliennikov s'illuminò tutto alla vista di Necliudov. Aveva la
stessa faccia grassa e rossa, la stessa corpulenza e la stessa tenuta elegantissima
di quand'era ufficiale. Allora vestiva sempre un'uniforme irreprensibile attillata
al petto e alle spalle secondo l'ultima moda, anche se si trattava dell'uniforme
di servizio. Ora portava una divisa civile dal taglio altrettanto impeccabile,
che gli fasciava il corpo ben nutrito e il petto largo. Era in bassa tenuta.
Nonostante la differenza degli anni - Màsliennikov era sulla quarantina
- si davano del tu.
- Ma bene; grazie d'esser venuto. Andiamo da mia moglie. Ho giusto dieci minuti
liberi prima di andar in seduta. Il principale è assente. Faccio io da
governatore! - disse con una compiacenza che non gli riuscì di nascondere
.
- Son qua da te per un favore.
- Di che si tratta? - domandò Màsliennikov, assumendo ad un tratto
un tono inquieto e leggermente severo, come di chi si mette in guardia.
- Nel carcere si trova una persona che mi sta molto a cuore, - alla parola carcere
la faccia di Màsliennikov si fece ancor più severa; - vorrei poterla
vedere non nel parlatorio comune, ma negli uffici e più spesso di quanto
sia consentito. Mi hanno detto che dipende da te.
- Naturalmente, "mon cher", per te sono pronto a far qualsiasi cosa,
- disse Màsliennikov posandogli tutte e due le mani sulle ginocchia,
come per attenuare la propria maestà; - questo è possibile, ma,
vedi, io sono il califfo di un'ora...
- Allora puoi darmi il permesso di vederla?
- E' una donna?
- Sì.
- Perché è stata condannata? Per avvelenamento. Ma è un
errore giudiziario.
- Già. Eccoti la vera giustizia... "Ils n'en font point d'autres"
(1), disse non si sa perché in francese. - Lo so che non sei del mio
parere ma che farci, "c'est mon opinion bien arrêtée"
(2), - soggiunse, ripetendo il giudizio che, espresso in diverse forme, da un
anno leggeva in un giornale retrogrado conservatore. - Lo so che tu sei liberale.
- Non so se sono liberale o che cos'altro, - disse sorridendo Necliudov, che
si domandava sempre con stupore come mai tutti volessero ascriverlo per forza
a qualche partito, e che c'entrasse il liberalismo col fatto di aver egli affermato
in tribunale che di fronte alla giustizia tutti gli uomini sono uguali, che
non bisogna torturare e battere nessuno, a maggior ragione chi non ha subito
condanne. - Non lo so se sono un liberale o no ma so soltanto che i tribunali
di oggi, per cattivi che siano, sono sempre meglio di quelli di una volta.
- E chi hai per avvocato?
- Fanarin.
- Ahi, Fanarin! - esclamò Màsliennikov con una smorfia. Non poteva
dimenticare che l'anno prima quel Fanarin l'aveva citato come teste in un processo,
e con la massima garbatezza l'aveva messo in ridicolo per una buona mezz'ora
davanti a tutti.
- Non ti consiglierei di avere a che fare con lui. Fanarin... est un homme taré
(3).
- Ho un altro favore da chiederti, - disse Necliudov senza rispondergli. - Molto
tempo fa ho conosciuto una ragazza... una maestra... E' una creatura che fa
molta pena. Ora si trova anche lei in prigione e vorrebbe vedermi. Puoi darmi
un permesso anche per lei?
Màsliennikov piegò leggermente la testa di fianco e ci pensò
su per un momento.
- Una politica?
- Sì, così m'han detto.
- Ecco vedi, i permessi per i politici si danno solo ai parenti, ma a te rilascerò
un lasciapassare generale. "Je sais que vous n'abuserez pas" (4).
Come si chiama la tua "protégée" (5)? Bogoducavskaia?
"Elle est jolie"? (6)
- "Hideuse" (7).
Màsliennikov scosse la testa, disapprovando; s'avvicinò alla tavola
e con piglio sicuro scrisse su un foglio intestato: "Al latore della presente,
principe Dmitri Ivànovic' Necliudov, è concesso un colloquio nella
direzione del carcere con la borghese Màslova, ivi detenuta e con l'assistente
medico Bogoducavskaia", e scritto il permesso vi pose una firma tutta svolazzante.
- Vedrai che ordine c'è là. E non è una cosa facile da
ottenere, con la prigione piena zeppa, soprattutto di gente che deve andare
ai lavori forzati! Ma io sono molto severo nella sorveglianza e questo lavoro
mi piace. Vedrai tu stesso, ci si trovan tutti molto bene e sono contenti. Basta
sapere come trattarli. Per esempio, giorni fa c'è stato un incidente...
un caso d'insubordinazione. Un altro l'avrebbe chiamata sommossa e avrebbe infierito
su quei disgraziati. Da noi invece è andato tutto benone. Da una parte
occorre zelo e sollecitudine, dall'altra fermezza e autorità, - egli
disse stringendo il pugno bianco e paffuto, ornato al dito da un turchese, e
scoprendo nel gesto il polsino candido e inamidato della camicia, chiuso da
un bottone d'oro. - Zelo e sollecitudine, fermezza e autorità...
- Be', questo non lo so, - rispose Necliudov; - ci sono andato due volte e ho
provato un gran senso di pena.
- Sai che cosa? Dovresti trovarti con la contessa Passèk, - continuò
Màsliennikov, che aveva preso l'aire, - si è data anima e corpo
a questo genere di attività. Elle fait beaucoup de bien (8) Grazie a
lei e forse anche a me, lo dico senza falsa modestia, si è riusciti a
modificare le cose in tal modo da eliminare gli orrori di una volta - tutti
i detenuti stanno benone. Vedrai. In quanto a Fanarin, io non lo conosco personalmente,
e poi, data la mia posizione sociale, le nostre strade non s'incontrano... ma
è senz'altro un uomo che non val nulla... e poi si permette di dire in
tribunale certe cose, certe cose...
- Be', ti ringrazio, - disse Necliudov prendendo il foglio, e senza più
ascoltarlo, si accomiatò dal suo ex camerata.
- E da mia moglie non passi?
- No, scusami, ora non ho tempo.
- Ma che dici, questa non me la perdonerà, - esclamò Màsliennikov,
accompagnando Necliudov fino alla prima svolta della scala, com'era solito fare
con le persone non proprio importantissime ma di secondo piano, fra le quali
includeva Necliudov. - Te ne prego, passaci almeno per un minuto...
Ma Necliudov fu irremovibile; e mentre il domestico e il portiere gli porgevano
premurosi il cappotto e la canna e gli aprivano il portone, sorvegliato all'esterno
da una guardia urbana, egli ripeté che gli era assolutamente impossibile.
- Be', allora per piacere vieni giovedì; è il suo giorno di ricevimento.
Glielo dirò! - gli gridò dietro Màsliennikov dalla scala.
NOTE.
NOTA 1: Non ne fanno altra.
NOTA 2: E' la mia opinione ben radicata.
NOTA 3: E' un uomo tarato.
NOTA 4: So che non ne abuserete.
NOTA 5: Protetta.
NOTA 6: E' bella?
NOTA 7: Orribile.
NOTA 8: Fa molta beneficenza.
51.
Uscendo dalla casa di Màsliennikov, Necliudov si fece condurre direttamente
alla prigione; e subito si avviò all'appartamento del direttore. Come
già la prima volta egli udì il suono di un pianoforte scadente;
ma invece della rapsodia, questa volta erano gli studi di Clementi, eseguiti
con grande vigoria, esattezza e agilità. La cameriera dall'occhio bendato
che gli aprì, disse che il capitano era in casa e fece accomodare Necliudov
in un salottino, il cui arredamento era costituito da un divano, una tavola
e una grande lampada col paralume di carta rosa bruciato da una parte, posata
su un centrino di lana fatto a maglia. Entrò il direttore con una faccia
affaticata e triste.
- Prego, accomodatevi, che cosa desiderate? - domandò allacciandosi il
bottone di mezzo dell'uniforme.
