di Franco e Franca Basaglia.
[Questo testo compariva come "Introduzione" nell'edizione Einaudi di "Asylums", pubblicata in prima edizione nella collana Nuovo Politecnico nel 1968.]
«Si deve scoprire un crimine che si adatti alla punizione e ricostruire
la natura dell'internato per adattarla al crimine». Goffman così
definisce il significato delle "istituzioni totali", smascherando
l'ideologia che le sottende e chiarendo la natura esclusoria e discriminante
di un intervento, la cui obiettività reale sembra creata dal pregiudizio
che l'ha provocato. Ciò che risulta da questa sua affermazione è
la "necessità" della punizione, come partenza originaria attorno
alla quale viene a costruirsi e a giustificarsi l'esistenza della istituzione
stessa. In un certo senso, questa "necessità" di punizione
risulterebbe la funzionalità delle istituzioni al sistema sociale di
cui sono strumento e mezzo di controllo.
L'analisi delle "contingenze di carriera" che Goffman fa nel ricostruire
la storia del predegente, mette in luce l'assenza di un'obiettività concreta
nella realtà della malattia mentale e il suo stretto legame con l'elemento
soggettivo-interpretativo di chi la definisce e la determina per ciò
che è: la scienza (nella sua azione classificatoria e discriminante che
fa riferimento al concetto di "norma" come ad un valore assoluto,
nettamente definibile); e la società (che, in base alle indicazioni date
dalla scienza, costruisce l'immagine sociale della malattia mentale che sarà
determinante nello sviluppo della malattia stessa). Si tratterebbe del risultato
di un pregiudizio che, una volta messo in atto, riesce a giustificarsi, facendo
combaciare la realtà alla propria ipotesi.
Ora, se si analizza la natura del pregiudizio, è evidente che non si
tratta di un atteggiamento psicologico individuale, quanto dell'espressione
dei valori della società in cui l'individuo è inserito, risultato
di una selezione discriminante fra norma e abnorme, bene e male, maggioranza
e minoranza, potere e non potere.
"Daniel J. Levinson (1) illustra, al proposito, un test sul <pregiudizio>, per sondare l'opinione pubblica su individui, o gruppi di individui, di dubbia localizzazione sociale, come immigrati, negri, criminali, pazzi. L'ambiguità provocatoria di un item come questo («Noi spendiamo troppo per riabilitare i criminali e i pazzi e per l'educazione di persone intrinsecamente incapaci») costringe il testato a prendere apertamente posizione nei confronti di chi non è nella norma, rivelando - in caso la sua reazione sia negativa e discriminante - una personalità «etnocentrica». «Il modo etnocentrico di risolvere i conflitti di gruppo... consiste nel <liquidare> gli 'out', o tenerli completamente <soggetti, segregati> in modo da ridurre ogni contatto con gli 'in'. Nel primo caso, si tratta di un metodo etnocentrico politicizzato - fascismo e dissoluzione dei valori democratici... L'atteggiamento secondo cui la maggior parte dei gruppi out deve essere soggetta e segregata, è tipico dell'etnocentrismo americano... I valori democratici spesso impediscono il ricorso ad azioni più drastiche, ma possono anche servire a permettere la discriminazione e l'oppressione sotto una facciata pseudodemocratica»".
Questo quanto sostiene Levinson circa la situazione americana. Quale sarebbe
tuttavia, in Italia, la risposta ad un formulario del genere? Se si può
prendere come campione - ridottissimo ma abbastanza significativo - il risultato
di una brevissima inchiesta televisiva (spontanea o non, il significato non
muta, poiché rivelerebbe le intenzioni di chi l'ha organizzata, se non
quelle degli intervistati), parrebbe fossimo ancora drammaticamente pregni dello
spirito «etnocentrico politicizzato - fascismo e dissoluzione dei valori
democratici -» di cui parla Levinson. Due donne anziane e alcuni giovani,
alla domanda del telecronista che introduceva un documentario sull'assistenza
psichiatrica in Italia, risposero che, per quanto concerneva loro, il problema
dei malati di mente poteva essere risolto solo "uccidendoli tutti".
