La trattazione che faro' stasera sara' necessariamente
schematica, perche' l'argomento e' amplissimo. Mi limitero' percio' a fornire
solo alcune coordinate politiche, eventualmente da approfondire nel dibattito.
Preliminarmente, chiarisco che non parlo da "esperto" del Medio Oriente - non lo
sono - ma da militante politico, prendendo le mosse, da alcuni punti fermi.
L'avversario in Israele non sono gli ebrei ma il sionismo, le due
cose assolutamente non coincidono. Nel sostegno ai palestinesi non ci
deve essere alcun elemento di razzismo nei confronti degli ebrei. Il sionismo e'
un'ideologia politica, reazionaria, che ha anche manifestazioni aperte di
razzismo antiarabo, e sia nelle sue componenti di "destra", sia in quelle di
"sinistra", sostiene uno stato fondato sull'oppressione dei palestinesi e va
combattuto come tale. Una pace "reale" passa necessariamente attraverso
l'abbattimento dello stato della borghesia israeliana, ma non certo "buttando
gli ebrei a mare" ; diversamente non c'e' alcuna possibilita' di "pace" in
Medio Oriente ne' tanto meno in Israele, se non quella dell'ordine imperialista.
La mia relazione avra' un taglio iniziale storico per favorire la
comprensione di come si e' arrivati alla situazione odierna. Percio' affrontero'
schematicamente alcuni passaggi del passato ed entrero' un po' pi nel merito
dei punti fondamentali dello scontro politico che e' in atto oggi, a partire
dall'accelerazione dello scontro seguita all'investitura di Sharon quale Primo
ministro.
Alla fine, penso si dovra' fare una riflessione sull'ultimo attentato di
Hamas, per cio' che esso significa per Israele e all'interno di tutto il mondo
palestinese.
Per quanto mi riguarda, poi, l'attitudine politica fondamentale sulla
questione penso debba essere quella della solidarieta' incondizionata ai
palestinesi, a prescindere dalla direzione politica che possono avere e
anche dai cosiddetti attentati terroristici tipo quelli di Hamas.
Non ho
alcuna simpatia per Hamas, pero' va capito politicamente il significato di
quello che e' avvenuto in questi giorni in Israele. Il 5 dicembre, ieri, Peres
ha consegnato un ultimatum ad Arafat, intimando l'arresto entro 12 ore di 36
personalita' legate ad Hamas, Ezbollah e in generale alle forze islamiche. Verso
le 7.00 di sera lo sceicco Yassin, leader spirituale di Hamas, e' stato
arrestato. Alle 2.00 di notte era gia' stato liberato da Hamas (in questo
momento non so che fine abbia fatto). Va tenuto presente che la lista consegnata
da Israele non ha alcuna attinenza con gli ultimi attentati, difatti era gia'
stata consegnata in settembre da Peres sempre ad Arafat, e non era nemmeno
supportata da prove.
Per entrare nel merito della questione, la relazione di questa sera parla di
un Medio Oriente frammentato dall'imperialismo.
La cartina n. 1 rappresenta a grandi linee la situazione come la conosciamo
oggi. Ci siamo abituati, ma la realta' di partenza era molto diversa. La
costituzione delle entita' statali attuali (Libano, Siria, Giordania, ...) ha
seguito modalita' differenti da quelle che sono state alla base della formazione
degli stati nazionali nell'area occidentale dell'Europa.
E' fondamentale
capire il tipo di percorso che c'e' stato in Medio Oriente, per rendersi conto
di cio' che oggi avviene, di quello che e' stato prodotto e di come e' stato
prodotto.
La cartina n. 2 mostra quest'area com'e' stata, grossomodo, dal Cinquecento
fino al 1918. La coloritura in grigio corrisponde all'Impero ottomano, un'area
che va dall'Arabia fino alla Turchia (prima ancora arrivava anche all'Algeria).
Poi, ritiratisi gli ottomani, in Egitto si insediano gli inglesi, preceduti
dall'occupazione napoleonica.
C'e' un'area unica, in cui non esistono
tradizioni nazionali nel senso occidentale del termine; l'economia dell'area e'
fondata su rapporti sociali di tipo feudale (ancora alla fine dell'Ottocento),
in cui ci sono degli sceicchi, dei califfi, che detengono un potere
amministrativo e la gestione dei tributi per conto dell'Impero ottomano, su aree
limitate (sangiaccati).
Nel mondo arabo, nell'area della cosiddetta "mezzaluna fertile", non esiste
un tradizione d'irredentismo nazionale, quale quella che ci hanno insegnato a
scuola riferendosi al Risorgimento italiano. Ci troviamo di fronte a un tutto
unitario, con un'economia sostanzialmente precapitalistica e alla formazione di
aree di potere locale, sotto la dominazione unificante dei turchi.
Questa situazione viene scossa dalla seconda meta' dell'Ottocento da una
serie di avvenimenti.
La propagazione di rapporti mercantili nell'area, che porta in primo luogo
all'impoverimento dei contadini. Le terre cominciano a diventare di proprieta'
dei vari commercianti, degli sceicchi o califfi, di quel settore di aristocrazia
di tipo feudal-amministrativo che vive incassando le tasse per conto dell'impero
ottomano e che si appropria di buona parte delle terre coltivate, individuali e
di villaggio. Questo processo concentra la proprieta' terriera in poche mani,
quelle dei cosiddetti "proprietari assenteisti", che potranno poi rivendere le
terre all'immigrazione sionista.
Il canale di Suez, Aden e il mar Rosso, il passaggio verso il golfo Persico,
ecc. divengono strategici per la Gran Bretagna,. che gia' allora diceva: "Io non
mollo quest'area perche' mi garantisce il passaggio verso l'India; devo
contenere la Russia, che spinge da nord, e la Germania, che sta entrando tramite
i turchi".
In questo periodo, che va dal 1850 al 1900, nel mondo arabo non esistono
rivendicazioni nazionaliste, nel senso "occidentale"; ci sono rivendicazioni di
decentramento amministrativo e di autonomia regionale.
Saltando un po' a pie' pari nel tempo, vanno ricordati altri avvenimenti.
Ha inizio la colonizzazione ebraica dell'area. Dal 1890 (anche gia' prima dal
punti di vista strettamente teorico) comincia a organizzarsi politicamente il
sionismo, che ha moltissime sfaccettature ideologiche, ma nella sostanza
rivendica il ritorno del popolo ebraico nella terra dell'Israele storico, ossia
biblico. E' un Israele i cui confini dovrebbero andare dal mare fino a una buona
parte della Giordania.
Inizia un processo di emigrazione verso la Palestina, soprattutto sotto i
colpi della persecuzioni contro gli ebrei in Russia e Polonia (i cosiddetti
pogrom, che sono una manifestazione specifica dello zarismo e dell'antisemitismo
nell'area dell'Europa orientale).
E' un'emigrazione ancora molto lenta, che
pero' inizia gia' a creare problemi di convivenza, perche' gli immigrati
acquistavano le terre dai notabili arabi e iniziavano a impiantare delle colonie
su terre che non erano incolte - come viene raccontato dalla propaganda
ufficiale di Israele - bensi' erano terre coltivate da fittavoli, che poi
venivano espulsi o messi a lavorare sotto gli ebrei, con tutte le contraddizioni
che cio' comporta.