- Sono stato ora dal vice governatore ed ecco il permesso che mi ha rilasciato,
- rispose Necliudov porgendo il foglio. - Vorrei vedere la Màslova.
- La Màslova? - ripeté il direttore che non aveva sentito bene
a causa della musica.
- La Màslova.
- Già, già...
Il direttore s'alzò e s'avvicinò alla porta da cui si udivano
i trilli di Clementi.
- Marussia, fermati almeno un momento! - egli disse con una voce che lasciava
capire come quella musica fosse la croce della sua vita; - non si sente nulla.
Il pianoforte tacque; risuonarono dei passi riluttanti e qualcuno s'affacciò
all'uscio.
Il direttore, con un senso come di sollievo per l'interruzione della musica,
accese una grossa sigaretta di tabacco dolce e ne offrì un'altra a Necliudov.
Questi la rifiutò.
- Dunque, vorrei vedere la Màslova.
- Oggi non è il caso che la vediate, - disse il direttore.
- Perché?
- Così. La colpa è vostra, - disse il direttore con un lieve sorriso.
- Principe, non datele in mano dei soldi. Se volete, consegnateli a me. Saranno
tutti per lei. Ieri dovete avergliene dati e lei si è procurata dell'acquavite.
Impossibile eliminare questo guaio... Oggi ha preso una sbornia così
solenne, che ha dato persino in escandescenze.
- Ma davvero?
- Come no! Ho dovuto prendere misure energiche... metterla in un'altra camerata.
Di solito è una donna docile, ma per piacere non datele più soldi.
E' gente che...
Necliudov rivide chiaramente la scena del giorno prima e di nuovo si sentì
sgomento.
- E la Bogoducbvskaia, la detenuta politica, posso vederla? - domandò,
dopo una pausa.
- Quella sì, - rispose il direttore. - E tu che vuoi? - si rivolse a
una bambina di cinque o sei anni che era entrata nella stanza e con la testa
rivolta a Necliudov in modo da non abbandonarlo con gli occhi, si avvicinava
al padre.
- Bada, cascherai! - disse il direttore sorridendo nel vedere come la bambina,
che non guardava dove metteva i piedi, avesse inciampato in un tappetino, e
corresse verso di lui.
- Allora, se si può, io andrei.
- Andiamo pure, - disse il direttore, abbracciando la bambina che continuava
a guardare Necliudov, poi si alzò e scostata la piccola con un gesto
pieno di tenerezza, uscì nell'anticamera.
La ragazza con la benda sull'occhio non gli aveva ancora infilato il cappotto,
che di nuovo trillarono le note di Clementi.
- Andava al Conservatorio, ma ora ci sono dei disordini. Ha un gran talento,
- disse il direttore mentre scendeva le scale. - Vorrebbe fare la carriera concertistica.
Il direttore e Necliudov s'avviarono verso la prigione. All'avvicinarsi del
direttore il portello si aprì immediatamente. I carcerieri, con la mano
al berretto, lo seguivano con gli occhi. Nell'ingresso incontrarono quattro
uomini rapati per metà che portavano dei secchi pieni, e che, vedendolo,
si scostarono impauriti. Uno si contorse tutto e prese un'aria cupa, mandando
lampi dagli occhi neri.
- Naturalmente il talento va perfezionato, non bisogna soffocarlo... ma in un
piccolo appartamento, sapete, a volte è pesante... - continuò
il direttore senza prestare la minima attenzione a quei detenuti, e, trascinando
le gambe stanche, entrò con Necliudov nella stanza delle riunioni.
- Chi desiderate vedere? - domandò il direttore.
- La Bogoducavskaia.
- E' nel reparto della torre. Vi toccherà aspettare, - si rivolse a Necliudov.
- E non potrei intanto parlare col Mensciòv? Sapete, quello accusato
con la madre d'incendio doloso...
- E' nella cella 21. Perché no? si possono far chiamare.
- E non potrei invece vedere il Mensciòv nella sua cella?
- Ma qui starete più tranquillo...
- No, m'interessa.
- Bell'interesse avete scoperto!
Intanto da una porta era entrato il vice direttore, un ufficiale elegantissimo.
- Accompagnate per favore il principe dal Mensciòv. Cella 21, - disse
il direttore all'ufficiale, - e poi in direzione. Io intanto farò venire
la... come si chiama?
- Viera Bogoducòvskaia, - rispose Necliudov.
L'ufficiale era un giovane biondo, coi baffi incerati, che diffondeva intorno
a sé un profumo di acqua di Colonia ai fiori.
- Prego, - si rivolse a Necliudov con un sorriso affabile - V'interessate del
nostro stabilimento?
- Sì, e anche di quest'uomo che, come mi hanno detto, è capitato
qua senza nessuna colpa.
L'ufficiale alzò le spalle.
- Sì, qualche volta capita, - disse con calma, dando cortesemente il
passo all'ospite in un corridoio largo e puzzolente. - Ma capita anche che non
dicano la verità. Prego!
Le porte delle camerate erano aperte e parecchi detenuti si trovavano nel corridoio.
Rispondendo con un cenno lievissimo al saluto dei carcerieri, l'ufficiale guardava
di traverso i detenuti, che strisciando lungo le pareti si affrettavano a rientrare
nelle camerate, o si fermavano sulla soglia delle porte, mettendosi sull'attenti
e accompagnando con lo sguardo il superiore, come soldati. L'ufficiale fece
percorrere a Necliudov tutto il corridoio poi, attraverso una porta di ferro
che lo sbarrava, lo introdusse in un altro corridoio, a sinistra. Questo secondo
era ancor più buio e puzzolente del primo. Da tutte e due le parti, vi
erano porte chiuse coi catenacci, e nelle porte le cosiddette spie, piccoli
fori dal diametro di un paio di centimetri. Nel corridoio non si vedeva nessuno,
all'infuori di un vecchio carceriere dalla faccia triste e arcigna.
- In che cella si trova il Mensciòv? - domandò il vice.
- L'ottava a sinistra.
- E queste sono occupate? - domanda Necliudov.
- Tutte tranne una.
52.
- Posso dare un'occhiata?
- Prego! - disse il vice direttore con un sorriso affabile, e domandò
qualcosa al carceriere.
Necliudov guardò attraverso uno spiraglio: un giovane alto con la barbetta
nera, in camicia e mutande, camminava rapidamente avanti e indietro; sentendo
frusciare alla porta, alzò gli occhi accigliandosi, senza interrompere
il suo andirivieni.
Necliudov guardò da un'altra apertura. Il suo occhio incontrò
una pupilla grande e spaventata, che spiava all'interno del medesimo buco; egli
si affrettò ad allontanarsi.
Nella terza cella un omettino rannicchiato sul letto dormiva con la testa avvolta
nella casacca.
Nella successiva un uomo pallido, dalla faccia larga, sedeva con la testa china
sul petto, e i gomiti puntati sulle ginocchia. Al rumore dei passi rialzò
il capo e si volse a guardare. Dal suo volto, ma più ancora dagli occhi
che aveva grandi, traspariva una tristezza senza speranza. Evidentemente, non
gli interessava affatto sapere chi guardava nella sua cella: chiunque fosse,
egli non s'aspettava niente di buono da nessuno.
Necliudov provò un senso di paura. Smise di guardare e si avviò
verso il numero 21, la cella di Mensciòv. Il carceriere infilò
la chiave nella toppa e aprì. Un giovanotto muscoloso col collo lungo,
la barbetta e gli occhi tondi e buoni, in piedi accanto alla cuccetta, fissava
con la faccia impaurita quelli che entravano, mettendosi in fretta la casacca.
Necliudov fu colpito soprattutto da quegli occhi tondi e buoni che correvano
da lui al vice direttore, al carceriere, e viceversa, con espressione inquieta
e interrogativa.
- Questo signore vuol farti qualche domanda sul tuo caso.
- Lo ringrazio molto...
- Sì, mi hanno parlato di voi... - disse Necliudov, inoltrandosi nella
cella e fermandosi davanti alla finestra sporca, munita di sbarre; - ma avrei
piacere di sentire da voi stesso come è andata.