La Germania nazista lo aveva già fatto, a tutela della purezza della
razza; ma la nostra attuale sociètà non pensa di essere nazista
e, purtuttavia, continua ad oscillare fra un estremo e l'altro dell'etnocentrismo,
come metodo di soluzione dei propri conflitti e delle proprie contraddizioni.
Il malato mentale - uno degli "out" della nostra società -
è quasi dovunque segregato e soggetto, in istituzioni che non consentono
il minimo contatto con gli "in" e che sono, appunto, deputate ad impedirlo.
Le descrizioni minuziose fatte da Goffman dei modi di sopravvivenza degli internati
in queste istituzioni, mettono esplicitamente a nudo le "responsabilità"
delle organizzazioni sociali, deputate a gestire le aree delle devianze. L'analisi
sulla condizione degli internati non si limita, infatti, all'aspetto apparente
del fenomeno, nel considerare gli internati delle diverse istituzioni come il
prodotto di una particolarità specifica, tipica di ogni singola categoria;
ma tende ad individuare le analogie fra le diverse situazioni totali, dove la
diversa specificità originaria (malattia, colpa, abnorme) non risulta
la causa prima del livello di regressione e di disumanizzazione che le accomuna.
L'analisi di Goffman parla da sé e non ha bisogno di interpretazioni:
con la chiarezza di chi ha individuato ogni risvolto possibile della situazione,
ci fa vivere la condizione del diseredato, cui è stato negato il diritto
di essere uomo, accomunando in uno stesso destino, colpa, malattia e ogni deviazione
dalla norma. Ciò che Goffman riesce a distruggere - attraverso la sua
analisi dell'istituzione psichiatrica e le analogie con le altre istituzioni
totali - è l'immagine (quindi la cultura) dell'internato mentale, come
prodotto di una malattia che distrugge e disumanizza, mostrando lo stesso volto
e gli stessi meccanismi di sopravvivenza in istituzioni che con la malattia
mentale non hanno niente a che fare. In qualità di non psichiatra (in
quanto libero da ogni pregiudizio scientifico al riguardo) Goffman è
riuscito a trovare, al di là di ogni classificazione e codificazione,
il significato razionale e umano di malati mentali, la cui razionalità
e umanità vengono sistematicamente distrutti, all'interno dell'istituzione
deputata alla gestione dell'"irrazionale" e del "disumano".
Tralasciando ogni definizione nosografica, egli è riuscito a cogliere
le sfaccettature dell'aspetto sociale della malattia (ciò che ne è
stato fatto, il significato che le è stato dato, la faccia che ne è
stata costruita) individuando il malato mentale come l'oggetto di una violenza
originaria, familiare, sociale e istituzionale - "il vortice degli inganni"
- confermata dall'etichettamento scientifico che la giustifica. Se si tralascia,
infatti, la malattia come fatto reale e se ne considera soltanto l'aspetto sociale,
si possono definire i malati di mente come la presenza di un "terzo mondo"
all'interno del mondo occidentale. Che il negro sia negro è indiscutibile,
così com'è indiscutibile che esistano le malattie mentali, anche
se gli psichiatri in realtà non conoscono nulla sulla loro natura. Ma
ciò che ha fatto il negro quello che è stato finora, ha poca relazione
con il suo essere nero; così come ciò che ha dato al malato mentale
la faccia che tuttora ha, ha poco a che fare con la malattia. L'esclusione -
come fatto sociale - di cui il negro è oggetto in una società
razzista che ha bisogno di sfruttarlo per sopravvivere, è ciò
che determina il negro come inferiore e selvaggio; come l'esclusione (come fatto
sociale) di cui il malato mentale è oggetto nella nostra società,
è ciò che lo determina come inferiore e pericoloso.
