dentro... FUORI
Quotidianamente, per circa una settimana, i giornali non hanno parlato
d’altro che del caso Napoli, degli 8 poliziotti arrestati per le
violenze nella caserma Raniero dopo la manifestazione del 17 marzo 2001.
Appunto.
Le violenze della Raniero. Eppure ogni quotidiano dedicava pagine
intere al caso, corredandolo però con le fotografie degli
scontri di piazza. E in particolare, sempre in bella mostra, ne
figurava una: quella che ritrae un poliziotto con lo scudo alzato per
difendersi da una spranga che lo sta per colpire brandita da qualcuno
incappucciato.
È da qui che voglio partire.
Già da molto, ma in particolare da Genova, i media ufficiali ed
anche parti consistenti del movimento hanno tirato una bella linea
divisoria: da un lato, che poi sarebbe dentro, i buoni, quelli che sono
incanalati in percorsi e metodologie di piazza più o meno
accettati e avallati dal sistema, dal mondo del pacifismo attivo
finanche alle tute bianche, le cui pratiche neodisobbedienti, in un
modo o nell’altro, conducono alla ricerca della pace sociale attraverso
un mero esercizio sportivo che depotenzia, disinnesca e reprime quella
legittima carica istintiva di violenza propria di qualunque movimento
radicale; dall’altra parte di questa immaginaria linea, che invece
sarebbe fuori, ci sono i cattivi, siano esse “effimere schegge
spazio-temporali sottratte all’oppressione del dominio totalitario
capitalista”, forse quella parte che vive e contesta il capitalismo
proprio come un sistema totalitario che estende il suo dominio reale
sulle forme della vita quotidiana o, più semplicemente, quanti,
attaccati dalla polizia, decidono di non fuggire e ingaggiare una dura
lotta di resistenza, ma in definitiva chi, vuoi per mero istinto di
resistenza, vuoi per autodifesa, vuoi per la radicalità delle
proprie idee, occupa un livello superiore di pericolosità per
l’autoconservazione del sistema.
Ecco il punto: da un lato la repressione del sistema, dai manganelli al
controllo telefonico e telematico, dall’altro quella che potremmo
definire “repressione interna”, che poi è il fuori dal movimento
a chi non si conforma ad un modo più o meno unico, cioè
pacifico o al limite “disobbediente”, di manifestare le proprie idee.
Anche nel Forum Sociale Mondiale è valsa questa linea tanto che
all’ultima assise a Porto Alegre le Farc-ep, che sono il più
avanzato fronte di resistenza all’imperialismo americano in Colombia,
non sono state ammesse ai lavori, evidentemente perché il loro
antimperialismo o non interessa, o viene considerato “cattivo”, o
forse, ancora, la categoria imperialismo non è parte del
linguaggio e del vocabolario politico dei signori di Porto Alegre.
Ad altro livello, ciò accade anche nei cortei, in cui i vari
Casarini o Agnoletto che siano, parte della benemerita società
civile e di Rifondazione Comunista e altri sono pronti a sputare in
faccia a chi non si conforma alla piega borghese e aprioristicamente
pacifista che hanno voluto dare al movimento antiglobalizzazione.
È incredibile che proprio mentre il fenomeno “globalizzazione”,
soprattutto dopo l’11 settembre, è impegnato a dividere il mondo
tra gli amici degli USA, i “buoni”, e i suoi nemici, i “cattivi”, e,
sulla scorta di ciò, in Palestina anche Sharon si appella ad un
sedicente terrorismo per avanzare la sua offesa al popolo palestinese,
il movimento antiglobalizzazione utilizzi le sue stesse categorie
interpretative.
L’esempio più lampante avviene all’inizio di febbraio: mentre a
Porto Alegre si svolgeva il II Forum Mondiale Sociale, a Monaco si
davano appuntamento i signori della NATO, proprio per redigere la
famosa lista degli “stati canaglia”, i cattivi appunto, e per negoziare
le vendite e gli acquisti di armi, la preparazione, cioè, delle
strutture belliche da muovere contro i paesi della lista. Inoltre
è proprio quel vertice che porrà le basi per ulteriori
allargamenti nelle file dei cattivi, PKK ed IRA fra i primi.
Soltanto alcune frange del movimento, in prevalenza anarchici e
autonomi, decidono di contestare quel vertice sotto il silenzio dei
media, troppo intenti a “mondealegrizzare” il movimento.
In questa cornice di silenzio, i contestatori di Monaco hanno subito un
repressione senza precedenti, una repressione fatta non di manganelli
ma di fermi dei pullman nelle piazzole delle autostrade, segnalazioni
fotografiche e analisi delle urine in loco, sequestro di ogni tipo di
materiale, il tutto finalizzato a trovare un qualunque pretesto per
vietare la prosecuzione del viaggio: alcune persone sono state mandate
indietro a causa di “carenza di denaro per soggiornare in Bavaria”,
altre sono state definite “indesiderate” perché avevano fumato
qualche spinello, ma di casi ce ne sono a bizzeffe. A Monaco, in
definitiva, non è potuto arrivare nessuno, salvo quelle poche
migliaia che già vi si trovavano, e da Porto Alegre neppure una
voce di solidarietà.
È quantomeno preoccupante.
E lo è ancor di più il fatto che accanto a questo
fenomeno di repressione-divisione-repressione se ne innesti
perfettamente un altro: l’evoluzione, in senso globale, del potere
giudiziario.
Mentre a livello globale si va sempre più affermando un sistema
giuridico occulto e parallelo, formato in sostanza dalla CIA e dai
servizi segreti internazionali, nella misura in cui sono loro a
decidere gli amici e i nemici dell’umanità, i buoni e i cattivi,
il bene e il male e, in definitiva, il giusto e l’ingiusto, a livello
locale ciò si riflette nel depotenziamento del potere
giudiziario a favore di una più larga autonomia degli apparati
repressivi interni, le polizie d’ogni sorta, gestiti dal potere
esecutivo attraverso il Ministero degli Interni.
Il divide et impera è completo.
Con lo zampino o l’ingenuità di qualche movement-man troppo
intento a stare nel sistema con le sue beghe da quattro soldi, invece
che pensare ai bisogni reali dei popoli. |