Anche Mensciòv s'avvicina alla finestra e cominciò subito a parlare,
dapprima timidamente, guardando il vice direttore, poi sempre più coraggioso.
E quando l'ufficiale uscì dalla cella per dare alcuni ordini, la sua
timidezza svanì del tutto. Aveva il linguaggio e i modi di un ragazzo
di campagna onesto e semplice, e a Necliudov sembrava assai bizzarro udire quel
racconto dalle labbra di un detenuto in cella, con l'uniforme infamante. Mentre
ascoltava, Necliudov osservava la cuccetta bassa col pagliericcio, la finestra
con le grosse sbarre di ferro, le pareti sudice, umide e unte, il viso commovente
e la figura di quel povero disgraziato contadino con la veste e i kotì
dei reclusi. Si sentiva sempre più triste, non voleva credere che quanto
gli raccontava quell'anima semplice fosse vero... Era proprio orribile che un
uomo fosse stato preso, rivestito con l'uniforme della prigione e rinchiuso
in quel luogo orrendo, senza alcun motivo, tranne che lui stesso era stato offeso...
Eppure era ancora più orribile pensare che un racconto così sincero
e bonario fosse un imbroglio o un'invenzione.
Dal racconto del giovane risultava che, immediatamente dopo il suo matrimonio,
l'oste del villaggio gli aveva portato via la moglie. Si era rivolto a tutte
le autorità per ottenere giustizia: ma l'oste aveva comprato le autorità
ed era stato assolto. Un giorno, Mensciòv s'era riportato a casa la moglie
con la forza; il giorno seguente lei gli era scappata. Allora era andato a reclamarla.
L'altro gli aveva detto che la donna non c'era - benché lui, entrando,
l'avesse vista - e gli aveva ingiunto d'andarsene. Mensciòv non s'era
mosso. L'oste con l'aiuto di un garzone l'aveva picchiato a sangue, e il giorno
dopo il cortile dell'osteria s'era incendiato. Accusarono lui e sua madre: ma
lui non era stato perché si trovava dal compare.
- Davvero non l'hai appiccato tu?
- Non ci pensavo neppure, signore. E' stato certamente lui, quel farabutto!
Dicevano che aveva appena fatta l'assicurazione. E poi hanno incolpato me e
mia madre; che eravamo andati a minacciarlo... E' vero che quella volta gliene
ho dette di tutti i colori, non ne potevo proprio più. Ma in quanto all'incendio,
quello non l'ho appiccato. E non ero sul posto quando ha cominciato a bruciare.
E' stato lui a scegliere apposta il giorno che la mamma e io eravamo andati
là. L'ha appiccato lui per riscuotere l'assicurazione, e poi la colpa
l'ha data a noi.
Possibile?
- E' la verità, signore, lo giuro davanti a Dio. Siatemi padre! - e voleva
buttarsi ai piedi di Necliudov, che faticò a trattenerlo.
- Giudicate voi. Rovinato senza aver fatto niente, - proseguì. Improvvisamente
le sue labbra tremarono; si mise a piangere e, rimboccate le maniche della casacca
s'asciugò gli occhi con un lembo della camicia sporca.
- Finito? - domandò il vice direttore.
- Sì. Non disperatevi così, faremo tutto il possibile, - disse
Necliudov, e uscì. Mensciòv stava ritto davanti alla porta, e
il carceriere, per chiudere, dovette sbattergli l'uscio in faccia. Mentre il
carceriere tirava il catenaccio Mensciòv guardava attraverso lo spioncino.
53.
Tornando indietro per l'ampio corridoio - era l'ora della refezione e le camerate
erano aperte - Necliudov, davanti a tutti quegli uomini in casacca giallastra,
pantaloni larghi e ciabatte che lo guardavano avidamente, provava una sensazione
complessa: sentiva pietà per tutti quei detenuti, orrore e perplessità
per coloro che li avevano arrestati e li tenevano in carcere, vergogna di se
stesso, giacché poteva osservare quello spettacolo tranquillamente.
In un corridoio passò di corsa un detenuto e andò a bussare con
la scarpa all'uscio di una camerata. Subito ne uscì un gruppetto di uomini
che si misero sul passaggio di Necliudov, salutandolo.
- Vi supplico, Eccellenza... non so il vostro nome... fate che si decida la
nostra sorte.
- Io non sono un superiore, non so nulla...
- Non importa, ditelo a qualcuno, alle autorità, a chi volete... - disse
una voce indignata.
- Non abbiamo commesso niente di male ed è già il secondo mese
che si vive a questo modo.
- Come? Perché? - domandò Necliudov.
- Ma così! Ci han messo in prigione. E' il secondo mese che siamo dentro
e non sappiamo il perché.
- E' vero, è stato per un caso, - disse il vice direttore: - li han presi
perché non avevano i documenti. Avremmo dovuto rimandarli nella provincia
dove risiedono, ma là le carceri sono bruciate e l'amministrazione provinciale
si è rivolta a noi perché li trattenessimo qui. Quelli delle altre
province li abbiamo rispediti tutti, questi invece dobbiamo tenerli.
- Ma come, per così poco? - domandò Necliudov fermandosi davanti
alla porta.
Una quarantina d'uomini in divisa di carcerati si affollò intorno a Necliudov
e al vice direttore. Parecchie voci parlarono contemporaneamente. L'ufficiale
li interruppe.
- Parli uno solo.
Dal gruppo si staccò un contadino alto, aitante, sulla cinquantina. Egli
spiegò a Necliudov che tutti loro erano stati arrestati e messi in prigione,
perché non avevano le carte in regola. Anzi le avevano, ma scadute da
due settimane. Ogni anno scadevano, e nessuno aveva mai detto niente; questa
volta, invece, li avevano fermati ed era ormai il secondo mese che li tenevano
in prigione come delinquenti.
- Siamo muratori, tutti della stessa squadra. Dicono che la prigione della nostra
provincia è bruciata. Ma di questo non abbiamo colpa noi. In nome di
Dio, fateci questo piacere!
Necliudov ascoltava quasi senza capire le parole del bel vecchio. La sua attenzione
era concentrata su un grossissimo pidocchio grigio scuro, che strisciava tra
i peli della guancia del bravo muratore.
- Ma come mai? Possibile per così poco? - disse Necliudov, rivolgendosi
al vice direttore.
- Già, bisognerebbe mandarli nella prigione del luogo di residenza, -
rispose l'ufficiale.
Aveva appena finito di parlare che dal gruppo si staccò un omettino,
anche egli in divisa di recluso, che torcendo la bocca in una smorfia strana
cominciò a raccontare come lì dentro li tormentassero per ogni
nonnulla.
- Peggio dei cani... - diceva.
- Be', be', adesso non parlare troppo, chiudi il becco, se no sai...
- Che devo sapere? - ribattè l'ometto esasperato. - Siam forse colpevoli?
- Silenzio! - gridò il superiore, e l'ometto tacque.
"Ma è inaudito!", diceva fra sé Necliudov, uscendo dalla
camerata, e si sentiva come staffilato da quei cento occhi che si incrociavano
e lo inseguivano oltre la soglia.
- E' possibile che si tengano in prigione anche gli innocenti? - domandò
Necliudov quando uscirono dal corridoio.
- Che vorreste fare? E inoltre, dicono un sacco di bugie. A sentir loro sono
tutti innocenti, - disse il vice direttore.
- Ma questi lo son proprio davvero!
- Per costoro ammettiamolo pure. Però è tutta gente corrotta.
Senza severità non si ottiene nulla. Ci sono dei tipi intrattabili, di
cui non ci si può assolutamente fidare. Ieri, per esempio, abbiamo dovuto
punirne due.
- Come, punirne? - s'informò Necliudov.
- Con le verghe, per ordine superiore!
- Ma se la punizione corporale è stata abolita!
- Non per i detenuti privati dei diritti civili. In questo caso si può.
Necliudov ricordò la scena del giorno avanti, mentre aspettava nell'andito,
e capì che la punizione aveva avuto luogo proprio durante la sua attesa.
