Guerra necessaria?
“Ci troviamo nella situazione piuttosto particolare in cui
l’umanità sviluppa gli strumenti per il suicidio collettivo“
è quanto affermava J. Galtung in relazione al frenetico riarmo
che caratterizzò gli anni settanta e che aveva dato alla luce un
vigoroso movimento pacifista internazionale. A distanza di circa 40
anni le parole di Galtung ci appaiono ancor, se non di più
valide, nonchè sempre più condivise dalla
società civile da portare ad eventi senza precedenti nella
storia come la manifestazione mondiale per la pace che ha portato in
piazza circa 110 milioni di persone nel mondo (di cui 3 milioni a Roma)
e data l’imminente minaccia di una guerra preventiva all’Iraq in
nome del
terrorismo.
Un chiaro segno di opposizione all’utilizzo della guerra per la
risoluzione delle questioni internazionali ed in particolare di quella
irakena, si è levato il 15 febbraio dalle piazze di tutto
il mondo, la società civile ha scelto dunque di riappropriarsi
degli spazi politici sottrattigli e con la consapevolezza del
significato politico dell’11 settembre non vuole scendere a patti per
nuove vittime innocenti e non vuole coprire con l’ipocrisia
dell’embargo la morte di milioni di bambini e che è
soprattutto stanca di vedersi propinare per necessarie, guerre il
cui obbiettivo è puramente strategico propagandate come
guerre per la difesa dei diritti umani o per estirpare il terrorismo.
L’attenzione americana è da lungo tempo concentrata
sull’Iraq, come dimostra la guerra del golfo nel 91. Occhi americani,
soprattutto quelli attenti di una famiglia di petrolieri come quella
dei Bush, si sono poggiati sulle ingenti riserve petrolifere di questo
paese; la dove l’importanza di tale risorsa è data dal fatto che
oggi si consumano circa 60 milioni barili al giorno, di questi
però 24 in USA e12 in Europa.
Dunque l‘Iraq ha costituito sin dagli anni90 una priorità per
l’amministrazione americana fatta eccezione il periodo che va dalla
fine 98 in questa situazione vi erano infatti questioni
più serie quali quella cinese ,quella russa e il programma
di allargamento della Nato contemporaneamente la diplomazia sembrava
raggiungere maggiori risultati,dato il tentativo di costituire un
Congresso Nazionale Iracheno che doveva raggruppare le diverse
opposizioni al regime.
Rimuovere Saddam è tornata ad essere uno dei principali
obiettivi dell’amministrazione americana con l’insediamento del nuovo
presidente Bush jr il quale ha chiamato, non a caso, a dirigere la
politica estera del governo , uno dei protagonisti della guerra nel
golfo, il generale Colin Powell. La situazione internazionale non era
però adatta ad un nuovo uso della forza soprattutto con la
ribollente questione palestinese, il quadro però cambierà
con gli attacchi dell’11 settembre e la rapida vittoria in
Afghanistan;l’Iraq sarà infatti subito accusato di
praticare e coltivare il terrorismo e occultare alla
comunità internazionale il possesso di armi di distruzione di
massa preparando il terreno per una nuova guerra.
In realtà dopo l’11 settembre c’è la convinzione che i
sauditi, da cui dipendono gran parte dei rifornimenti delle compagnie
petrolifere americane, non siano più un partner
forte,soprattutto i rapporti tra i due paesi si sono inevitabilmente
raffreddati all’indomani degli attacchi all’america data la massiccia
presenza di cittadini sauditi nel commando guidato da Mohammed
Atta e per lo scontato rifiuto di appoggio di Ryad nella lotta a
Saddam. Appare dunque sempre più evidente l’idea di
salvare il mondo dalle armi di distruzione di massa sia solo un
pretesto;ancor più se si considera che a fornire quelle armi a
Baghdad furono proprio gli americani nella guerra contro l’Iran.
Il controllo dell’Iraq, l'instaurazione di un governo amico diviene
sempre più strategicamente necessario ancor più dopo le
ultime dichiarazioni INC secondo il quale nel caso in cui Saddam venga
deposto, il nuovo governo sottoporrebbe a revisione gli accordi
già stretti con le compagnie francesi, russe a favore delle
compagnie statunitensi. In questi anni la politica di Baghdad, infatti,
sono state rivolte a quei paesi che hanno dimostrato in qualche modo
appoggio politico Russia, Cina e Francia ai quali l’Iraq ha venduto i
diritti per lo sfruttamento di aree che dovrebbero contenere circa 44
mld di barili di petrolio ad alcuni giganti europei come Eni,
Lukoil.
Al momento tali progetti di sfruttamento non possono essere
realizzati perchè l’attuale situazione politica vede
l’Iraq sottoposto a sanzioni economiche stabilite dall’ONU ma se
l’embargo varrà revocato tali riserve non utilizzate cadrebbero
in mani non statunitensi e l’unico modo di impedire ciò è
la guerra. All’indomani del conflitto gli scenari prospettati sono
dunque diversi che hanno però un comune denominatore
l’affermazione in territorio iracheno di una potenza occidentale
USA o europea che ne snaturi le tradizioni culturali e politiche
ma che soprattutto consegnerà definitivamente questo paese alla
subordinazione, alla miseria, alla morte.
L’Iraq nel frattempo vive in uno stato di guerra da quasi 12 anni
l’embargo ha portato a livelli inauditi di degrado alimentare,
sanitario, economico con una popolazione allo stremo e con una
preparazione militare stimata 1/3 di quella del 91.
Appare ormai evidente che tutto sommato la comunità
internazionale rappresentata dall’ONU non voglia occuparsi di tutto
ciò, nè voglia riflettere sull’effettiva
inevitabilità di un conflitto preferendo piuttosto sottomettersi
alle voci di chi ha più interessi presentandosi pronta per
l’ennesima volta a legittimare una guerra strategica, una guerra
imperialista. |