Avvicinando il problema da questo punto di vista, è dunque evidente che
ciò che viene affrontato e discusso, attraverso la messa fra parentesi
della malattia reale è il suo aspetto sociale; confortati in ciò
anche dalle indicazioni che l'istituzione psichiatrica stessa ci fornisce, dato
che essa si occupa della malattia in quanto tale, solo nel momento in cui la
definisce e la cataloga, per dedicarsi poi alla gestione dell'esclusione che
ne è stata fatta: la custodia. Del resto, è stata la psichiatria
che, nel definire il malato come "irrecuperabile" e "incomprensibile"
ha proposto un'unica possibilità di approccio: quello di natura oggettuale
(antiterapeutico per essenza) in una relazione dove il secondo polo del rapporto
non esiste, se non come oggetto da inglobare e incorporare nel sistema generale.
Sotto la copertura del modello medico, in realtà, l'istituzione psichiatrica
tradizionale non è che un'istituzione carceraria, deputata a gestire
gli elementi di disturbo sociale.
Lo studio di Goffman ha dunque spalancato le porte delle istituzioni totali,
smascherando l'ideologia scientifica - religiosa, custodialistica, pedagogica
- che copre la realtà violenta comune a tutte. Ma ciò che Goffman
tende anche a mettere a fuoco - seppure in modo ancora incerto e contraddittorio
- è la funzione delle istituzioni «deputate a fornire una residenza
a categorie diverse di persone socialmente indesiderate. Queste istituzioni
comprendono case di cura, ospedali generali, case per anziani, prigioni, cliniche
geriatriche, case per mentalmente ritardati, fattorie di lavoro, orfanotrofi
e case di ricovero. Ogni ospedale di stato ha una frazione notevole di pazienti
che potrebbero benissimo essere ospitati in una di queste istituzioni (così
come altre istituzioni ospitano alcuni internati che potrebbero meglio essere
ricoverati in un ospedale psichiatrico) ma devono rimanervi perché non
è possibile trovare o fornire posto altrove. Ogni volta che l'ospedale
psichiatrico funziona come il punto di arrivo in questa rete di istituzioni,
per far fronte agli elementi di disturbo sociale, il modello di servizio è
rinnegato».
Partendo, dunque, da un'intuizione generale del significato e della funzionalità
delle istituzioni nella gestione delle devianze (con l'implicito giudizio politico
sul sistema sociale che traccia la linea di divisione fra la norma e la devianza,
e deputa queste istituzioni più o meno violente, alla gestione degli
"indesiderati sociali") Goffman rientra nel problema specifico dell'applicabilità
o meno del modello medico in psichiatria. E' evidente che - nonostante avverta
la dimensione politica in cui ogni problema si muove (non a caso precisa più
oltre: «dato che il comportamento inappropriato è di solito il
comportamento che a qualcuno non piace e che ritiene estremamente fastidioso,
le decisioni in merito tendono ad avere un carattere politico, nel senso che
esprimono gli interessi particolari di una data fazione particolare, o di una
data persona...») - ciò che interessa a Goffman, e che pure è
estremamente utile alla distruzione della cultura tradizionale della malattia
mentale, è dimostrare la non applicabilità del modello medico
in questo contesto, il che presuppone tuttavia una fiducia nel modello medico
in generale (il provvedimento psichiatrico è espressione «degli
interessi di una data fazione particolare o di una data persona, anziché
di un tipo di interessi che possa essere definito come al di sopra di ogni particolarità
di gruppo, come nel caso della patologia fisica») e nella neutralità
della scienza medica che contrasta con la non neutralità della psichiatria.
Goffman vede nella relazione psichiatra-malato un rapporto di potere come da
"governatore" a "governato" e ricostruisce, attraverso l'analisi
di questo rapporto, la graduale demolizione del "sé" dell'internato
che si trova soggetto a questo potere. Il suo scopo è dimostrare che
l'istituzione deputata alla cura del malato mentale è contemporaneamente
deputata alla sua totale distruzione, evidenziando così la contraddizione
dell'istituzione stessa che, in quanto organizzazione sociale, deve la sua sopravvivenza
alla spoliazione di ogni ruolo umano dell'internato in essa incorporato. Qui
la violenza è drammaticamente palese, dato che la malattia è essa
stessa giustificazione in atto di ogni sopraffazione ed arbitrio: se il malato
è incurabile e incomprensibile, l'unica azione possibile è oggettivarlo
nella realtà istituzionale, nella cui azione distruttiva egli dovrà
identificarsi.