Provò più intenso che mai il sentimento che aveva già provato
altre volte, mai però con tanta forza: un misto di curiosità,
di affanno, di irresolutezza e di nausea morale, una nausea che rasentava quasi
quella fisica.
Senza ascoltare il vice direttore e senza guardarsi intorno, si affrettò
ad uscire dai corridoi e si diresse verso gli uffici. Il direttore c'era, ma,
distratto da altre occupazioni, s'era scordato di far chiamare la Bogoducòvskaia.
Se ne ricordò soltanto quando vide entrare Necliudov.
- La mando subito a chiamare... e voi intanto accomodatevi, - disse.
54.
L'ufficio era composto di due camere. Nella prima, che aveva due finestre sporche
e una grossa stufa tutta scrostata, si vedeva in un angolo un'asta nera per
misurare la statura dei detenuti e in un altro angolo - attributo indispensabile
di tutti i luoghi di tortura - una grande immagine del Cristo. In questo locale
c'erano alcuni carcerieri. Lungo le pareti della camera attigua, a gruppetti
separati o a coppiette, sedevano una ventina di persone d'ambo i sessi che parlavano
a bassa voce. Davanti a una finestra c'era una scrivania. Il direttore sedette
alla scrivania e offrì a Necliudov una seggiola accanto a lui. Necliudov
sedette e si mise a osservare la gente. La sua attenzione fu attratta anzitutto
da un giovane dalla faccia simpatica, in giacchetta corta, che, ritto davanti
a una donna dalle sopracciglia nere, non più giovane, le parlava gesticolando
animatamente. Vicino sedeva un vecchio con gli occhiali turchini, intento ad
ascoltare le parole di una giovane in abito di reclusa che egli teneva per la
mano. Un ragazzo della scuola professionale guardava fissamente il vecchio con
una espressione di spavento, e non gli toglieva gli occhi di dosso. Non lontano
da loro, in un cantuccio, una coppia d'innamorati: lei coi capelli corti e un'aria
energica, bionda, graziosa, giovanissima e vestita alla moda; lui un bell'adolescente
dai lineamenti fini e i capelli ondulati, in giacca di guttaperca. Sedevano
in un cantuccio e bisbigliavano, evidentemente innamorati cotti.
La più vicina alla scrivania era una donna dai capelli grigi, vestita
di nero, certo una madre: si mangiava con gli occhi un giovane dall'aria di
tisico, anche lui con la giacca di guttaperca, e avrebbe voluto parlare, ma
le lacrime glielo impedivano; cominciava e si fermava. Il giovane teneva in
mano un foglietto e non sapendo evidentemente che contegno tenere, lo piegava
e lo sgualciva con aria irritata. Accanto a loro sedeva una bella ragazza robusta
e colorita con gli occhi sporgenti, in abito grigio e mantellina. Seduta accanto
alla donna in lacrime, le accarezzava teneramente una spalla. In quella giovinetta
tutto era bello: le mani grandi e bianche, i capelli corti, ondulati, il naso
e le labbra forti; ma l'incanto principale del suo viso consisteva negli occhi
castani un po' sporgenti, pieni di bontà e di franchezza. All'entrare
di Necliudov, i suoi begli occhi si distolsero dal volto della donna. I loro
sguardi s'incontrarono, ma subito essa si voltò verso la madre e le disse
qualcosa. Non lontano dalla coppietta innamorata, un uomo nero scarmigliato
e con la faccia cupa, parlava aspramente a un visitatore senza barba che assomigliava
a uno "skopèz".
Necliudov, seduto accanto al direttore, si guardava intorno, con intensa curiosità.
Lo distrasse un bambinetto coi capelli corti che gli si avvicinò e con
una vocina sottile gli disse:
- E voi chi aspettate?
Necliudov si stupì. Ma vista l'espressione grave e pensosa del bambino
e i suoi occhi attenti e vivaci, gli rispose seriamente che aspettava una sua
conoscenza.
- Vostra sorella?
- No, non è mia sorella, - rispose sorpreso Necliudov. - E tu con chi
sei qui? - domandò poi a sua volta.
- Con la mamma... E' una politica... - rispose il bambino.
- Mària Pàvlovna, prendete Kolia! - disse il direttore, considerando
probabilmente illegale quella conversazione tra Necliudov e il bambino.
Mària Pàvlovna, la bella ragazza dagli occhi sporgenti che aveva
attirato l'attenzione di Necliudov, si alzò in tutta la sua alta statura
e con un passo forte, lungo, quasi maschile, s'avvicinò a Necliudov e
al bambino.
- Vi sta forse domandando chi siete? - disse a Necliudov con un lieve sorriso
e guardandolo dritto negli occhi .
La semplicità del suo sguardo esprimeva chiaramente che i suoi rapporti
con chiunque sarebbero stati sempre e soltanto affettuosi e fraterni.
- Lui ha sempre bisogno di saper tutto! - essa disse, e sorrise al bambino in
un modo così buono e gentile che tutti e due, il bambino e Necliudov,
non poterono far altro che ricambiarle il sorriso.
- Sì, mi domandava per chi ero venuto.
- Mària Pàvlovna, non è permesso parlare con gli estranei...
Lo sapete anche voi! - disse il direttore.
- Va bene, va bene, - rispose lei, e presa con la sua mano lunga e bianca la
mano di Kolia che non l'abbandonava con gli occhi, ritornò dalla madre
del tisico.
- Di chi è quel bambino? - domandò Necliudov al direttore.
- Di una detenuta politica. E' nato in prigione, - rispose il direttore con
una certa compiacenza, quasi volesse far notare una rarità del suo stabilimento.
- Ma davvero?
- Sì, e ora andrà in Siberia con la madre.
- E la ragazza?
- Non posso rispondervi, - disse il direttore scrollando le spalle. - Ma ecco
la Bogoducavskaia.
55.
Dalla porta di fondo entrò con passo agile Viera Efrèmovna, piccola,
magra, gialla, coi capelli corti e gli occhi grandissimi pieni di bontà.
- Oh, grazie d'esser venuto! - disse a Necliudov stringendogli la mano.
- Vi ricordate chi sono? Sediamoci.
- Non pensavo di trovarvi in questo posto.
- Oh, ci sto benissimo... davvero. Tanto bene che non desidero niente di meglio,
- disse Viera Efrèmovna alzando su Necliudov, con la sua solita aria
spaventata, i suoi occhi immensi, tondi, pieni di bontà, e girando il
collo giallognolo, lungo e nodoso che usciva dal collettino misero, sgualcito
e sporco della camicetta.
Necliudov le domandò come mai si trovasse in quelle condizioni, ed essa
cominciò, con molta vivacità, a raccontargli le sue vicende. Il
suo discorso era farcito di parole straniere sulla propaganda, la disorganizzazione,
i gruppi, le sezioni e le sottosezioni.
Era evidentemente convinta che fossero cose risapute da tutti, mentre Necliudov
non ne aveva mai sentito parlare. Credendo di fargli piacere e d'interessarlo,
gli raccontava i segreti della lotta per la libertà, ed egli, invece,
le guardava il collo striminzito, i capelli radi e spettinati e si domandava
con stupore come mai essa avesse fatto quelle cose e le raccontasse. Provava
per lei un senso di compassione, diverso però da quello che gli aveva
ispirato il contadino Mensciòv, rinchiuso senza colpa né peccato
in una lurida prigione. Lei gli faceva pena soprattutto per il guazzabuglio
d'idee che aveva nella testa. Credeva di essere un'eroina, pronta a sacrificare
la vita per il trionfo della causa, e nello stesso tempo difficilmente sarebbe
stata in grado di spiegare in che cosa consistesse questa causa e come avrebbe
potuto trionfare.
La faccenda di cui Viera Efrèmovna voleva parlare con Necliudov riguardava
una sua compagna, una certa Sciustova. Costei, che però non apparteneva
al loro gruppo, era stata acciuffata cinque mesi prima e rinchiusa nella fortezza
di Pietropavlovsk, unicamente perché trovata in possesso di libri e di
documenti che le erano stati affidati. Viera Efrèmovna si riteneva, in
parte, responsabile dell'arresto della Sciustova e supplicava Necliudov, che
aveva molte relazioni, di far tutto il possibile per farla rimettere in libertà.
