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tratto da CONTROSAPERE - Maggio '05 - del C.U.A. di Torino

La lunga lotta dell'universita' contro la Moratti

Un primo bilancio

Proporre una valutazione della mobilitazione che da piu' di un anno attraversa gli atenei contro il progetto di riforma dello stato giuridico dei docenti e' giusto e utile ma, nel contempo, molto difficile, cosi' come interrogarsi sulle sue prospettive future. Questo non solo per la confusa situazione politica, che rende complicato prevedere quale sara' la sorte del provvedimento, ma, anche, per le peculiarita' e contraddizione della protesta. e' opportuno iniziare dagli aspetti positivi, tra i quali l'esistenza stessa del movimento che ha permesso l'affermarsi di una dimensione collettiva di discussione e d'iniziativa, la sua estensione a livello nazionale e l'ampiezza dei soggetti coinvolti. Colpisce l'attenzione, inoltre, la durata della mobilitazione: dopo l'approvazione da parte del consiglio dei ministri del disegno di legge delega, il 16 gennaio 2004, l'opposizione ad esso cominciava a rendersi visibile con la manifestazione nazionale del 23 gennaio, dello stesso anno, alla Sapienza di Roma, proseguiva il 4 marzo con l'occupazione simbolica dei rettorati in tutte le citta', si sviluppava, poi, con le giornate di lotta di marzo e aprile. Dopo la pausa estiva, la protesta e' ripresa in autunno, con un ruolo piu' significativo dei ricercatori di ruolo (che hanno praticato la forma di lotta del rifiuto degli affidamenti dei corsi) ma coinvolgeva in modo piu' ampio gli stessi organi di governo degli atenei. Nel periodo tra il 21 ed il 26 febbraio, di fronte alla prospettiva dell'inizio della discussione del DDL alla camera, e' ripreso \o stato di agitazione che in molti atenei si e' concretizzato con il blocco della didattica. Il 2 marzo lo sciopero generale ha bloccato gli atenei e in molte citta' ci sono state partecipate manifestazioni di piazza. Almeno un risultato importante e' stato raggiunto, infatti a marzo il governo ha dovuto rinunciare alla discussione in aula del DDL e lo ha rinviato in commissione; nella stessa maggioranza, infine, si sono manifestate aperte divergenze sui contenuti di esso (si veda ad esempio, la discussione durante la seduta della Commissione Cultura del 14 aprile).

L'elemento unificante della mobilitazione e' stato, ovviamente, l'opposizione al progetto di riforma dello stato giuridico, che ha il suo asse nella precarizzazione del lavoro della docenza e della ricerca e nella subordinazione del sistema universitario al mercato ed al sistema delle imprese e la lotta si e' naturalmente estesa a altri aspetti della politica governativa dell'istruzione e della ricerca; altri temi, pero', seppure in forma embrionale e parziale, hanno trovato spazio nelle assemblee e nelle iniziative, a cominciare dalla critica del lungo ciclo di riforme universitarie, iniziato nel 1989-1990, ed ai suoi effetti (impoverimento della formazione, aziendalismo nella gestione degli atenei, creazione di lavoro precario ed altro ancora). Piu' in generale, si puo' dire che nel movimento hanno trovato espressione una frustrazione diffusa ed un'insoddisfazione profonda per quello che e' l'universita' oggi, presenti in soggetti anche molto diversi tra loro.

Una vasta area di forza lavoro precaria, composta secondo le stime correnti, da piu' di 50.000 persone, che opera ormai da anni nelle attivita' della ricerca e della docenza, frammentata in diverse tipologie contrattuali (assegnisti di ricerca, professori a contratto, cultori della disciplina, titolari di borse di studio, eccetera), nel corso della mobilitazione ha iniziato ha acquisire visibilita' e a organizzarsi per i propri obiettivi, sia a livello territoriale che nazionale, con la Rete Nazionale dei Ricercatori Precari; se la maggior parte delle organizzazioni sindacali e delle associazioni della docenza hanno trovato una piattaforma comune nel rivendicare, tra l'altro, il mantenimento del ruolo di ricercatore a tempo indeterminato, l'avvio di un processo di unificazione della figura docente e un massiccio programma di assunzioni attraverso i concorsi, la rete dei precari ha prodotto, a sua volta, una propria piattaforma che accompagna queste rivendicazioni con richieste specifiche relative alle condizioni attuali dei precari (continuita' della retribuzione, un livello minimo di garanzie valido per tutti, quale che sia il contratto, ed altro ancora) e che propone un'analisi critica dello stato attuale dell'universita' particolarmente avanzata. Una particolare attenzione, poi, sia nelle rivendicazioni che nella pratica di lotta, viene dedicata alla questione della proprieta' intellettuale.