Con l'aumentare dell'emigrazione, tra il 1910 e il
1944 il prezzo della terra sale del 5000%, cio' ha portato a vendite a
tappeto, all'aumento della penetrazione ebraica e all'aumento dei guadagni dei
notabili arabi. Ma non ci sara' un'accelerazione vera e propria
dell'immigrazione fino al 1907, quando l'organizzazione sionista, che e'
un'organizzazione politica, ma anche fornisce un appoggio tecnico-strutturale,
non apre l'ufficio di Jaffa in Palestina. Fino ad allora le migrazioni erano
ancora sporadiche, ma dal 1907 sono organizzate e aumentano esponenzialmente. Il
numero degli ebrei che emigra in Palestina tende a crescere e a entrare sempre
pi in contraddizione con il mondo arabo.
In questo contesto avviene un altro fatto fondamentale: nel 1908 in
Turchia c'e' la rivoluzione dei Giovani turchi, che abbatte la monarchia e
vara un regime nazionalista. Tra i suoi primi atti politici c'e' il lancio di
una campagna di "turchificazione" di tutto l'impero turco, che tra l'altro
impone l'obbligo del turco in tutti gli atti pubblici e nelle scuole e lancia
una feroce campagna antiaraba.
Inizia allora a manifestarsi un movimento di opposizione e di indipendenza,
che prima ancora che contro i coloni ebraici si rivolge contro i turchi. Questo
movimento ha una logica politica che non e' nazionalista, anzi gia' allora
inizia a definirsi come "panarabismo": rivendicazione dell'indipendenza di
tutto il mondo arabo, dall'Arabia fino alla Siria. Nessuno rivendica lo
Stato palestinese, lo Stato giordano, lo Stato del Libano, L'obiettivo pi o
meno abbozzato era quello di uno Stato panarabo, dall'Arabia alla Giordania e,
nei settori pi radicali, l'introduzione di nuovi rapporti sociali e politici.
L'altro fattore decisivo nella frantumazione dell'area mediorientale e' lo
scoppio della Prima Guerra mondiale: la Turchia scende in campo con la
Germania, contro l'Inghilterra, e la Francia. Iniziano i grandi giochi per il
controllo dell'area.
Molti avranno visto il film "Lawrence d'Arabia" sulla
lotta degli inglesi assieme agli arabi contro i turchi. Ma le cose non sono
andate proprio com'e' narrato nel film. Perche'?
Nel 1916, in effetti, la
Gran Bretagna finanziera' e armera' la rivolta araba, che parte dall'Arabia e si
estende verso la Giordania e la Siria. Ma c'e' un fatto precedente: un accordo
segreto, denominato Sykes-Picot, per la spartizione dell'intera area tra
la Francia e l'Inghilterra. E' un accordo che verra' rivelato nel 1918 dalla
Rivoluzione russa. Ma ben prima che divenisse pubblico, scoppia alla Mecca la
rivolta araba, guidata dalla famiglia Husseini (l'attuale re di Giordania ne e'
l'ultimo discendente), che sono i califfi dell' Higiaz in Arabia puntano a
costituire una monarchia araba dall'Arabia Saudita fino al Libano. Gli inglesi
formalmente appoggiano il progetto.
Finita la guerra gli arabi pensano che i
patti siano rispettati e formano addirittura un consiglio arabo a Damasco, la
Gran Bretagna e la Francia, quale risposta, mandano le loro truppe e bloccano
sul nascere la monarchia araba unitaria. La Societa' delle Nazioni (l'ONU di
allora) sancisce l'operazione e conferisce il mandato sulla Palestina alla Gran
Bretagna e assegna la Siria e il Libano alla Francia.
Inglesi e francesi
per prima cosa dividono amministrativamente in entita' statali l'intera area. I
confini sono disegnati a tavolino, senza alcuna attinenza geografica o culturale
o di popolazioni (tra l'arabo della Giordania e quello dell'Iraq, non c'era
allora una differenza lontanamente paragonabile a quella tra italiani e
francesi, per intenderci) e la partita viene data per chiusa.
Secondo questi
stessi confini saranno successivamente realizzate le condotte petrolifere negli
anni Trenta. Vedere la cartina n. 3.1
Nel corso della Prima Guerra Mondiale c'e' un altro evento estremamente
importate: la dichiarazione di Lord Balfour, il ministro degli Esteri
inglese, che sostiene la creazione di un "focolare ebraico" - cosi' viene
definito - in Palestina. Ne consegue che, col beneplacito inglese, vengono
creati all'organizzazione sionista dei canali privilegiati per gestire e
sviluppare l'immigrazione ebraica.
Il "piano e' chiaro": da un lato dividere
gli arabi e impedirne l'unita' territoriale, dall'altro far entrare gli ebrei
con pi facilita', ma controllandone il flusso e le mire politiche e
territoriali. Cosi' si dovrebbero gestire sia le contraddizioni tra arabi ed
ebrei, sia a mantenere il controllo politico sull'area assegnata dal mandato
dell'Onu e nel Medio Oriente (anche in concorrenza ai francesi). Nel 1922 la
Gran Bretagma istituira' addirittura un regime commissariale in Palestina, per
garantire gli accordi presi con l'Organizzazione Sionista, che volente o nolente
diverra' un puntello dell'ordine imperialista nel Medio Oriente.
Negli anni Trenta l'area vedra' crescere il proprio peso strategico per
l'imperialismo grazie alla scoperta e commercializzazione del petrolio, che non
solo acuisce degli interessi in astratto ma sostanzia il potere dei monarchi
insediati dagli inglesi e dai francesi. Si crea cosi' una situazione sociale in
cui le monarchie e gli strati nobiliari non solo sono legati politicamente
all'Inghilterra o alla Francia, a seconda della sfera d'influenza, ma si legano
alla rendita petrolifera. Cioe' diventano quella che, in termini economici, si
chiama borghesia compradora, il cui unico scopo e' quello di percepire quote
della rendita petrolifera, senza curarsi dello sviluppo produttivo del Paese.
Come soci delle imprese che estraggono e commercializzano il petrolio, incassano
le royalties e i dividendi per giocarli in borsa a Parigi, Londra, in Germania.
E' una borghesia completamente incapace, in quanto legata a questa situazione
economica, di fare propri degli interessi d'indipendenza nazionale, nella
versione panaraba o in quella nazionalista.
I violenti moti degli anni Venti-Trenta contro la dominazione, soprattutto
quella britannica, sono schiacciati nel sangue da una repressione bestiale. Gli
arabi - allora non si parlava ancora di palestinesi - combattono militarmente
contro l'amministrazione britannica, perche' questa e' la prima fonte di
repressione e di oppressione.
Intanto i coloni ebraici aumentano a
dismisura.