E poi voleva anche pregarlo di ottenere per un certo Gurkievic', pure lui detenuto
nella fortezza di Pietropavlovsk, un colloquio coi genitori e alcuni libri scientifici,
che gli erano indispensabili per studiare.
Necliudov promise che avrebbe cercato di fare tutto il possibile, la prima volta
che fosse andato a Pietroburgo.
Di se stessa, Viera Efrèmovna raccontò che, finita la scuola di
levatrice, s'era iscritta al partito dei populisti (1), e aveva lavorato con
loro. Dapprima tutto era andato bene; si compilavano proclami, si faceva la
propaganda nelle fabbriche, ma poi avevano arrestato un esponente del partito,
sequestrato alcuni documenti compromettenti, e l'uno dopo l'altro li avevano
messi dentro tutti.
- Han preso anche me e ora mi mandano in Siberia... - così concluse la
sua storia. - Ma questo non è nulla. Mi sento egregiamente. Mi sento
come nell'Olimpo, disse, sorridendo d'un sorriso che faceva pena.
Necliudov s'informò della ragazza con gli occhi sporgenti. Viera Efrèmovna
gli spiegò che era la figlia di un generale, da molto tempo militante
nelle file del partito rivoluzionario. L'avevano messa in prigione perché
s'era addossata la colpa di aver sparato a un gendarme. Abitava in una casa
di cospiratori, nella quale c'era anche una tipografia. Una notte che la polizia
s'era presentata con un mandato di perquisizione, gli inquilini della casa,
decisi a resistere, avevano spento la luce e s'eran messi a distruggere i documenti
compromettenti. E quando la polizia riuscì ad irrompere nella casa, uno
dei cospiratori sparò una revolverata e un gendarme fu ferito a morte.
Durante l'inchiesta per scoprire chi aveva sparato il colpo, la ragazza disse
che era stata lei, quantunque non avesse mai tenuto in mano una rivoltella e
fosse incapace di far male a una mosca. La cosa era rimasta così, ed
essa ora andava in Siberia.
- Una figura bella, altruistica... - disse Viera Efrèmovna.
La terza cosa di cui voleva parlare, concerneva la Màslova. Anche lei
sapeva, come tutti, lì dentro, la storia della Màslova e i rapporti
di Necliudov con lei; gli consigliò di farle ottenere il trasferimento
nel reparto dei politici o, perlomeno, nell'infermeria dell'ospedale, dove in
quel momento c'erano molti malati e occorreva del personale in soprannumero.
Necliudov la ringraziò del consiglio e disse che avrebbe cercato di avvalersene.
NOTE.
NOTA 1: Terroristi appartenenti a movimento segreto della Naròdnaia Volia
(La libertà popolare).
56.
Il colloquio fu interrotto dal direttore che, alzatosi in piedi, annunciò
che l'ora era passata e bisognava andarsene. Necliudov s'alzò, salutò
Viera Efrèmovna e si avviò all'uscita. Ma sulla soglia della stanza
si fermò, curioso di vedere quel che avveniva là dentro.
- Signori, è l'ora, è l'ora! - diceva il direttore continuando
ad alzarsi e a sedersi.
Il richiamo del direttore aveva risvegliato in tutti i presenti, tanto nei reclusi
quanto nei visitatori, una grande animazione, ma nessuno accennava a volersene
andare. Alcuni si erano alzati e continuavano a parlare in piedi. Altri chiacchieravano
senza neppure alzarsi. Qualcuno cominciava a salutare e a piangere. Più
di tutti era commovente la madre del tisico.
Il giovane sgualciva la carta che aveva in mano con una faccia sempre più
cattiva, tanto grande era lo sforzo che faceva per non lasciarsi contagiare
dal dolore della madre. E questa, all'udire che bisognava separarsi, gli aveva
posato la testa sulla spalla e singhiozzava, tirando sù col naso. La
ragazza con gli occhi sporgenti, che involontariamente Necliudov seguiva con
lo sguardo, stava in piedi davanti alla madre disperata e le diceva qualcosa
per consolarla. Il vecchio dagli occhiali scuri, in piedi, teneva per mano sua
figlia e approvava col capo le sue parole. I due giovani innamorati s'erano
alzati e si tenevano per le mani, guardandosi negli occhi senza parlare.
- Quei due sì che son allegri, - disse, indicando la coppietta, il giovanotto
in giacchetta corta che accanto a Necliudov seguiva con lui la scena del commiato.
Sentendo sopra di sé gli sguardi di Necliudov e del suo vicino, il giovane
innamorato dalla giacchetta di guttaperca e la sua graziosa ragazza bionda,
tenendosi saldamente per le mani, si piegarono all'indietro, e, ridendo, incominciarono
a girare in tondo.
- Si sposano questa sera, qui nella prigione, e lei lo seguirà in Siberia,
- disse il giovanotto.
- Lui chi è?
- Un condannato ai lavori forzati. Che almeno loro si divertano, se no sarebbe
troppo triste! - soggiunse il giovanotto in giacchetta, mentre ascoltava i singhiozzi
della madre del tisico.
- Signori! Vi prego, per favore! Non costringetemi a prendere provvedimenti
energici, - disse il direttore, continuando a ripetersi. - Sù, dunque,
per favore! - diceva in tono fiacco e irresoluto . - Che storie sono? L'ora
è passata da un pezzo! Ma così è impossibile! Lo dico per
l'ultima volta, - ripeteva malinconicamente, accendendo e spegnendo la sua sigaretta
Maryland. Si capiva che per quanto speciosi, vecchi e abituali siano gli argomenti
di cui certi uomini si valgono per tormentarne altri, senza per questo sentirsi
responsabili, il direttore non poteva far a meno di considerare se stesso uno
degli artefici dell'angoscia che regnava in quella stanza. E si capiva che ciò
gli pesava moltissimo.
Alla fine i reclusi e i visitatori cominciarono a separarsi, dirigendosi gli
uni verso la porta interna, gli altri verso quella d'uscita.
Passarono gli uomini in giacca di guttaperca, il tisico e l'uomo nero scarmigliato;
scomparve anche Mària Pàvlovna col bambino che era nato in carcere.
Poi passarono i visitatori. Camminando pesantemente, se ne andò il vecchio
dagli occhiali scuri e dietro a lui anche Necliudov.
- Sicuro... strani sistemi, - disse, come riprendendo il discorso interrotto,
il giovane loquace, mentre scendeva le scale con Necliudov. - Per fortuna che
il capitano è un buon uomo, non si attiene al regolamento. Riescono a
vuotare il sacco, si alleggeriscono l'anima...
Quando Necliudov, chiacchierando con Medinzev - così s'era presentato
il giovane loquace - giunse nell'andito, gli si avvicinò il direttore
con una faccia molto stanca.
- Allora, se volete vedere la Màslova, venite domani.
Evidentemente ci teneva ad essere cortese con Necliudov.
- Benissimo, - questi rispose, e si affrettò ad uscire. Gli sembravano
terribili le immeritate sofferenze di Mensciòv, e non tanto quelle fisiche
quanto il dubbio e la sfiducia nel bene e in Dio che egli doveva certamente
provare vedendo con quanta crudeltà gli uomini lo tormentavano senza
alcun motivo; terribili il disonore e i tormenti inflitti a quelle decine di
disgraziati la cui unica colpa era di non aver le carte in regola; terribili
quei carcerieri ottusi, intenti a tormentare i loro fratelli e convinti di compiere
un lavoro onesto e importante. Ma più terribile ancora la figura del
buon direttore, già in età e di salute malferma, che doveva separare
la madre dal figlio, il padre dalla figlia, creature anche loro come lui e i
suoi ragazzi.
"Perché?", si domandava Necliudov, al culmine di quella sensazione
di nausea morale, assai vicina alla nausea fisica, che s'impadroniva di lui
quando visitava la prigione. Ma non trovò risposta.
57.