Risulta dunque evidente, dall'analisi di un'istituzione totale quale l'ospedale
psichiatrico, che - sotto l'apparenza del modello medico - esso è deputato
a gestire l'aspetto sociale della malattia mentale e non la malattia in sé.
Nel momento in cui l'istituzione entra in rapporto con il «malato»,
l'assenza di un'obiettività organica nella malattia, colora di una certa
ambiguità la sua azione. In medicina generale si ha a che fare con un
corpo malato che esige e giustifica un apparato tecnico che lo ripari. Ma l'istituzione
psichiatrica, di fronte ad un individuo che deve ricoverare perché non
è più tollerato nella società esterna perché ha
varcato il limite della norma da essa fissato pare solo presumere un corpo malato
e, in base a questa presunzione, si limita ad oggettivarlo come se fosse malato,
instaurando un rapporto che non ha nulla di terapeutico, dato che perpetua l'oggettivazione
del paziente, fonte essa stessa di regressione e di malattia. Così, come
Goffman sostiene che «si deve scoprire un crimine che si adatti alla punizione
e ricostruire la natura dell'internato per adattarla al crimine», si può
dire che l'istituzione psichiatrica, una volta oggettivato il paziente come
se si trattasse di un "corpo malato", deve ricostruire quel corpo,
per adattarlo all'oggettivazione che ne ha fatto.
Presumere un "corpo malato" come base di incontro fra psichiatra e
paziente mentale, significa imporre a quest'ultimo un ruolo oggettivo sul quale
l'intera istituzione che lo tutela viene a fondarsi. Il particolare tipo di
approccio oggettivante finisce, quindi, per influire sul concetto di sé
del malato, il quale - attraverso un tale processo - non può non viversi
che come "corpo malato", esattamente nel modo in cui è vissuto
dallo psichiatra e dall'istituzione. L'istituzione, nata per curare una malattia
di cui risultavano ignote l'eziologia e la patogenesi, si è trovata così
a fabbricare un malato a sua immagine, tale da giustificare e garantire insieme,
i metodi su cui fonda la sua azione terapeutica. La malattia è venuta
a trasformarsi gradualmente in ciò che è l'istituzione psichiatrica,
e l'istituzione psichiatrica trova nell'internato, costruito secondo i suoi
parametri, la conferma alla validità dei suoi principi. Proponendosi
come un'istituzione medica e non trovando un'obiettività concreta nella
malattia, l'istituzione psichiatrica è costretta ad oscillare fra l'azione
custodialistica (che è la sua unica realtà) e l'ideologia medica
che è costretta a concretare nel rapporto oggettivo con il paziente.
Ma, al di là della contraddizione palese che Goffman denuncia fra le
finalità ideologico-scientifiche e la quotidianità concreta dell'istituzione
psichiatrica, si può intravvedere un'identità fra la realtà
istituzionale (oppressiva, mortificante e distruttiva) e la funzionalità
dell'istituzione in rapporto al nostro sistema sociale che sopravvive appunto
escludendo (quindi opprimendo, mortificando e distruggendo) gli elementi di
disturbo. Da questo punto di vista l'analisi di Goffman - necessaria allo smascheramento
della natura carceraria, custodialistica e, entro certi limiti, sadica dell'organizzazione
psichiatrica che, sotto la copertura del modello medico, agisce come una pura
istituzione violenta - si ferma, limitandosi a rendere esplicita la contraddizione
fra ideologia e realtà.
Ma sarebbe sufficiente applicare realmente all'istituzione psichiatrica il modello
medico, renderla cioè tecnicamente efficiente, per risolvere le sue contraddizioni?