Nel corso di questi anni il fattore nuovo e' la penetrazione degli Stati
Uniti nell'area, che diventera' fondamentale con la Seconda Guerra Mondiale. Nel
'33 gli inglesi abbandonano le ricerche petrolifere in Arabia, gli Stati Uniti
li sostituiscono, trovano il petrolio, lo commercializzano e raggiungono un
accordo in base al quale hanno il controllo di tutto il petrolio dell'Arabia
Saudita. Un controllo che non e' realizzato come oggi su una rete di rapporti e
compartecipazioni, ma che le compagnie estrattive erano in mano pressoche' al
100% agli Stati Uniti o, in subordine agli inglesi. Allora questo tipo di
rapporto "coloniale" viene istituito con tutte le societa' petrolifere, che per
questo sarebbero state poi nazionalizzate, a partire dalla seconda meta' degli
anni Cinquanta, nel corso della stagione delle lotte di indipendenza nazionale.
Con la Seconda Guerra mondiale, la situazione muta definitivamente: gli
Stati Uniti entrano in maniera pesante in tutta l'area. Parallelamente
cambia anche l'orizzonte del sionismo, che fino ad allora aveva avuto rapporti
privilegiati, se non esclusivi, con la Gran Bretagna.
Nel '42 Ben Gurion,
che rappresentava il cosiddetto sionismo di "sinistra" e di li' a poco sarebbe
stato il fondatore ufficiale di Israele, rifiuta l'esclusivismo del rapporto con
la Gran Bretagna e apre agli Stati Uniti, allacciando nel corso del congresso
sionista di New York rapporti privilegiati con il mondo ebraico americano. Da
quel momento sono gli americani a diventare i protettori della creazione di
Israele, che, ripeto, va di pari passo con la penetrazione USA in Medio Oriente.
Nel corso della Seconda Guerra Mondiale gli USA man mano che sconfiggono le
forze italo-tedesche in Nord Africa, inizieranno a installare basi militari
nell'area, a partire dalla Libia. E, gia' durante il conflitto, danno il via a
un piano di sostegno economico e impiantano produzioni di armi e di petrolio,
contribuendo ad una maggior diffusione di rapporti sociali capitalistici. Gli
americani cominciano a diventare la presenza imperialista fondamentale
nell'area.
Con la fine della Seconda Guerra mondiale la situazione venutasi tra arabi ed
ebrei in Palestina precipita. Gia' nel '37 la Gran Bretagna aveva avanzato un
piano per la spartizione (Commissione Peel), che da' l'idea del punto al quale
si era arrivati nella penetrazione sionista (numericamente i coloni ebrei erano
comunque inferiori agli arabi). Nella cartina n. 3.2 la parte inferiore e' lo
Stato che verrebbe definito arabo, la parte grigia pi chiara sarebbe lo Stato
ebraico, quella specie d'isola in mezzo sarebbe ancora in mano ai britannici con
Gerusalemme. Questo piano viene rifiutato sia dagli arabi sia dai sionisti.
Con la fine della guerra scade il mandato britannico sulla Palestina e gli
inglesi vogliono uscire dalla situazione, ma devono far fronte non solo alla
guerriglia e alla lotta degli arabi ma anche al terrorismo sionista: Beghin
(futuro presidente del consiglio israeliano) era a capo del gruppo Stern, che
uccise con un attentato il mediatore dell'ONU, il conte svedese Folke
Bernardotte.
L'ONU propone un piano, appoggiato dagli Stati Uniti e dalla
Russia innanzitutto, per risolvere la situazione come meglio si riesce, ma
secondo una logica difficile da capire. Per esempio, il criterio della
spartizione non e' legato alla quantita' di popolazione presente, tant'e' che
alcune zone in precedenza assegnate agli arabi vanno ora agli ebrei. Vedere la
cartina 3.3 .
Qui si arriva al dunque, perche' questo piano viene accettato dai sionisti
e respinto dagli arabi. E' questo il momento in cui precipita la crisi e
inizia la guerra. Il 14 maggio 1948, di fronte al rifiuto arabo, Ben Gurion
proclama l'indipendenza d'Israele e la costituzione dello Stato israeliano.
Il giorno dopo inizia la guerra. Libano, Siria, Irak, Giordania ed Egitto
attaccano e invadono Israele (la Gran Bretagna ha gia' ritirato le proprie
truppe). La guerra viene vinta dagli israeliani e si conclude con un armistizio.
Si crea cosi' una situazione territoriale abbastanza simile a quella attuale
(cartina n. 4.1). Ma non solo gli israeliani occupano l'area della Palestina:
gli egiziani si appropriano della striscia di Gaza, mentre i giordani degli
attuali territori occupati, la Cisgiordania (il re Abdullah di Giordania sara'
per questo ucciso in un attentato nel '51). Con cio' si mise una pietra
tombale sopra la nascente questione della costituzione di uno stato
palestinese.
Dato quanto ho parlato finora salto tutta una serie di avvenimenti che
sarebbe importante illustrare, ma il discorso si farebbe troppo lungo. Ad
esempio, salto gli anni Cinquanta, in cui ci sono le lotte d'indipendenza
nazionale e contro le monarchie, Nasser in Egitto ecc. Nel '56 c'e' una nuova
guerra tra Israele e paesi arabi e inglesi e francesi mandano le loro truppe
contro l'Egitto che ha nazionalizzato il canale di Suez e l'esercito americano
sbarca in Libano. Nel '58 c'e' la costituzione della Repubblica Araba Unita
(Egitto e Siria) in contrapposizione al blocco monarchico Irak-Giordania, la
guerra del '67 in cui Israele raggiunge la massima espansione territoriale
(cartina n. 4.2), ecc.
Nel periodo seconda meta' degli anni cinquanta e primi anni '60 il
panarabismo punta all'unificazione dell'area, in un unico ricongiungimento
contro Israele e l'imperialismo occidentale. Ovviamente va tenuto conto di un
fatto: ad agire sono i militari, essendo la borghesia debolissima. In questi
Paesi e' l'esercito che costituisce il partito "Baath della rinascita araba", un
partito cosiddetto socialista, ma che ha posizioni che vanno dalla destra alla
"sinistra" (la destra e' al potere ancora oggi in Irak, con Saddam Hussein;
mentre il defunto presidente siriano Assad apparteneva all'ala sinistra).
Teniamo presente che, per tutto il corso degli anni Cinquanta e Sessanta,
Israele e' sostenuto a spada tratta dagli Stati Uniti, qualunque cosa
faccia, perche' in quest'area e' il cane da guardia degli interessi statunitensi
e occidentali. In quegli anni il Medio Oriente diventa un punto d'attrito
fondamentale tra il blocco occidentale e il blocco del capitalismo di Stato
sovietico. Il passaggio di tutta una serie di Paesi a questo secondo polo
avviene nel '56, a causa del rifiuto occidentale di finanziare la diga di Assuan
in Egitto, al che il presidente egiziano Nasser iniziera' a ricevere
finanziamenti dal blocco sovietico, che riuscira' ad entrare con maggior peso
nell'area con la fine della guerra del '56.
All'interno di questa situazione e di questa contrapposizione tra blocchi,
nel 1964 la Lega dei Paesi Arabi costituisce l'OLP, a capo della quale c'e'
Sukhairi, che e' un' emissario degli egiziani. Solamente nel '68, Arafat
prendera' la direzione effettiva dell'OLP e iniziera' quella guerriglia di cui
abbiamo parlato per trent'anni e la cui storia non e' qui riassumibile in poche
parole. Mi limito percio' a una valutazione politica.