Il giorno seguente Necliudov si recò dall'avvocato e gli espose il caso
Mensciòv, pregandolo di assumerne la difesa. L'avvocato lo ascoltò
e rispose che avrebbe esaminato la pratica, e se le cose stavano davvero come
diceva Necliudov, il che era assai attendibile, avrebbe assunto la difesa senza
alcun compenso. Necliudov, fra l'altro, raccontò all'avvocato la storia
dei centotrenta uomini in prigione per un malinteso e gli domandò da
chi ciò dipendeva e di chi era la colpa. L'avvocato taceva, volendo evidentemente
dare una risposta precisa.
- Di chi è la colpa? Di nessuno, - disse risoluto. - Se lo domandate
al procuratore, vi dirà che è del governatore, se lo chiedete
al governatore, vi dirà che è del procuratore. La colpa! non è
di nessuno.
- Vado subito a parlarne a Màsliennikov.
- Ma no, è perfettamente inutile, - obiettò sorridendo l'avvocato.
- E' un tale... non vi è parente né amico, nevvero? - un tale,
se mi passate il termine, un tale tanghero e nello stesso tempo una tale canaglia...
Necliudov, ricordando quel che Màsliennikov gli aveva detto dell'avvocato,
non rispose nulla; salutò Fanarin e si fece condurre da Màsliennikov.
A Màsliennikov doveva chiedere due cose: la prima riguardava il trasferimento
della Màslova all'infermeria, e la seconda, i centotrenta operai trattenuti
in carcere senza motivo.
Per quanto gli pesasse di dover chiedere un piacere a una persona che non stimava,
era l'unico modo di raggiungere lo scopo e bisognava servirsene.
Avvicinandosi alla casa di Màsliennikov, Necliudov vide davanti all'ingresso
alcuni equipaggi - calessi, landò e carrozze - e si ricordò che
quello era giusto il giorno di ricevimento della moglie di Màsliennikov:
ricevimento al quale era stato pregato di intervenire. Quando vi giunse, davanti
al portone s'era fermata una carrozza, e un domestico, con la mantellina e una
coccarda sul cappello, faceva salire i gradini dell'ingresso a una signora che
sollevava lo strascico, scoprendo le esili caviglie velate di nero e un paio
di scarpette. Fra gli equipaggi egli riconobbe il landò chiuso dei Korciaghin.
Il cocchiere rubicondo e canuto si tolse il cappello con la deferenza dovuta
a un signore che conosceva particolarmente bene. Necliudov non fece in tempo
a domandare al portiere se Micail Ivànovic' - era il nome di Màsliennikov
- era in casa, che questi comparve sulla scala ricoperta di tappeti, accompagnando
un ospite di molto riguardo, uno di quelli che egli era solito accompagnare
non solo fino al primo pianerottolo ma proprio fino ai piedi della scala. Questo
personaggio ragguardevole, un alto funzionario dell'esercito, parlava in francese
di una lotteria pro asili che si era organizzata in città, e la definiva
un'occupazione ottima per le signore: - Si divertono e intanto raccolgono quattrini!
"Qu'elles s'amusent et que le bon Dieu les bénisse" (1)...
Ah, Necliudov, buongiorno! Come mai da un pezzo non vi si vede? "Allez
présenter vos devoirs a Madame" (2). Ci sono anche i Korciaghin.
E Nadine Bukshevden. "Toutes les jolies femmes de la ville" (3), -
egli disse ergendo le spalle militaresche, mentre infilava il cappotto che il
suo splendido domestico tutto gallonato d'oro gli porgeva. - "Au revoir,
mon cheri". - Strinse ancora la mano a Màsliennikov.
- Bene, andiamo di sopra, come sono contento! - esclamò Màsliennikov
eccitato, afferrando Necliudov sotto il braccio e trascinandolo su in fretta,
nonostante la sua pinguedine. Màsliennikov era in uno stato di felice
esaltazione per la cortesia che il personaggio illustre gli aveva usato. Ogni
attenzione di questo genere suscitava in lui un entusiasmo simile a quello di
un cagnolino affettuoso quando il padrone lo accarezza, gli dà qualche
colpetto, lo gratta dietro le orecchie: il cagnolino dimena la coda, si accuccia,
striscia, abbassa le orecchie e corre intorno freneticamente. Altrettanto era
pronto a fare Màsliennikov. Non notava l'espressione seria del viso di
Necliudov, non ascoltava le sue parole e lo trascinava energicamente verso il
salotto. Impossibile resistergli, e Necliudov dovette seguirlo.
- Gli affari dopo. Ti prometto di fare tutto quello che vorrai, - diceva Màsliennikov
a Necliudov attraversando la sala. - Avvertite la generalessa che c'è
il principe, - disse, passando, ad un domestico.
Costui a passi veloci li raggiunse e li superò.
- "Vous n'avez qu'a ordonner" (4)... Ma mia moglie bisogna assolutamente
che tu la veda. Ho già avuto il fatto mio, per non averti portato l'altra
volta.
Quand'essi entrarono, il lacché l'aveva già annunciato. Anna Ignàtievna,
la vice governatrice o la generalessa, come lei amava farsi chiamare, salutò
Necliudov con un sorriso smagliante, da dietro i cappelli e le teste della gente
che attorniava il suo divano. Dalla parte opposta della sala, alcune signore
sedevano alla tavola del tè, circondate da un gruppo di ufficiali e di
funzionari in piedi, e il suono delle loro voci si confondeva in un brusio incessante.
- "Enfin"! Ma non ne volete sapere di noi? In che cosa vi abbiamo
offeso?
Con queste parole, che lasciavano supporre fra lei e Necliudov una intimità
non mai esistita, Anna Ignàtievna accolse il nuovo venuto.
- Vi conoscete? Madame Bieliàvskaia, Micaìl Ivànovic' Cernòv...
Sedetevi più vicino.
- Missy, "venez donc à notre table. On vous apportera votre thé"
(5) ... E voi... - si rivolse all'ufficiale che parlava con Missy, di cui evidentemente
aveva dimenticato il nome, - venite qua per favore. Principe, volete il tè?
- No, non sono assolutamente del vostro parere, lei semplicemente non lo amava...
- diceva una voce femminile.
- Ma amava i pasticcini.
- I soliti scherzi sciocchi, - interloquì ridendo un'altra signora col
cappello alto, tutta risplendente di sete, ori e pietre preziose.
- "C'est excellent" questi biscottini... e leggeri. Datemene ancora.
- E allora, partite presto?
- Oggi è ormai l'ultimo giorno. Per questo siamo venute.
- Che primavera incantevole! Si sta così bene, ora, in campagna...
Missy, in cappello e con un abito scuro a righe che fasciava a pennello la sua
figura sottile, come se fosse nata in quel vestito, era molto bella.
Arrossì, vedendo Necliudov.
- Pensavo che foste partito! - gli disse.
- Quasi partito, - rispose Necliudov. - Mi trattengono gli affari. Anche qui
sono venuto per affari.
- Andate a trovare la mamma. Ha molta voglia di vedervi... - Sentì di
mentire e indovinando che Necliudov capiva la bugia, arrossì ancor di
più.
- Non credo di averne il tempo, - rispose cupo Necliudov, fingendo di non accorgersi
del suo rossore.
Missy, stizzita, aggrottò le sopracciglia, scrollò le spalle e
si rivolse all'elegante ufficiale che le prese la tazza vuota e, inciampando
con la sciabola nelle poltrone, la portò valorosamente sopra un'altra
tavola.
- Anche voi dovete sacrificarvi per l'asilo.
- Non ho la minima intenzione di rifiutare, ma ci tengo a conservare tutta la
mia generosità per la lotteria. Lì mi mostrerò in tutta
la mia grandezza.
- Be', state attento... - si udì una voce che rideva con palese ipocrisia.
Il giorno di Anna Ignàtievna era brillantissimo e la padrona di casa
al colmo della felicità.
- Mika mi ha detto che vi interessate alle prigioni. Vi capisco benissimo, -
essa disse a Necliudov. - Mika - cioè Màsliennikov, il suo grosso
marito - potrà avere un mucchio di difetti, ma lo sapete bene com'è.
