Parole che hanno visto
Tra il 28 marzo e il 4 aprile è partita la prima carovana
internazionale per la Palestina: qualche centinaia di persone (in
maggioranza francesi e italiani) si sono recate nei territori occupati,
a Ramallah, a Betlemme, a Jenin, negli ospedali, nelle chiese, a fare
azioni di interposizione, a scortare medicinali, a dare assistenza e
fornitura di beni di prima necessità.
La vicenda palestinese s’innesta perfettamente nel quadro di un sistema
globale che impone la guerra come mezzo di accaparramento di risorse e
fondamentale motore della ripresa economica.
La vicenda palestinese è, dunque, un particolare del globale.
Infatti la creazione di aree di crisi nel sistema “mondo” è
funzionale agli interessi delle aziende petrolifere e del capitale
finanziario che definisce, per la propria autoconservazione, sempre
nuovi orizzonti predatori al fine di depredare risorse e
ricchezze.
D’altro canto tali implicazioni globali sono confermate dal continuo
deteriorarsi della credibilità e del ruolo dell’ONU all’interno
del mondo globalizzato del post-guerra fredda: come in ogni contesto
internazionale ove vi siano interessi economici legati al petrolio,
alla finanza, al commercio illegale di armi e droga e altro, anche nel
caso Palestina l’ONU mostra la sua impotenza di fronte ai potentati
economici globali. I limiti delle Nazioni Unite non risiedono solo
nelle sproporzioni, in termini di valore, tra gli Stati membri del
Consiglio di Sicurezza e gli Stati membri dell’Assemblea, ma anche
nella dicotomia che esiste tra interessi nazionali e globali da un lato
e interessi collettivi dall’altro: un organismo come l’ONU, in un
contesto in cui il padrone è il capitale e gli asserviti i
dannati della terra, è perdente in partenza.
Ma proviamo a contestualizzare: quali sono gli effetti locali di questa implicazione globale?
Per rispondere abbiamo chiesto un contributo a un compagno di ritorno dalla Palestina, Nicola.
Cosa ti ha spinto ad andare in Palestina?
Sono convinto che la solidarietà internazionale non sia una
sorta di dovere morale ma una vera necessità storica nella
misura in cui siamo tutti parte di un complessivo processo su scala
planetaria per la liberazione dell’essere umano.
Esiste un filo che lega l’intifada, la lotta dei Kurdi e ogni conflitto che nasce nel cuore della metropoli capitalista.
Che situazione hai trovato in Palestina?
Dunque, la situazione è quella di una sistematica violazione dei
diritti umani. Basti pensare che a Ramallah le cariche più
violente contro la delegazione internazionale si sono scatenate proprio
mentre tentavamo di far entrare un carico di medicinali, del resto la
follia genocida d’Israele è testimoniata anche dalle
verità che finalmente sono emerse sui massacri a Jenin.
In Occidente, l’informazione ufficiale stenta nel riconoscere uno stato
di guerra che è posto in essere dalla militarizzazione dei
territori. Ma cosa significa in termini reali, cosa vedono gli occhi di
chiunque in Palestina?
Gerusalemme è stata trasformata in una grande caserma,
polarizzata in microcosmi etnici pronti ad esplodere. Uscendo dalla
città appare chiaro come l’urbanizzazione sia stata adoperata
come tecnica per sottrarre terra ai palestinesi o per accerchiarli.
Strade by-pass (che tagliano i territori), posti di blocco, strisce
chiodate, carri armati e militari armati fino ai denti fanno il resto.
Le case dei coloni, poi, sono veri e propri fortini, recinzioni di un
potere che non è mai stanco di accaparrarsi terra altrui
massacrando e depredando.
In Israele, Sharon è a capo di un governo di unità
nazionale. Cittadini israeliani occupano delle terre all’interno dei
territori palestinesi (i famosi coloni). I palestinesi rispondono al
loro massacro, ormai pluriennale, attraverso la resistenza, anche nei
termini estremi e disperati dei kamikaze, favorendo, in alcuni casi,
l’ideologia, tutta sionista, dell’autodifesa contro il terrorismo.
Come si pone, in questo quadro, la società israeliana?
La società civile in Israele è totalmente assorbita
nell’esercito. Non è un caso che elementi di contestazione che
abbiano una qualche rilevanza sociale e politica vengano proprio
dall’esercito, ad esempio con il movimento dei riservisti.
In generale, mi sembra che sia una società completamente votata
all’opzione ideologica del neoliberismo con forti spinte militariste
funzionali alla rapina delle risorse palestinesi.
Per quanto riguarda l’opzione terrorista da parte di alcune frange di
palestinesi, credo che in larga parte sia dovuto
all’eccezionalità della situazione palestinese: nei campi
profughi ci sono condizioni di miseria talmente forti che spingono a
veri e propri gesti di disperazione. Appare chiaro, d’altro canto, che
la lotta al terrorismo sia la cortina di fumo dietro cui vengono celati
gli interessi imperialisti dei sionisti e del capitale yankee.
Vuoi dire che chi si fa saltare in aria è spinto solo dalla
disperazione? Non potrebbe esserci anche una lucida logica politica e
un preciso disegno di lotta dietro i kamikaze?
La questione, lungi dall’essere etica o morale, è piuttosto
strategica: in una situazione di guerra come quella che si delinea nei
territori, in cui si è attaccati con i tanks e i carri armati e
il popolo palestinese non può neppure confrontarsi con
l’esercito israeliano secondo le tradizionali regole di guerra, con
pari mezzi e pari forza di fuoco, in cui, in breve, l’apparato militare
israeliano è inattaccabile per i mezzi militari palestinesi,
s’individua nel tessuto sociale e civile, insomma nella popolazione e
nei coloni, l’unico bersaglio possibile per i palestinesi: indebolire
la società israeliana diventa, e probabilmente lo è
davvero, l’unico obiettivo credibile. Al di là della
condivisione di tali azioni, bisogna pur riconoscerne, in un ambito di
guerra, una logica e una validità strategica.
Che soluzione intravedi per la questione palestinese?
Sharon punta chiaramente ad una pace che sia il trionfo del sionismo e
la negazione di ogni diritto per i palestinesi, avendo chiaro che in
una ipotesi di scontro di lungo periodo, l’intifada come forma
capillare di conflitto di massa, è destinata ad avere la meglio
persino sulla evoluta tecnologia militare sionista.
Vuoi dire che Sharon ha paura dell’intifada e intende liquidarla il prima possibile?
Esatto, ed è per questo che l’autodeterminazione del popolo
palestinese attraverso la sua lotta è l’unica prospettiva capace
di portare alla creazione di uno stato palestinese sovrano sui suoi
territori.
L’intifada è, a mio avviso e oltre una sua visione strettamente
romantica, una pratica di liberazione, una forma politica attraverso
cui si esprime il processo di autodeterminazione, e quindi allo stesso
tempo, il conflitto, l’identità e la pulsione per
l’emancipazione del popolo palestinese.
Che tipo di istanze vi sono venute dal mondo palestinese?
Quando siamo entrati a Betlemme siamo stati accolti con molto calore
dal popolo palestinese ed è stato in quella occasione, durante
un’affollatissima assemblea, che sono emersi da un lato la
necessità di fare pressione sulle istituzioni una volta tornati
in Italia, dall’altro, e con più forza, il senso più
profondo della nostra presenza in Palestina: l’intrecciarsi dei nostri
vissuti, delle nostre paure e delle nostre lotte contro i signori della
guerra. |