Negativo, in Arafat e
nell'intera logica di Al Fatah, e' stato il rifiuto dell'ingerenza negli
"affari interni" dei Paesi arabi, rinunciando in questo modo ad un possibile
ruolo di effettivo panarabismo e di direzione democratico rivoluzionaria
nell'area. Al Fatah e' sempre stata finanziata dal Kuwait, dall'Arabia Saudita e
da tutta una serie di Paesi della Lega Araba. Ha pure seguito questa linea
politica della "non ingerenza" in due frangenti fondamentali, tra il '70 e il
'75 (gli anni delle lotte in Occidente, delle guerre contro il Vietnam, del
sostegno alla Palestina).
In quel periodo il panarabismo si ripropone in Giordania e in Libano, secondo
nuove e particolari modalita'.
In Giordania, dov'erano affluiti i
palestinesi scappati dai territori occupati durante la guerra del '67, si
realizzo' un'unita' di classe tra i palestinesi dei campi profughi e i
lavoratori e proletari giordani, tanto che si temette addirittura che
riuscissero a far cadere il regime monarchico. Non a caso questo reagi' con una
repressione spaventosa: il famoso Settembre nero.
La cosa si
ripropone in Libano, altro Paese ad alta densita' di campi profughi
palestinesi, dove si crea un legame profondo con il proletariato libanese, a
partire da Beirut. Anche li' scoppiera' la guerra civile, e questo legame verra'
schiacciato nel sangue. In questo caso saranno i siriani a farlo, appoggiando
l'estrema destra libanese: i falangisti (la Falange libanese e'
un'organizzazione cristiano maronita che prende il nome dalla Falange spagnola
degli anni Trenta) che sconfiggeranno i palestinesi nel 1976 a Tall
el-Zaatar, il campo profughi distrutto dopo svariati mesi di assedio. Questo
tentativo di unificazione dal basso, promosso principalmente dal Fronte Popolare
di Liberazione della Palestina (FPLP), dal Fronte Democratico di Liberazione
della Palestina (FDLP), insieme con altre organizzazioni minori, si fondava su
rapporti sindacali e politici concreti, che si vivevano quotidianamente a
partire dai campi profughi fino alla famosa periferia di Beirut Est.
Il problema dell'"ingerenza negli affari interni" si riproponeva, perche' li'
era il nodo politico centrale: per riprendersi la Palestina era necessario
scardinare l'intero ordine imperialista dell'area e creare un'unita' di classe a
livello di tutto il Medio Oriente. Questo era il tipo di percorso che
materialmente s'imponeva, al di la' del fatto che l'FPLP si legasse strettamente
alla Siria e l'FDLP si incamminasse in una linea di mero sostegno degli
interessi dell'Unione Sovietica nell'area.
Il cuore della questione stava
tutto nella necessita' di creare un'unita' di classe, compito che i militanti
palestinesi piu' radicali non seppero perseguire con coerenza, ma che arrivo'
fino a tentativi, pur molto timidi e parziali, di stringere legami con il
proletariato d'Israele, per la prima volta nella storia del conflitto israelo
palestinese. In quegli anni Settanta andarono in prigione - e non so quanti ce
ne siano ancora - diversi israeliani del "Fronte Rosso" per aver avuto rapporti
con il Fronte Democratico di Liberazione della Palestina (in Israele allora era
reato avere rapporti con i palestinesi).
Schiacciato il percorso abbozzato negli anni Settanta, si apre una fase
completamente nuova (tralascio che in mezzo ci sono state altre due guerre -1967
e 1973- tra Israele e i Paesi arabi), in cui saranno gettate le fondamenta, dal
punto di vista della diplomazia internazionale, della "pace2 (una parola sempre
molto ambigua). All'interno dell'amministrazione statunitense e nelle
cancellerie europee s'inizia a parlare della necessita' di trovare una soluzione
al problema palestinese. La conferenza di Ginevra che si apre in quegli anni,
per la prima volta, vede l'invito di una delegazione palestinese.
Gli interessi geostrategici americani sono quelli d'arrivare a una
pacificazione dell'area. Come sempre, c'e' un perche', che stavolta si chiama
rivoluzione iraniana. Nel '79 in Iran scoppia la rivoluzione, che non e' certo
antimperialista ma che, comunque, va a toccare elementi fondamentali della
rendita petrolifera e del controllo americano sul Medio Oriente (l'Iran dello
shah, insieme con Israele, era il cane da guardia degli USA). Quindi gli USA
hanno la necessita' di pacificare l'area mediorientale e del Golfo Persico (la
guerra dell'Iraq contro l'Iran, sara' una guerra che Saddam Hussein combatte su
procura americana).
Un altro grosso evento spinge verso la logica della "pace", con la fine del
blocco sovietico nel 1989, scompare il principale concorrente politico militare
all'ordine imperialista USA. Per la prima volta in questo secondo dopoguerra
prende il via una dinamica in cui gli interessi strategici dell'amministrazione
americana non coincidono piu' esattamente con quelli di almeno una parte della
borghesia israeliana. Non e' piu' cosi' immediato e automatico che qualunque
cosa faccia Israele sia accettata dagli Stati Uniti. Anche se la cosa avviene
molto silenziosamente, dietro le quinte, esiste una discrepanza: gli USA
vogliono arrivare a una pacificazione e l'Europa lo stesso.
In Israele,
invece, la situazione e' variegata: c'e' chi (non solo i partiti religiosi ma le
forze che sostengono oggi Sharon) propugna tuttora la teoria dell'Erez Israele
(Grande Israele), cioe' l'annessione dei territori occupati e lo sconfinamento
oltre il Giordano, ma questa teoria non coincide piu' con gli interessi
dell'amministrazione statunitense. E' in questo contesto che si arriva ai
famosi accordi di Oslo del 1993, il passaggio fondamentale che porta alla
situazione odierna.
Con gli accordi di Oslo, l'OLP ha riconosciuto in pratica il diritto
d'Israele a esistere, eliminando un punto centrale della sua precedente carta
costitutiva, laddove si parlava di cancellazione dello Stato d'Israele. Viene
messo in piedi un meccanismo che nel nome della "pace" segna la fine
della possibilita' dell'autodeterminazione palestinese. Quanto piu' va avanti
il cosiddetto processo di pace, gli accordi di OSLO, tanto piu' si allontanera'
una possibile autodeterminazione dei palestinesi.
Riassumo solo alcune delle clausole fondamentali di questo trattato. *(alla
fine c'e' una sintesi piu' estesa dell'accordo)
Viene previsto uno statuto particolare per la citta' di Hebron, di cui oggi
si sente spesso parlare perche' e' un nodo fondamentale della presenza ebraica.
Gli israeliani avrebbero mantenuto il controllo di Qiryat Arba, un
insediamento fatto in territorio occupato (il diritto internazionale vieta la
costituzione di insediamenti di coloni in tutti i territori occupati
militarmente: Israele e' l'unico Paese al mondo che non ha confini depositati
all'ONU, per l'ovvio motivo che tende ad allargarli).