Tutti quei disgraziati son come figli suoi. Non li considera che così.
"Il est d'une bonté"...
S'interruppe non trovando la parola adatta per esprimere la "bonté"
di quel suo marito, per ordine del quale si fustigava la gente... E ad un tratto,
sorridendo, si volse verso una vecchia rugosa con nastri lilla che entrava in
quel momento.
Dopo aver fatto qualche chiacchiera superficiale, come volevano le convenienze,
Necliudov s'alzò e s'avvicinò a Màsliennikov.
- Allora, per favore, mi puoi ascoltare?
- Ah, sì! Be', che c'è? Andiamo di qua.
Entrarono in un piccolo gabinetto giapponese e sedettero vicino alla finestra.
NOTE.
NOTA 1: Si divertano e il buon Dio li benedica.
NOTA 2: Andate a presentare i vostri omaggi alla Signora.
NOTA 3: Tutte le belle donne della città.
NOTA 4: Avete solo da comandare.
NOTA 5: Missy, venite alla nostra tavola: vi serviranno il tè.
58.
- Dunque, "je suis à vous" (1). Vuoi fumare? Però aspetta,
prima che combiniamo qualche guaio... - egli disse, e portò un posacenere.
- Dunque.
- Ho da chiederti due favori.
- Sentiamo.
La faccia di Màsliennikov si fece lunga e triste. Ogni traccia di quell'eccitazione
del cagnolino che il padrone ha grattato dietro le orecchie svanì completamente.
Dal salotto giungevano alcune voci. Una voce di donna diceva: "jamais,
jamais je ne croirai (2)", e un'altra d'uomo, all'estremità opposta,
raccontava qualcosa ripetendo sempre: "la comtesse Voronzòv"
e "Victòr Apraksin". Da un'altra parte giungevano soltanto
rumori di voci e di risa. Màsliennikov ascoltava con un orecchio quel
che avveniva nel salotto, e con l'altro Necliudov.
- Si tratta ancora della solita donna, - disse Necliudov.
- Sì, condannata ingiustamente. Lo so, lo so.
- Vorrei pregarti di farla trasferire all'infermeria dell'ospedale, come inserviente.
M'han detto che si può.
Màsliennikov strinse le labbra e rifletté.
- Non so se sarà possibile! - rispose. - Ma m'informerò e domani
ti telegraferò.
- M'han detto che ci son molti malati e che occorre altro personale.
- Ma sì; ma sì. In ogni caso ti darò una risposta.
- Te ne prego, - disse Necliudov.
Giunse dal salotto una risata generale, spontanea.
- E' certo Victòr... - disse Màsliennikov, sorridendo; - quand'è
in vena è straordinariamente spiritoso.
- E poi, - disse Necliudov - ci sono centotrenta persone in prigione soltanto
perché i loro documenti sono scaduti. E' già un mese che sono
dentro!
E spiegò il motivo per cui li tenevano in prigione.
- Come hai fatto a saperlo? - domandò Màsliennikov, e sul viso
apparve d'un tratto un'espressione inquieta e malcontenta.
- Stavo andando da un imputato sotto processo, quando questa gente mi è
venuta incontro in corridoio e mi ha pregato di...
- Da chi andavi?
- Da un contadino accusato ingiustamente, al quale ho procurato un difensore.
Ma questo non c'entra. E' possibile che persone che non hanno fatto niente di
male siano tenute in prigione soltanto perché sono scadute le loro carte,
e...
- E' una faccenda che dipende dal procuratore, - lo interruppe Màsliennikov
indispettito. - Dici bene tu: un tribunale rapido e giusto. E' compito del sostituto
procuratore visitare le carceri e informarsi se i detenuti vi sono rinchiusi
legalmente o no. Lui non fa altro che giocare al "vint" (1).
- E così tu non puoi far nulla? - disse cupo Necliudov, ricordando le
parole dell'avvocato, che il governatore avrebbe scaricato tutta la responsabilità
sul procuratore.
- No, me ne occuperò. Lo farò subito.
- Tanto peggio per lei. "C'est un souffre-douleur" (2), - giunse dal
salotto una voce di donna, del tutto indifferente alle proprie parole.
- Meglio ancora, prendo anche questa - si udì da un'altra parte una voce
allegra d'uomo, e una risata gaia di donna che gli rifiutava qualcosa.
- No, no assolutamente! - diceva la voce di donna.
- D'accordo dunque. Mi occuperò di tutto, - ripeté Màsliennikov,
spegnendo la sigaretta con la mano bianca su cui spiccava la turchese. - E adesso
andiamo dalle signore.
- Oh, una cosa... - disse Necliudov, fermo sulla soglia del salotto. - Mi hanno
detto che ieri in prigione hanno inflitto una punizione corporale. E' vero?
Màsliennikov arrossì.
- Ahimè! sai anche questo? No, "mon cher", decisamente non
bisogna lasciarti entrare, vuoi sapere tutto. Andiamo, andiamo, Annette ci chiama,
- disse, prendendolo sotto il braccio e mostrando lo stesso entusiasmo che aveva
provato per la visita del personaggio importante: un entusiasmo che ora non
derivava più dalla gioia, ma dall'inquietudine.
Necliudov svincolò il suo braccio dalla stretta e senza salutare nessuno
e senza una parola, attraversò cupo il salotto, la sala e passando davanti
ai camerieri che balzavano in piedi al suo passaggio, raggiunse l'anticamera
e la strada.
- Che cos'ha? Gli hai fatto qualcosa? - domandò Annette al marito.
- Sistema "à la française", - disse uno...
-Macché "à la française! à la zoulou"...
- Ma se è sempre stato così!
Qualcuno si alzò per uscire, qualcuno entrò e il chiacchierio
filò per il suo verso: tutti approfittarono dell'episodio di Necliudov
come di un ottimo argomento di conversazione per quel "jour fixe"
(3).
Il giorno dopo la sua visita a Màsliennikov, Necliudov ricevette da lui
una lettera su un foglio di carta lucida, ornato di stemma e di sigilli, in
cui, con una scrittura bellissima e ferma, gli comunicava che aveva scritto
al medico dell'infermeria per il trasferimento della Màslova, e che,
con ogni probabilità, il suo desiderio sarebbe stato esaudito. La lettera
finiva così: "il tuo affezionatissimo vecchio camerata Màsliennikov",
e sotto la firma si vedeva uno svolazzo eseguito a regola d'arte, grande e marcato.
- Stupido! - non poté esimersi dall'esclamare Necliudov, colpito soprattutto
dalla parola camerata, in cui si sentiva la degnazione di Màsliennikov.
Màsliennikov si riteneva cioè un personaggio molto importante,
proprio lui che occupava una carica fra le più abiette e ignominiose...
e credeva, firmandosi suo camerata, se non di lusingarlo, di mostrargli almeno
che sapeva dimenticare per lui la propria grandezza.
NOTE.
NOTA 1: Sorta di wist: gioco a carte.
NOTA 2: E' una vittima.
NOTA 3: Giorno fisso, abituale giorno di riunione.
59.
Uno fra i pregiudizi più comuni e diffusi consiste nel credere che ogni
uomo abbia soltanto certe determinate caratteristiche: che sia buono o cattivo,
intelligente o stupido, energico o apatico, e così via. Ma non è
esatto. Di un uomo possiamo dire che è più spesso buono che cattivo,
intelligente che stupido, energico che apatico, e viceversa.
E' sbagliato giudicare una persona intelligente o buona e un'altra cattiva o
stupida, eppure noi classifichiamo sempre il prossimo a questo modo; erroneamente,
giacché gli uomini sono come i fiumi: in tutti scorre sempre la stessa
acqua, ma ogni fiume può essere ora stretto ora rapido, ora largo, ora
placido, ora limpido, ora freddo, ora torbido, ora tiepido. Così le persone.
Ogni individuo ha in sé, in germe, tutte le qualità umane; talvolta
ne manifesta una, talvolta un'altra, e spesso appare assai diverso da se stesso,
pur rimanendo sempre il medesimo. In certuni i mutamenti avvengono in modo assai
brusco. A questa categoria apparteneva Necliudov. In lui le trasformazioni avvenivano
per cause fisiche e spirituali. Ed appunto una di queste si era manifestata
allora nel suo animo.