Se l'istituzione psichiatrica è deputata alla gestione dell'esclusione
(la faccia sociale della malattia mentale) in che modo possiamo garantire che,
applicando il modello medico ad una nuova istituzione psichiatrica, che superi
attraverso tecniche psicologiche l'oggettivazione del malato, avremo risolto
il problema sociale della malattia mentale? Il rapporto di potere all'interno
dell'istituzione non continuerebbe a sussistere fra il tecnico che presta il
suo servizio continuando a stabilire i valori di norma, e il malato che, in
base ad essi, viene discriminato? In che modo la psichiatria diventerebbe neutrale
(così come Goffman sembra ritenere neutrale la medicina generale) nel
momento in cui è sempre facoltà dello psichiatra - come espressione
della società di cui è delegato - stabilire i limiti della norma
e il grado di permissività cui la società che egli rappresenta
è disposta? Da dove nasce la fiducia di Goffman nella neutralità
tecnica della medicina generale, se la relazione fra medico e malato risulta
compromessa dalla natura socio-economica che sottende ogni rapporto? Entro certi
limiti, la curabilità o l'ineluttabilità della propria malattia
sono proporzionali alla nostra possibilità di gestirla in proprio, cioè
al potere contrattuale che il malato ha nei confronti del medico. La medicina,
come ogni altra scienza nella nostra cultura, è una scienza di classe,
di cui la psichiatria è forse l'espressione più palese e più
drammatica, dato l'enorme divario fra l'assistenza nelle case di cura private
e la gestione degli internati nei manicomi provinciali. Ma questo divario non
è assente nelle altre branche della medicina: il malato di "corsia"
e il "dozzinante" vivono il rapporto psicologico, se non anche quello
tecnico - con il medico, ad un livello completamente diverso, essendo il primo
in balia dell'arbitrio del personale curante, in quanto privo di un ruolo sociale
capace di controbilanciare quello del medico. Il potere contrattuale è
ciò che determina la natura del rapporto, che si rivela così ancora
economico e di classe.
Forse per lo psichiatra istituzionale - più che per il cosiddetto scienziato
puro - il rapporto fra scienza astratta e internato è più strettamente
evidente: la realtà manicomiale, come risultato di una scienza che ha
avuto la funzione di discriminare l'abnorme e di definirlo nei suoi diversi
aspetti, è di un'efferatezza così palese che, non appena lo psichiatra
si renda conto di quale sarebbe la sua funzione all'interno di quell'istituzione,
non può non sentirsene complice e rifiutare il suo ruolo. Lo psichiatra
si trova a godere del pesante privilegio di avere direttamente sotto agli occhi
il risultato di una violenza che è sua, della società e dell'istituzione.
Se solo incominci a sospettare che la realtà malata che gli sta di fronte
- internati che non parlano perché nessuno li ascolta; che non camminano
perché non sanno dove andare; che sbavano perché non c'è
una ragione per non farlo, uno scopo, un fine per cui abbia un senso resistere
alla tentazione di lasciarsi vivere e vegetare - non sia solo il frutto di una
malattia, ma il risultato di una violenza perpetrata a tutti i livelli, questa
realtà non può non capovolgersi ai suoi occhi, coinvolgendolo
nella sua parte di responsabilità e coinvolgendo i «sani»
nella loro.
Se ogni giorno - al di là dei suoi calcoli astratti - il fisico nucleare
dovesse fare i conti con le vittime di Hiroshima e Nagasaki, riuscirebbe a sostenere
la neutralità della scienza cui si dedica, come se l'uso fatto dei risultati
da lui ottenuti non si trovasse a sovrapporsi e a coincidere con la finalità
della sua stessa ricerca scientifica? E' difficile dimostrare la neutralità
della medicina, come prestazione di un servizio tecnico, che trascenda ogni
tipo di rapporto di natura più specificamente socio-economica, se non
addirittura politica (2).
L'analisi di Goffman sui tecnici come prestatori di un servizio serve dunque
a chiarire la natura oggettuale del rapporto fra psichiatra e malato mentale
(le analogie implicite fra l'oggetto da riparare che il cliente consegna al
tecnico, aggiungono drammaticità alla condizione dell'internato diventato,
in questo contesto, un oggetto che non può essere riparato e che tuttavia
continua a funzionare), ma trascura esplicitamente una dimensione senza la quale
il discorso resterebbe monco o limitato («la categoria di chi presta un
servizio, così com'è stata qui definita, non ha alcun riferimento
a suddivisioni di classe o di censo»).