A Hebron, oltre al
controllo ebraico, viene introdotta la polizia palestinese: 400 poliziotti
armati con 200 pistole e 100 fucili (nemmeno una pistola in due e un fucile in
quattro). Le forze di polizia in generale avrebbero avuto un armamento massimo
di 1500 armi leggere (tra fucili e pistole, 240 mitragliatrici, 45 blindati su
ruote, 15 veicoli leggeri disarmati. Il totale di polizia consentito sarebbe
stato di 1200 uomini in Cisgiordania e 1800 nella striscia di Gaza. La polizia,
senza avere alcuna possibilita' di contrapporsi a un esercito come quello
israeliano avrebbe avuto esclusivamente compiti di repressione interna, ne' piu'
ne' meno.
Tutta la zona chiara della cartina n.6 rimarrebbe comunque a
Israele. La Cisgiordania sarebbe divisa in tre aree.
L'area A comprende le
zone evacuate dall'esercito israeliano, su cui si sarebbe realizzata l'autorita'
dell'ANP. Questa e' l'area sotto controllo palestinese. Ovviamente, senza
possibilita' di armare un esercito, di esercitare la politica estera, di battere
moneta o cose del genere; cioe', senza le prerogative minime di qualunque Stato
che si voglia chiamare tale.
Poi ci sarebbe l'area B, comprendente la gran
parte delle citta' e dei villaggi arabi (circa il 68% della popolazione
palestinese). Su di essa l'ANP ha l'autorita' in campo civile e per l'ordine
pubblico, mentre la sicurezza e' affidata all'esercito israeliano. Cio'
significa che l'esercito israeliano entra ed esce da queste aree quando vuole
(quando al telegiornale sentiamo dire che c'e' l'esercito israeliano in
determinate zone, si sta parlando dell'area A, quella che dovrebbe essere sotto
il controllo di sicurezza dell'Autorita' Nazionale Palestinese).
L'area C e'
quella cosiddetta spopolata, dove ci sono gli insediamenti dei coloni e le
installazioni militari israeliane. Quest'area e' sotto l'esclusivo controllo
dell'esercito di Tel Aviv in termini di sicurezza.
I palestinesi per
muoversi devono percio' passare sotto il controllo dell'esercito israeliano. Non
esistono vie aperte con la Giordania; infatti c'era il progetto di un'autostrada
blindata tipo quella che portava al Muro di Berlino.
Tra le altre cose era
prevista la liberazione in tre fasi di tutti i prigionieri palestinesi, tranne
quelli responsabili di uccisioni o di lesioni gravi: Israele, cioe', rivendicava
a se' il diritto di decidere quali palestinesi potevano essere liberati e quali
no (si sa che ne sono stati liberati pochissimi).
Veniva chiesta la
cancellazione ulteriore di qualunque riferimento all'abbattimento d'Israele
nella carta nazionale palestinese (richiesta accolta).
Per quanto riguarda
Gerusalemme, il trattato di Oslo stabiliva che sarebbe stato fatto un accordo
successivo.
Acqua e fognature, due servizi fondamentali per una vita civile,
sarebbero rimaste sotto il controllo israeliano e demandate a successivi
accordi.
Questo breve riassunto dei punti fondamentali di Oslo serve a
chiarire che quando ci parlano di pace, specialmente nel corso dei dibattiti
televisivi, non ci si dice mai su che cosa vertano le trattative.
Sharon e'
andato al potere con un programma elettorale secondo cui i palestinesi
dovrebbero adattarsi al 42% di quanto previsto da OSLO, senza ulteriori
concessioni su acqua, fognature, controllo di sicurezza. A mano a mano che
venivano presentati i vari piani e via via che saltavano gli accordi, da parte
israeliana veniva levato qualcosa. Uno dei punti degli accordi di Oslo era che
non ci dovessero essere piu' insediamenti: al contrario, i coloni, da 100 mila
che erano nel 1993, sono oggi diventati 350 mila, se si calcola Gerusalemme.
Proprio a Gerusalemme, dov'era previsto che non si potesse edificare, sono stati
costruiti interi quartieri ebraici.
Quella dei coloni e' una questione
fondamentale anche in termini di controllo sociale. A mano a mano tutti i
negoziatori israeliani, che fossero laburisti o del Likud o di governi di
coalizione, hanno fatto andare avanti i coloni. Anche di recente sono stati
stanziati fondi per nuovi insediamenti. I coloni sono la base sociale ed
elettorale del Likud e della politica del Grande Israele. Questa gente, che
proviene sia dai Paesi dell'Europa orientale sia da varie altre zone e alla
quale si offre la possibilita' di una sistemazione a basso costo, terra' manu
militari quest'area e non se ne andra' via tranquillamente. Il gioco e' chiaro:
l'aumento degli insediamenti accresce i territori che vengono portati via ai
palestinesi. Si e' sempre fatto cosi', a grandi linee, e ancora adesso si
continua. Questo e' il maggior ostacolo alla possibilita' di raggiungere una
pace all'interno dell'area.
L'altro punto centrale e' la questione di
Gerusalemme. La cartina n.8 e' la pianta di Gerusalemme. Vi si vedono tutti
insediamenti (illegali dal punto di vista del diritto cosiddetto internazionale)
fatti nel corso degli ultimi anni. Gerusalemme Est e' una capitale annessa dal
1967 (anche cio' e' contrario al diritto internazionale). Sharon vuole
prendersela tutta; per questo vengono edificate tutte una serie di aree, cosi'
da scacciarne i palestinesi, ai quali dal '67 e' vietato di andare a abitare a
Gerusalemme.
Oltre all'aspetto simbolico e a quello dell'uguaglianza dei
diritti ve ne e' un altro, diciamo cosi', piu' materiale: attorno a Gerusalemme,
nell'area che viene "ebreizzata" dal governo israeliano, si trovano la maggior
parte delle fonti di sostentamento per la popolazione (i famosi pendolari
risiedono tutti in quest'area). Inoltre si sta creando una situazione
logistico-urbanistica che vede i palestinesi espulsi sempre piu' distante dalla
citta'.
Un altro punto e' quello del diritto al ritorno. Fino agli anni
Cinquanta vigeva una legge per cui qualunque ebreo che si recasse in Israele
otteneva automaticamente la cittadinanza israeliana. Il numero dei rifugiati
palestinesi sia nei territori occupati sia nel mondo arabo ammonta a circa tre
milioni. Per loro gli accordi di Oslo non hanno trovato alcuna soluzione.
Israele non vuole garantire alcun diritto al ritorno; ovviamente per i
palestinesi questo e' un punto irrinunciabile, soprattutto per Hamas (anche lo
sceicco Yassin si e' detto disponibile a raggiungere un accordo, purche'
sia riconosciuto questo diritto).
L'altra questione fondamentale che blocca il processo di pace e' quella delle
acque. Si presti attenzione alle sorgenti (orientate in due direzioni: una verso
il Giordano, l'altra verso il mare): sono tutte nei territori occupati. Quindi
controllare quest'area e' fondamentale; nessuno Stato puo' rinunciare al
controllo delle acque. Israele sta postponendo continuamente la stipula di
accordi stabili e duraturi su tale questione. L'erogazione delle acque e' fatta
anch'essa in maniera completamente diseguale, e non viene mosso alcun passo per
rendere possibile una cosiddetta equiparazione, in conformita' con quella che
avrebbe dovuto essere la logica dell'accordo di Oslo.