Il sentimento di esultanza e di gioia che aveva provato per il suo rinnovarsi
interiore, dopo il processo e il primo colloquio con Katiuscia, era completamente
svanito, e aveva lasciato il posto, dopo l'ultimo incontro a un senso di orrore,
anzi di disgusto verso di lei.
Aveva deciso di non abbandonarla, di sposarla, come s'era proposto, purché
essa avesse acconsentito. Ma quell'idea gli pesava e lo angustiava. Il giorno
dopo la visita a Màsliennikov, si recò di nuovo alle prigioni,
per vederla.
Il direttore gli concesse il colloquio, ma nel parlatorio delle donne, non più
nell'ufficio o nella sala degli avvocati. Nonostante la sua bonarietà,
era assai più riservato: evidentemente gli incontri di Necliudov con
Màsliennikov avevano avuto per conseguenza l'ordine di una maggiore prudenza
con quel visitatore.
- Potete parlarle, - disse, - ma in quanto ai denari, per favore ricordate la
mia preghiera... Riguardo poi al suo trasferimento all'infermeria, come ha scritto
Sua Eccellenza, la cosa è possibile e il dottore acconsente. Però
lei non vuole; dice: "Bel divertimento, andare a vuotare i vasi di quegli
schifosi..." E' una razza così principe, si sa... - soggiunse.
Necliudov non rispose nulla e lo pregò di ammetterlo al colloquio. Il
direttore chiamò un carceriere e Necliudov lo seguì nel parlatorio
femminile, deserto.
La Màslova vi si trovava già. Uscì dalla rete, tranquilla
e timida. Si avvicinò a Necliudov e senza guardarlo, disse piano: - Scusatemi,
Dmitri Ivànovic', ho detto molte cose brutte due giorni fa.
- Non son io che devo scusarvi... - cominciò a dire Necliudov.
- Però, lasciatemi stare, - soggiunse, e negli occhi terribilmente strabici
che posò su di lui, Necliudov lesse di nuovo un'espressione tesa e cattiva.
- Perché dovrei lasciarvi?
- Così.
- Perché così?
Essa lo guardò ancora, con quello sguardo che sembrava cattivo. - Be',
proprio così, - disse. - Dovete lasciarmi, ve lo dico sul serio. Non
posso, io. Mettete da parte quest'idea, - soggiunse con le labbra tremanti,
e tacque. - Lo dico sul serio. Piuttosto m'impicco.
Necliudov sentì in quel rifiuto l'odio di Katiuscia per lui, per l'offesa
che non poteva dimenticare, ma vi sentì anche qualcosa d'altro: un sentimento
buono e nobile. E il fatto che essa rinnovasse il suo rifiuto in condizioni
normali, valse immediatamente a distruggere tutti i suoi dubbi e a ricondurre
nel suo animo la gravità, l'entusiasmo e la commozione di prima.
- Katiuscia, quel che ho detto lo ripeto ancora! esclamò molto gravemente.
- Ti chiedo di diventare mia moglie. Se rifiuti, e fino a quando non cambierai
parere, io ti sarò sempre vicino e ti seguirò dovunque tu vada.
- Questo è affar vostro, io non ho altro da dire, - essa rispose, e le
sue labbra tremarono di nuovo.
Anche Necliudov taceva, non sentendosi in grado a parlare.
- Ora andrò in campagna, poi a Pietroburgo, - disse finalmente quando
si fu ripreso. - Mi occuperò della vostra, della nostra pratica e, se
Dio vorrà, farò annullare la sentenza.
- E se non la annulleranno, fa lo stesso. O per questo, o per qualcosa altro,
in fondo non merito niente di più... - disse lei, ed egli vide lo sforzo
che s'imponeva per trattenere le lacrime.
- E Mensciòv l'avete visto? - essa domandò ad un tratto, per nascondere
il suo turbamento. - Vero che sono innocenti?
- Sì, lo credo.
- Una vecchietta così straordinaria! - disse.
Egli le raccontò quel che aveva saputo da Mensciòv e le domandò
se le occorresse qualcosa. Lei rispose che non aveva bisogno di nulla.
Tacquero di nuovo.
- Be', in quanto all'infermeria... - disse ad un tratto, guardandolo coi suoi
occhi strabici, - ci andrò, se volete, e l'acquavite non la berrò
più.
Necliudov senza parlare la guardò negli occhi. Quegli occhi sorridevano...
- Bene, benissimo! - egli poté dire soltanto, e s'accomiatò.
"Sì, sì, è tutta un'altra donna", pensò.
Ora, dopo i dubbi di prima provava un sentimento assolutamente nuovo, un sentimento
di fede nella forza invincibile dell'amore.
Rientrata dopo quel colloquio nella camerata fetida, la Màslova si levò
la casacca e sedette sulla cuccetta, con le mani abbandonate sulle ginocchia.
Nella camerata v'erano soltanto la tisica, la donna di Vladìmir (1) col
poppante, la vecchia Mensciòva e la cantoniera coi suoi due bambini.
La figlia del sagrestano il giorno prima era stata dichiarata malata di mente
e portata all'infermeria.
Le altre donne erano andate a lavare. La vecchia dormiva stesa sul tavolaccio;
i bambini erano nel corridoio, con la porta aperta. La Vladìmirskaia
col lattante in braccio, e la cantoniera che sferruzzava con le dita svelte
si avvicinarono alla Màslova.
- Ebbene, vi siete visti? - le domandarono.
La Màslova non rispose: seduta sull'alto tavolaccio dondolava le gambe
che non arrivavano a terra.
- Che cosa rumini? - disse la cantoniera. - Soprattutto non perderti d'animo.
Sù, Katiuscia, sù! - la esortava, muovendo rapidamente le dita.
La Màslova non rispose.
- Le nostre sono andate a lavare. Han detto che quest'oggi l'elemosina è
stata abbondante. Dicono che hanno portato tanta roba, - diceva la Vladimirskaia.
- Finascka! - gridò la cantoniera dalla porta, - dove si sarà
ficcato quel folletto?
Tirò fuori un ferro, lo infilò nel gomitolo e nella calza, e uscì
nel corridoio.
In quel momento si udì nel corridoio un rumore di passi e di voci femminili
e nella camera entrarono le altre detenute con le scarpe sui piedi nudi; tutte
portavano un panino, e qualcuna anche due. La Fedossia s'accostò subito
alla Màslova.
- Che cos'hai, c'è forse qualche guaio? - le domandò, guardandola
affettuosamente coi suoi occhi azzurri e limpidi. - Ecco qua per il nostro tè,
- e depose i panini sul palchetto.
- Non vuol più sposarti, forse? - domandò la Korabliòva.
- No, vuole ancora, ma sono io che non voglio, - disse la Màslova. -
Gliel'ho detto.
- Ve', che sciocca! - esclamò la Korabliòva con la sua voce di
basso.
- Ma via, che senso c'è a sposarsi se poi non si può vivere insieme?
- disse la Fedossia.
- Ma tuo marito però ci viene pure con te! - osservò la cantoniera.
- Certo, ma noi siamo sposati, - disse Fedossia.
- Ma lui perché dovrebbe sposarsi, se non può viverle insieme?
- Stupida! Perché? Se fa tanto di sposarla, la coprirà d'oro.
- Ha detto: "Dovunque ti manderanno, io ti seguirò", - mormorò
la Màslova.
- Se lo farà, bene, se non lo farà... non lo supplicherò
di certo!
Adesso va a Pietroburgo a occuparsi del processo. I ministri, là, son
tutti suoi parenti, - proseguì. - Ma io non ho nessun bisogno di lui!
- Si sa! - ad un tratto approvò la Korabliòva, aprendo il suo
sacco e visibilmente pensando ad altro. - Che ne dite, ci beviamo sù
un tantino di vodca?
Io, no, - rispose la Màslova. - Bevete voi!
NOTE.
Nota 1: della provincia di Vladìmir.