Per questo - oltre l'acuta analisi sociologica e fenomenologica della condizione
dell'internato di cui Goffman sviscera e approfondisce ogni aspetto ed ogni
risvolto (con le implicazioni per la struttura del "sé" presenti
in ogni regola istituzionale) - si sente la necessità di affrontare la
condizione dell'internato, non solo come un dato di cui è necessario
conoscere ogni modalità di esistenza, ma come un prodotto che ci consenta
di risalire dalla condizione di esclusione tipica dell'internamento, all'individuazione
di ciò che lo produce e della natura del rapporto che unisce ciò
che esclude all'escluso, e che spieghi la funzionalità e il significato
dell'istituzione deputata alla gestione dell'esclusione. In questo senso il
problema si apre sulla funzionalità sociale delle istituzioni totali,
deputate a gestire le nostre contraddizioni più palesi.
Ciò che risulta subito evidente - oltre la violenza di questa gestione
- è un fatto costantemente ricorrente: nella società capitalistico-produttivistica
la norma è la salute, la giovinezza, la produzione. La malattia, la vecchiaia,
l'infortunio sono accidenti all'interno di una realtà che non vuole e
non può premunirsi e preoccuparsi delle proprie contraddizioni.
In ogni società si vive, ci si ammala, si diventa vecchi, si è
soli. Ma una società produttivistica che si fonda sull'ideologia del
benessere e dell'abbondanza per coprire la fame, non può programmare
sufficienti misure preventive o assistenziali. Si salva ciò che può
essere facilmente recuperato; il resto viene negato attraverso l'ideologia dell'"incurabilità",
dell'"incomprensibilità", della "natura umana", su
cui si costruisce il castello del pregiudizio. Nella società dell'abbondanza-fame
o c'è "abbondanza" o c'è "fame". Ma la fame
(con tutti i significati che questa parola comporta) non può manifestarsi
brutalmente per ciò che è (ciò che consente all'abbondanza
di essere e di mantenersi tale), ma deve venir velata e schermata attraverso
le ideologie che la definiranno di volta in volta come vizio, malattia, razza,
colpa.
Importante è che le contraddizioni - inevitabili in ogni tipo di società
- vengano sancite come un "dato" irriducibile, come condizione insanabile
insita nell'uomo e nella sua natura, oltre la quale l'uomo non può nulla.
E' in questo senso che il manicheismo del sì e del no, del bene e del
male, della salute e della malattia, dell'abbondanza e della fame, è
costretto a fondarsi sull'ideologia del bene, della salute, dell'abbondanza
come unica realtà e possibilità umana: il resto è il risultato
di un fallimento che troverà spiegazioni scientifiche e filosofiche,
in una scienza e in una filosofia che maschereranno il loro legame con la classe
dominante, sotto la mistificazione della neutralità tecnica. Solo in
questo senso si può comprendere l'assurda incuria e l'assoluta mancanza
di previdenza (sempre insufficiente rispetto alle necessità) del nostro
sistema sociale, paragonabile alla cicala che continua a cantare l'estate e
l'abbondanza, per nascondere la fame dell'inverno.
Nel nostro sistema sociale non c'è posto per la dialettica; o si è
formiche, alienate nella produzione; o cicale imprevidenti destinate a morire.
Finché la divisione fra bene e male è netta, i pochi che detengono
il potere dispongono di un'arma sicura per creare una distanza, umanamente accettabile,
fra "chi ha" e "chi non ha". I valori sono fissati una volta
per tutte dalla classe dominante e da una scienza che la difende, ma solo "chi
non ha" cade nelle sanzioni studiate per dominarlo e indebolirlo. Se le
malattie sono incurabili, la prostituzione è vizio, la fame ineliminabile,
la violenza è colpa; la malattia, la prostituzione, la fame, la violenza
sono il polo negativo di un "dato irriducibile", e non ciò
che consente alla salute, alla purezza, all'abbondanza, alla pace di essere
ciò che sono.