Molti, pero', sono stati i limiti del movimento, a cominciare dalle differenze tra le diverse sedi universitarie rispetto all'effettiva partecipazione alle lotte e al carattere che assumevano; l'insistenza, nelle assemblee e nei documenti, sulla partecipazione di tutti i settori del mondo universitario (dai docenti e ricercatori di ruolo ai precari, dagli studenti al personale tecnico e amministrativo) finiva per occultare o sottovalutare la presenza di approcci e interessi differenti. Non sono mancate posizioni settoriali e corporative, in molti documenti e interventi la difesa dell'universita' pubblica e' stata condotta facendo riferimento ad un modello troppo semplificato e neutrale di essa, per converso altre prese di posizione hanno pagato pesanti tributi all'ideologia dominante della valorizzazione economica del sapere e della competitivita'. Questi limiti sono sicuramente dovuti all'assenza, per troppi anni, di una conflittualita' reale negli atenei e al venir meno di una cultura critica e d'opposizione, ma hanno anche le loro radici nei mutamenti profondi dell'universita' , avvenuti non solo in Italia, che vanno inseriti nella trasformazione piu' generale del rapporto tra saperi e organizzazione sociale della produzione; in questo nuovo contesto, vivono ormai i soggetti che popolano l'universita' e rispetto ad esso saranno costretti a definire le proprie aspettative e a misurare il valore delle esperienze passate e l'utilizzabilita' dei propri strumenti di lotta e d'intervento. Prima di proseguire in questo discorso, e' opportuno ritornare sul carattere aperto e ambiguo che assume il nuovo scenario politico e sui problemi che puo' comportare per il movimento. In particolare merita attenzione il documento proposto da un gruppo di docenti (tra i quali vi sono Panebianco, Rusconi e Schiavone) con il titolo "ridare voce all'universita'" reso pubblico il 30 marzo e sponsorizzato dalla Fondazione Magna Charta e dal quotidiano II Riformista. Nel testo si attacca esplicitamente la mobilitazione e ci si propone come obiettivo quello di "togliere la parola a quelli dei no senza se e senza ma", giungendo fino a recuperare la categoria reazionaria della "maggioranza silenziosa". Il documento ha raccolto l'adesione di centinaia di docenti e di un certo numero di rettori, ma, cosa significativa, ha ottenenuto consensi sia tra coloro che fanno riferimento al centro-destra, sia tra quelli che guardano al centro-sinistra; e' evidente che i promotori vogliono assumere un ruolo di rappresentanza di settori del mondo universitario nella definizione delle future riforme e, nel contempo, possono essere in grado di condizionare il dibattito sull'universita' della coalizione di centro-sinistra che domani potrebbe andare al governo.

La fabbrica della precarieta'

Una rappresentazione forte delle dinamiche in atto e' condizione indispensabile perche' il conflitto si sviluppi e si qualifichi diversamente, per questo motivo e' opportuno riprendere il discorso sulle trasformazioni in atto nel sistema universitario a cui si accennava prima, pur essendo costretti a degli inevitabili schematismi.

L'universita' sta cambiando su piu' livelli, nel modo in cui si procura i finanziamenti per le proprie attivita' e nelle logiche con cui vengono erogati e impiegati, nei rapporti che instaura con l'esterno, nella sua organizzazione interna e nelle condizioni di studio e di lavoro e, anche, negli obiettivi complessivi che dichiara di proseguire.

Su un piano piu' generale si puo' affermare che i luoghi della produzione e della circolazione dei saperi assumono un ruolo produttivo piu' evidente e diretto e che questo comporta nuove forme dello sfruttamento e del comando, che trovano una traduzione concreta proprio attraverso quei mutamenti che prima si e' tentato di descrivere.

La stessa questione della precarieta' cambia significato, non e' piu' un fenomeno patologico e transitorio o il destino di una minoranza di sfortunati; da una parte bisogna tenere conto di una dimensione piu' generale, in qualche modo e' l'universita' nel suo insieme a diventare "precaria", costretta a misurarsi in una competizione sempre piu' internazionale, con un'incertezza, ormai, strutturale riguardo alla disponibilita' delle risorse, indotta a modificare in permanenza la propria struttura per offrire merci vendibili sul mercato. D'altro canto proprio questi processi inducono a rendere permanente la condizione precaria per chi lavora, un ateneo che deve modificare in continuazione e velocemente la propria offerta formativa ha un evidente interesse a poter contare su lavoratori mobili, di cui puo' facilmente sbarazzarsi; spostando l'analisi sui contenuti e gli obiettivi della formazione, l'esigenza, formalmente affermata, di dover offrire percorsi spendibili sul mercato del lavoro, e' stata la causa dell'impoverimento dei saperi trasmessi, adatti ai futuri lavoratori costretti a loro volta alla precarieta', ma l'impoverimento, il sacrificio di capacita' non riguarda solo gli studenti, ma anche i docenti costretti a operare dentro un rapporto didattico irrigidito e segmentato. Per i precari dell'universita' comprendere questa nuova situazione, nel suo complesso, sara' sempre piu' la base per definire nuovi rapporti politici, dentro e fuori gli atenei, con altri soggetti con cui costruire lotte insieme.

La presenza di processi cosi' ampi e radicali, le contraddizioni che incontrano i soggetti istituzionali, a vari livelli, nel portare avanti i propri progetti di trasformazione (si pensi alle difficolta' incontrate dai paesi europei nel tradurre in pratica la cosiddetta "strategia di Lisbona", che puntava, in un quadro tecnocratico e neoliberista, sullo sviluppo del sistema della ricerca e dell'istruzione superiore per ridare spinta alla crescita economica nei paesi dell'Unione) induce a pensare che, quali che siano le prospettive a breve della mobilitazione contro il DDL, le istanze, i problemi che si sono manifestati attraverso di essa e che a questo contesto piu' generale rimandano, potranno costituire la base per i futuri conflitti, questo senza sottovalutare le difficolta' nel definire obiettivi in grado di operare salti qualitativi e nell'individuare gli strumenti per portarli avanti.

 

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