Questi, secondo me, sono i punti principali che bloccano il processo di pace.
Ma c'e' dell'altro.
Nel 2000, poco prima della fine della sua amministrazione, l'interesse
americano a chiudere questa faccenda faceva si' che venisse proposto il
cosiddetto piano Clinton. (cartina n. 7)
Quando si parla di pace, si nasconde questo fatto: ai palestinesi non sarebbe
data alcuna possibilita' di controllo dell'area, alcuna possibilita' di
costituire un'entita' indipendente. Detto cio', rimane un problema di fondo:
un'entita' del genere sarebbe un mini-Stato privo di ogni possibilita' di
sopravvivenza fuori del legame con Israele e avrebbe un'unica funzione: quella
di controllare i palestinesi che vogliono ritornare, i palestinesi che vogliono
abbattere Israele o avere dei confini accresciuti. Il movimento palestinese e'
stato messo in una grandissima difficolta'. La linea politica delle
organizzazioni di sinistra, come l'FPLP (che ha ucciso in un attentato il
ministro israeliano del Turismo Zevi) e l'FDLP, e' quella di rivendicare le
risoluzioni dell'ONU (la 242 e le altre) per tentare di influenzare al meglio i
colloqui di pace. Hamas sta acquistando un peso sempre maggiore, il che
sicuramente non ci fa piacere, per quello che rappresenta politicamente, essendo
una forza reazionaria islamica.
Oggi si sta sviluppando un'azione militare basata soprattutto sugli
attentati. Le manifestazioni sono pressoche' scomparse; non ci sono piu' lanci
di pietre ecc. Il fatto stesso che la polizia palestinese non riesca a contenere
l'azione di Hamas da' l'idea di quali siano i rapporti di forza in campo.
Sharon motiva gli attacchi come reazione agli attentati suicidi, che vengono
equiparati all'attacco contro le Twin Towers (il capo del governo israeliano ha
dichiarato che si deve combattere il medesimo terrorismo). Io, pur non avendo
alcuna simpatia per Hamas, ritengo che si tratti di due situazioni completamente
differenti. I coloni israeliani sono una struttura militare armata; questa
popolazione ha occupato un territorio altrui (anche se viene acquistato un
terreno non ci si puo' fare uno Stato). Gli attentati - che politicamente io non
farei, perche' mi porrei il problema di contattare il proletariato israeliano
(con tutta la difficolta' che cio' comporta, visto il suo sostegno al Likud) -
rientrano in una logica di guerra civile e di resistenza contro l'occupante.
Puo' non essere bello, possiamo discutere nel merito di azioni come queste, ma
sono una costante storica all'interno dei movimenti di liberazione nazionale: ad
Algeri si mettevano le bombe nei bar dei quartieri francesi, a Saigon
altrettanto. Si puo' discutere sull'utilita' politica da un punto di vista
comunista di attentati come quelli appena richiamati o di quelli che fa Hamas,
che si propone di costituire uno Stato islamico in Palestina e di colpire
indistintamente tutti gli ebrei.
Agendo da rivoluzionari comunisti penso che
si dovrebbero colpire lo Stato di Israele e le forze della borghesia israeliana,
tentando di costruire il legame con il proletariato di cui dicevo prima. Questa
involuzione militare porta veramente alla fine dell'autodeterminazione e della
possibilita' centrale: quella di scardinare l'equilibrio esistente in
quest'area. Il legame tra proletariato arabo-palestinese e proletariato
israeliano e' auspicabile, ma al momento ben poco praticabile. Finche' durera'
questa situazione il proletariato israeliano sara' legato mani e piedi al
sostegno del proprio Stato.
Se noi fossimo li', e fossimo israeliani,
dovremmo rivendicare l'incondizionato diritto all'autodeterminazione per i
palestinesi. E questo dovrebbe essere sostenuto da qualunque israeliano che
si definisse comunista.
Il problema non e' quello di ributtare a mare gli
ebrei - come veniva detto una volta dalla propaganda araba razzista - il
problema e' di abbattere lo Stato della borghesia israeliana. Con una linea
politica come quella attualmente dominante, di certo, non ci si riesce, ma va
nondimeno rifiutata la logica di chi dice: "E' tutto terrorismo". (Tra l'altro
Hamas non fa parte della rete di Al Qaeda, come non ne fanno parte gli
Hezbollah. Cio' e' riconosciuto, al di la' di quanto scrivono i giornali, anche
dagli analisti dei servizi segreti occidentali. Per dirne una, dopo che gli
Hezbollah sono stati inseriti da Washington nella lista del terrorismo
internazionale, il governo libanese li ha difesi, paragonandoli ai partigiani
europei, per aver resistito all'occupazione israeliana del Paese.)
Non mi piace in genere far citazioni di Marx - non penso infatti che quanto
dice lui o qualcun altro sia vero perche' lo dice lui - ma c'e' uno scritto suo
e di Engels a proposito di violenza e "terrorismo" che voglio qui ricordare, che
venne pubblicato sul "New-York Daily Tribune", del 5 giugno 1857, a proposito
della Cina:
"... Ora invece, almeno nei distretti del sud ai quali il conflitto e'
rimasto finora limitato, le masse popolari partecipano attivamente, quasi con
fanatismo, alla lotta contro lo straniero. Con fredda premeditazione, essi
avvelenano in blocco il pane della colonia europea di Hongkong... I cinesi
salgono armati sulle navi mercantili, e durante il viaggio massacrano la ciurma
e i passeggeri europei. Si impadroniscono dei vascelli. Rapiscono e uccidono
qualunque straniero capiti vivo nelle loro grinfie... Piuttosto che arrendersi
colano a picco con essi o muoiono nelle loro fiamme... A questa rivolta
generale contro lo straniero ha portato la brigantesca politica del governo di
Londra, che le ha imposto il suggello di una guerra di sterminio (s.n.)...
I trafficanti in civilta', che sparano a palle infuocate contro citta'
indifese, e aggiungono lo stupro all'assassinio, chiamino pure barbari, atroci,
codardi questi metodi; ma che importa, ai cinesi, se sono gli unici efficaci?
Gli inglesi, che li considerano barbari, non possono negar loro il diritto di
sfruttare i punti di vantaggio della loro barbarie. Se i rapimenti, le sorprese,
i massacri notturni vanno qualificati di codardia, i trafficanti in civilta' non
dimentichino che, come essi stessi hanno dimostrato, i cinesi non sarebbero in
grado di resistere, coi mezzi normali della loro condotta di guerra, ai mezzi di
distruzione europei. Insomma, invece di gridare allo scandalo per le crudelta'
dei cinesi... meglio faremmo a riconoscere che si tratta di una guerra pro aris
et focis, di una guerra popolare per la sopravvivenza della nazione cinese - con
tutti i suoi pregiudizi altezzosi, la sua stupidita', la sua dotta ignoranza, la
sua barbarie pedantesca, se volete, ma pur sempre una guerra popolare. E in
una guerra popolare, i mezzi dei quali si serve la nazione insorta non si
possono misurare ne' col metro d'uso corrente nella guerra regolare, ne' con
altri criteri astratti, ma solo col grado di civilta' che il popolo in armi ha
raggiunto (s.n.)".