L'ospedale psichiatrico, come tutti i luoghi di internamento, non è che
la triste conseguenza della copertura di una contraddizione, attraverso l'ideologia
dell'ineluttabilità e dell'incomprensibilità della malattia. Nella
misura in cui la malattia può essere considerata una contraddizione,
non si può risolverla negandola in quanto tale e soffocandola sotto una
qualsiasi ideologia. Il significato di una comunità psichiatrica dovrebbe
consistere nel rendere più esplicite le contraddizioni inerenti il background
sociale su cui la malattia mentale si sviluppa, in modo che il paziente riesca
ad individuarle, dialettizzarle, e affrontarle. Ma com'è possibile se
egli è stato negato in quanto contraddizione in atto rispetto alla norma,
attraverso l'ideologia psichiatrica che lo ha definito e fissato entro limiti
invalicabili?
L'analisi di un'istituzione totale, funzionale ad un sistema sociale come il
nostro, è dunque la dimostrazione di "quanto paga chi si trova costretto
a pagare", per dare agli altri la possibilità di vivere nella «norma»
e nel «benessere».
Il disturbato mentale inizia abitualmente la sua carriera «con un'infrazione
alle norme del vivere sociale, nel proprio ambiente familiare, nel posto di
lavoro, in un'organizzazione semipubblica come una chiesa o un grande magazzino,
in zone pubbliche come strade o parchi. Spesso la cosa viene riferita da un
accusatore che risulta così colui che ha dato l'avvio al ciclo che porterà
l'accusato all'ospedalizzazione. Costui può anche non essere quello che
fa il primo passo, ma quello che ha portato alla prima azione determinante.
E' qui che comincia "socialmente" la carriera del paziente e ciò
prescindendo dal momento in cui può collocarsi l'inizio psicologico della
sua malattia mentale».
La netta separazione fra salute e malattia non esiste: il malato mentale è
in balìa delle circostanze che faranno precipitare la situazione o la
lasceranno inalterata. L'obiettività non c'è fino al momento in
cui non viene costruita dall'atto stesso dell'internamento e dalla definizione
di malattia. Prima di allora, tutto è ancora possibile, perché
quello che sarà il futuro malato mentale è ancora considerato
una presenza contraddittoria nella realtà in cui vive: il datore di lavoro
che si lamenta delle sue stranezze, il familiare che lo colpevolizza per il
suo comportamento, stanno ancora pretendendo da lui qualcosa, il cui ottenimento
lo manterrebbe ai loro occhi su un terreno d'uguaglianza. Lamentarsi di un comportamento
presume ritenere la possibilità che un tale comportamento venga modificato
in seguito al proprio intervento, tenendo conto, contemporaneamente, delle ragioni
che verranno opposte a spiegazione o a giustificazione del comportamento stesso.
Ma è il tecnico (il "mediatore" prima e il professionista specialistico
poi) che sembra strappare il malato da questo rapporto ancora personale (con
la possibilità di una reciproca aggressività e di una reciproca
difesa in esso implicita) per fissarlo in un ruolo oggettuale, nel momento in
cui diventa l'oggetto della loro ricerca e della loro cura. Nei suoi rapporti
con i mediatori, difficilmente il malato viene contraddetto o rimproverato:
la realtà comincia, già molto prima del suo internamento definitivo,
ad apparirgli ambigua e gradualmente sempre più aproblematica, nel senso
che, se originariamente egli voleva - attraverso acting-out qualche volta apparentemente
ingiustificati - contestare il mondo, ora è il mondo stesso a venirgli
incontro lasciandosi contestare in modo irreale. Questa azione del mediatore
e del tecnico assume così il significato di un giudizio che definisce
e nello stesso tempo de-responsabilizza il comportamento del malato, aiutandolo
a staccarsi dal reale, il cui confronto è per lui tanto problematico.
Quando questo giudizio tecnico sia stato formulato, il malato cessa di essere
vissuto da chi lo circonda, come un problema costante che richiede costanti
prese di posizione reali, per diventare un fantasma, liberato di volta in volta
da ogni vincolo di responsabilità e di consapevolezza. Il che agisce
su di lui come la dimostrazione che, il fatto di essere stato riconosciuto malato
dai tecnici, lo autorizza a regredire perdendo ogni controllo sulla propria
vita.
Fintantoché la malattia mentale era considerata una delle modalità
umane con cui l'uomo conviveva, esisteva fra società e malati un rapporto
del tipo malato-accusatore: una partecipazione all'abnorme attraverso una vita
comune, in cui il malato conserva, agli occhi della società, il suo carattere
contraddittorio, così come lo conserva la realtà agli occhi del
malato. Ma con lo svilupparsi della società industriale la linea di separazione
fra norma e abnorme ha incominciato ad assumere un significato particolare,
che si accentra sul concetto di produttività: la distanza fra salute
e malattia è stata esasperata, facendo precipitare coloro che stavano
in bilico fra l'una e l'altra.
Dal momento della liberazione dei folli di Pinel, dalle carceri della Bicêtre,
dov'erano confusi con la colpa e il peccato, si è assistito ad una sorta
di dilatazione scientista in cui l'area delle devianze e delle malattie mentali
si è andata mano a mano enfatizzando, assorbendo il terreno stesso, da
un lato, della delinquenza, e dall'altro del disadattamento. La nostra società
attuale preferisce definirsi «malata» anziché riconoscere
nelle proprie contraddizioni il prodotto del sistema su cui si fonda. In un
certo senso, la malattia deresponsabilizza sia la società che il singolo;
il terreno delle competenze risulta confuso, soprattutto nella misura in cui
la malattia conserva in sé una parte oscura di colpa, e la colpa una
traccia di malattia.
Ma ora è stata smascherata la funzione dei malati mentali come uno dei
«capri espiatori» di un sistema che ha bisogno di aree di compenso
per sopravvivere, e si tenta di correre ai ripari attraverso la liberalizzazione
degli ospedali psichiatrici. La faccia sociale della malattia mentale potrà
forse incominciare a mutare attraverso la nuova cultura che verrà creandosi
e, forse, sarà possibile incominciare ad occuparci della malattia in
quanto tale. Ma, in questo caso, quale sarà la nuova area di compenso,
qualora il malato mentale venga riabilitato e reintegrato nella nostra attuale
società? Un sistema fondato sull'ideologia dell'opulenza non può
risolvere né smascherare le sue contraddizioni, che le ideologie sono
appunto deputate a nascondere. Quali saranno dunque i nuovi "out da escludere"
e da coprire?
Basterebbe assorbire - e ce ne sono già le indicazioni - nella sfera
delle devianze ogni disadattamento, ogni segno di rifiuto nei confronti del
tipo di società in cui si è costretti a vivere, e farli cadere
sotto la giurisdizione psichiatrica, per costruire scientificamente un nuovo
alibi, che converta in patologia ciò che è aperto segno di dissenso
verso una vita invivibile, che può ancora essere diversa. In questo caso,
quale sarà la posizione degli psichiatri, dei tecnici? Sanciranno, ancora
una volta, nella loro qualità di delegati del potere, un'esclusione sociale
sotto l'etichetta della malattia? O lo smascheramento di ciò che è
stata la loro azione istituzionale li rivelerà - ai loro stessi occhi
- come semplici strumenti di controllo sociale, in balia del "sistema"
che li determina? E' possibile, in queste condizioni, parlare di scienza, se
non si chiarisce prima che cos'è la politica di questa scienza?
Tutto ciò può essere facilmente tacciato di ovvietà. Non
è una novità individuare e rifiutare la sopraffazione dell'uomo
sull'uomo; non è una novità cercarne le cause, rifiutando di coprirle
sotto il pregiudizio. Ma finché la sopraffazione e la violenza sono ancora
l'ovvio leitmotiv della nostra realtà, non si può che usare parole
ovvie, per non mascherare sotto la costruzione di teorie apparentemente nuove
il desiderio di lasciare le cose come sono.
FRANCO e FRANCA BASAGLIA