Marx - F. Engels, India Cina Russia. Le premesse per
tre rivoluzioni, Il Saggiatore, 1976. pp. 196-197).
La stessa situazione si ripete oggi: contro un elicottero israeliano il
palestinese - per quanto non ci faccia piacere e benche' ci sia da discutere sul
fine e sugli obiettivi - non ha altra possibilita' che farsi esplodere nel mezzo
di una via di Gerusalemme. Dov'e' la violenza? Da che parte stanno la barbarie e
l'oppressione? In questo senso la solidarieta' con i palestinesi e'
incondizionata. Cio' non vuol dire accettare Hamas o affermare che questi metodi
come sempre validi, ne' che noi utilizzeremmo se fossimo li'. Ma questo e'
quanto sta avvenendo.
Quando si parla di pace, si parla di una pace imposta
a quest'area per dominarla, controllarla e condurre in "santa pace" quell'altra
guerra che e' gia' in corso in Afghanistan contro il cosiddetto fondamentalismo
islamico. E' una guerra imperialista di dominio, che viene giustificata con una
barbarie, un atto di guerra indiscriminato come quello compiuto a New York.
Altrettanto lo sono le bombe sull'Afghanistan, non solo contro il civile
innocente (il civile non e' innocente di per se stesso), ma anche il poveraccio
in divisa che e' costretto ad andare a combattere per interessi non suoi.
Il piano Sharon rappresenta il mantenimento dell'oppressione nazionale,
della guerra in Israele e in Palestina. In quest'ottica non ci sara' mai pace
che non sia una pace di distruzione dei diritti dei palestinesi e delle loro
possibilita' di sopravvivenza.
Domanda
Che cosa intende il relatore per autodeterminazione? Autodeterminazione
significa creazione di uno Stato, il che prevede una borghesia
nazional-rivoluzionaria - inesistente in quest'area - che dia vita a
un'amministrazione e avvii tutta una serie di lavori. L'ANP e' riuscita a creare
solo una polizia che, per quanto poco armata, ha sparato sulle stesse persone
che rappresentava. Non c'e' stato nessun altro tipo di sviluppo. La mia domanda
non poggia su di un'istanza banalmente antistatale. La questione che pongo e' la
seguente: quale forza materiale e quale involucro dovrebbe avere
l'autodeterminazione palestinese? Secondo me c'e' un'ambiguita' di fondo quando
dici: "Dovremmo fare cosi', pero'". Se partiamo dal presupposto militante che
il nazionalismo in quest'area e' un nazionalismo indotto dall'una o dall'altra
borghesia (quella palestinese se la spassa benissimo e va a puttaneggiare con
tutte le amministrazioni possibili), se partiamo dal rifiuto del nazionalismo e
quindi dall'affermazione del disfattismo rivoluzionario e della necessita' di
un'unita' con quei proletari israeliani che votano Likud ma che sono anche carne
da cannone, l'opzione politica non puo' essere se non la fraternizzazione, sul
piano organizzativo, sindacale, politico, dell'associazionismo ecc. Da questo
punto di vista non puo' darsi che un rifiuto nettissimo della strategia politica
di Hamas. Non faccio una critica moralista della violenza; m'interrogo sull'arco
di forze sociali, e sulle relative espressioni politiche, con cui posso
costruire una traiettoria di cambiamento di questa societa'. Le intuizioni
maggiori dell'FDLP, prima che si perdesse nelle vie di Mosca, sono tuttora
attuali, perche' il nazionalismo e' ancora piu' indotto che negli anni Settanta
e la possibilita' di creare un'entita' statale separata e' ulteriormente
diminuita.
Ancora due osservazioni.
Si fa un errore se si considera la
popolazione palestinese come legata solo a quel territorio, in quanto e' la
forza-lavoro a basso costo quantomeno di tutto il Medio Oriente, una
forza-lavoro sradicata.
Sono pienamente convinto che per un'organizzazione
comunista ogni azione intrapresa debba dare un risultato positivo (+ 1). Quando
da un attentato l'organizzazione in quanto tale ricava una diminuzione ( - 1),
vi e' un problema di fondo. E' vero: Algeri, Saigon ecc., ma allora non c'era la
tendenza al martirio. Lo stesso problema si pone, per esempio in Turchia,
rispetto ai prigionieri politici, con la strategia dello sciopero della fame
fino alla morte.
Risposte
Sono stati tirati fuori tutti i nodi politici fondamentali della
questione palestinese. Parto dalla fine: sulla questione del martirio la penso
allo stesso modo: non credo che in una prospettiva politica comunista
organizzata ci possa essere spazio per una logica di martirio o per cose del
genere. Il martirio non solo e' avulso dal nostro mondo, ma se l'aspettativa
politica - la creazione di un mondo nuovo, libero, aperto - passa attraverso
questi atti vi e' una contraddizione troppo forte. Noi lavoriamo per liberare
l'uomo, non per ammazzarlo o perche' si ammazzi in azioni di questo tipo.
Il
fatto di cercare di capire la logica degli attentati di Hamas non significa
condividerli. (E sicuramente in un'ottica comunista bombe come quelle Hamas
portano a - 1. Il problema e' che per Hamas portano a + 2, + 3, + 4, proprio
perche' ha un'impostazione completamente diversa dalla nostra.) Se fossi
presente in Palestina, dovrei intervenire contro questo tipo di azioni,
nonostante tutte le difficolta' esistenti, cercando di creare un legame con i
proletari israeliani. Io penso che se operassi li' da palestinese, dovrei pormi
come centrale questo tipo di rapporto, per rompere un muro che e' spaventoso,
sia nel campo israeliano sia in quello palestinese. Nel campo israeliano, dal
punto di vista dell'associazionismo sindacale, stante che l'Histadrut (un
sindacato pressoche' di Stato) supporta i coloni e ha cointeressenze finanziarie
di vario tipo. Dal punto di vista palestinese si arriva alla questione centrale:
la messa in discussione della leadership dell'OLP. Lo si sarebbe dovuto fare
molto prima. Questa leadership dell'OLP, da una direzione borghese inconseguente
rispetto ai compiti di rivoluzione democratica qual era, e' diventata una
direzione conseguente nella difesa degli interessi di pacificazione dell'area.
Il tragico e' che non ci sono altre forze che si stiano muovendo con cui poter
aprire un dibattito politico. L'opposizione che dovrebbe essere piu' radicale,
quella dei Tanzim di Barguti, oscilla sempre fra il rispetto per Arafat e scambi
d'occhiate con le masse, senza optare per una politica indipendente.
Un'altra questione centrale e' quella della fraternizzazione. Non l'ho detto
prima, perche' sarebbe stato troppo lungo, ma io penso che il problema
palestinese possa essere risolto solo nel quadro di quella che definisco una
rivoluzione d'area. Il controllo dell'imperialismo, cioe', in quest'area salta
solo se affrontiamo la questione israelo-palestinese tessendo legami politici e
organizzativi in una prospettiva d'area, facendo saltare la Giordania, il Libano
ecc. e riportando l'unita' in un'area territoriale, cosi' da costruire
effettivamente un mercato comune, un mercato unico d'area che possa diffondere
un spinta rivoluzionaria. Se per assurdo scoppiasse una rivoluzione comunista in
Palestina, l'indomani sarebbe gia' entrato in azione l'esercito giordano (come
e' gia' successo con il Settembre nero, come in Libano con i siriani). Il
problema e' che va fatta saltare tutta l'area. Tra il dire e il fare c'e' di
mezzo un percorso politico lunghissimo, che nella fase odierna non e' sentito
dai militanti palestinesi.
A proposito dell'autodeterminazione e del
nazionalismo, bisogna capirsi. Io ritengo che le nazioni vadano superate,
abbattute, che non siamo piu' nella fase in cui le lotte d'indipendenza
nazionale svolgono un ruolo progressivo. Questa fase e' stata chiusa negli anni
Sessanta; oggi non esistono piu' borghesie democratico-rivoluzionarie in questa
parte del mondo. Pero' questo fatto non elimina l'oppressione nazionale:
l'imperialismo e le sue strutture statali di vario genere creano tutta una serie
di aree e territori in cui l'oppressione nazionale esiste. Allora su questo non
possiamo glissare; fin tanto che esistono queste oppressioni, i proletari, le
masse che si muovono in queste aree, saranno inchiodati a questa prospettiva
dalla materialita' stessa della loro condizione. Qui non stiamo parlando
solamente di un problema idealistico, a livello nazionale palestinese, stiamo
parlando del problema materiale di schiodarsi da un'oppressione tremenda, e cio'
vuol dire affrontare il problema della nazionalita' palestinese, che secondo me
non potra' andare in porto limitandosi solo e unicamente ai confini dell'attuale
Israele (o Palestina, come la si voglia chiamare). Come va affrontata
l'autodeterminazione palestinese? Secondo me attraverso la creazione di uno
Stato, ma non di uno Stato che sia in mano ad Arafat, o all'OLP o men che meno
ad Hamas. Con una vecchia formula degli anni Venti, uno Stato di dittatura
democratica degli operai e dei contadini, in cui queste forze siano veramente
rappresentate e non lo siano invece le forze della borghesia, tanto israeliana
che palestinese; uno Stato il cui compito principale sia quello di scollarsi dal
controllo imperialista dell'area, in cui sia possibile creare un nuovo tipo di
legame con i proletari israeliani.
Se guardiamo il problema da parte
palestinese, ci s'impone quest'ottica. Se lo si guarda da parte israeliana -
dall'altro corno del dilemma - la prima cosa che qualunque comunista d'Israele
dovrebbe dire e' che i palestinesi hanno un diritto immediato
all'autodeterminazione, che significa poter decidere immediatamente del loro
destino. Dopo, questo stesso comunista potra' andare a dir loro: facciamo
qualcosa insieme contro quei bastardi alla Sharon o quelli che avete voi, per
vivere meglio tutti e porre fine allo sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Andra'
poi svolta una battaglia politica perche' questa possibilita' di decisione non
si limiti a uno Stato come quello prefigurato dall'ANP, uno Stato con sette
servizi segreti e una polizia che arresta solo i militanti palestinesi.
(Non e' stato possibile correggere meglio questo testo, il lettore non ce ne
voglia troppo)
Accordi di OSLO
OSLO 1: E' una dichiarazione dei principi e lo scambio delle lettere di
riconoscimento reciproco
OSLO 2: Accordo ad interim israelo-palestinese sulla Cisgiordania e la
striscia di Gaza elezione nei Territori di un consiglio di 82 membri e un
presidente di un'Autorita' esecutiva, che si sarebbero insediati 22 giorni dopo
il riposizionamento dell'esercito israeliano fuori dei centri piu' popolosi
della Cisgiordania. clausole speciali per Hebron, compreso il ritiro
dell'esercito israeliano entro il 28 marzo 1996, Israele avrebbe mantenuto il
controllo del sobborgo di Qiryat Arba, della Tomba dei patriarchi, del quartiere
ebraico e della "citta' Vecchia", fino a 400 poliziotti palestinesi sarebbero
entrati nella citta' con 100 fucili e 200 pistole l'ANP avrebbe assunto il
controllo delle aree della Cisgiordania evacuate dall'esercito israeliano,
assicurandovi la sicurezza con forze di polizia fino a un massimo di 1.200
uomini in Cisgiordania e 1.800 nella striscia di Gaza le forze di polizia
avrebbero avuto un massimo di 1.500 armi leggere (tra fucili e pistole), 240
mitragliatrici, 45 blindati su ruote e 15 veicoli leggeri disarmati israeliani e
palestinesi avrebbero effettuato pattugliamenti congiunti su itinerari
prestabiliti ulteriori riposizionamenti dell'esercito israeliano fuori dei
centri rurali arabi della Cisgiordania sarebbero stati effettuati gradualmente,
a intervalli di sei mesi, entro un anno e mezzo dall'insediamento del consiglio
le truppe israeliane alla fine sarebbero rimaste solo negli insediamenti e in
alcune installazioni militari concordate, il cui destino sarebbe stato definito
dai negoziati sull'assetto definitivo Israele avrebbe garantito il transito di
veicoli e passeggeri dalla striscia di Gaza alla Cisgiordania lungo percorsi
prefissati la sicurezza dei confini della striscia di Gaza e della Cisgiordania,
degli insediamenti dei coloni e degli israeliani residenti nei territori sarebbe
stata di competenza israeliana la Cisgiordania venne divisa in tre aree (a
macchia di leopardo):
Area A: citta' e zone
evacuate dall'esercito israeliano. Su di esse avrebbe avuto la responsabilita'
della sicurezza e dell'ordine pubblico
Area
B: gran parte delle citta' e dei villaggi arabi (circa il 68% della
popolazione palestinese). Su di essa l'ANP avrebbe avuto piena autorita' in
campo civile e per l'ordine pubblico; per la sicurezza l'autorita' sarebbe stata
israeliana.
Area C: le zone pressoche'
spopolate delle Cisgiordania, gli insediamenti dei coloni e le installazioni
militari. Israele avrebbe mantenuto sicurezza e ordine pubblico, l'ANP i servizi
civili (sanita', educazione, ...) per la sola popolazione araba. liberazione in
tre stadi di tutti i prigionieri palestinesi, tranne quelli responsabili di
decessi e lesioni gravi l'ANP non avrebbe dovuto infliggere maltrattamenti,
violenze, punizioni o vessazioni ai palestinesi che avevano collaborato con
Israele l'ANP avrebbe dovuto apportare i previsti cambiamenti alla Carta
Palestinese (la cancellazione d'Israele) sarebbero stati avviati successivi
negoziati per lo status definitivo dei Territori (Gerusalemme, insediamenti,
localita' militari, profughi palestinesi e relazioni internazionali) non piu'
tardi del 4 maggio 1996, attuando le Risoluzioni ONU 242 e 338 acque e
fognature: Israele riconosceva i diritti dei palestinesi alle acque della
Cisgiordania, ma la questione veniva rimandata al negoziato sullo status
definitivo. Nel frattempo Israele si impegnava ad aumentare le quote d'acqua per
i palestinesi e l'ANP si impegnava a non fare nulla che mettesse in pericolo le
risorse idriche di Gaza e Cisgiordania (da cui Israele ricava gran parte del
proprio fabbisogno)