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tratto da CONTROSAPERE - Maggio '05 - del C.U.A. di Torino

Universita' ed eccedenza

Per una riscoperta dei fondamenti teorici della critica nei luoghi

"La proposizione contiene invero il risultato, e' in se stessa il risultato. Ma la circostanza, su cui occorre qui attirare l'attenzione, e' il difetto che il risultato non e' espresso, esso stesso, nella proposizione; e' una riflessione esterna, quella che ve lo riconosce" (Hegel. Scienza della logica). Queste parole, che a centonovantatre' anni di distanza non hanno perso nulla della loro potenza, costituiscono la premessa di qualsiasi tentativo critico che voglia valorizzare la tensione interna del momento logico, ossia del linguaggio: "la proposizione non adegua mai la cosa" insiste Adorno centocinquant'anni dopo, rilevando l'esilio del pensiero dialettico dai dipartimenti tedeschi ma valorizzando le dissonanze che sanno, nella teoria e nell'arte, raccoglierne l'eredita'.

Oggi, mentre l'attenzione del potere cade necessariamente sull'Universita' e mentre l'Universita' sa trasformarsi e riposizionarsi in forma potenziata e centrale sul terreno della produzione e dell'innovazione, si segnala la carenza di un'impostazione teorica che sappia orientare la critica che va diffondendosi in varie forme e a piu' livelli nell'ambito universitario.

Tra chi si ostina a mantenere una concezione museale delle scienze umane, assumendo senza mediazione le categorie di formazione e ricerca come positivita' buone di per se', e chi subisce l'esilio in altri luoghi della metropoli, resta un'affinita' di fondo: la nuova Universita' e' peggiore di quella di una volta, vuoi perche' non si attaglia all'immagine menzognera che di se' stessa nel tempo si e costruita, vuoi perche' a sua nuova configurazione richiederebbe alla critica quella dignita' e profondita' che spesso non e' in grado di esprimere. Il significato complessivo delle riforme che hanno segnato l'ingresso dell'autonomia didattica e finanziaria e della modulistica a crediti,e di quella che vorrebbe abolire il ruolo di ricercatore non e' quello di una crisi dell'istituzione, ma di un suo rafforzamento. In un mercato del lavoro che muta, in un contesto produttivo contrassegnato da continue trasformzioni, l'Universita' italiana, piu' o meno in parallelo con iniziative analoghe in altri paesi europei, trasforma le sue dinamiche interne, adeguandole ai moderni criteri della produzione: lo fa rispetto al contenuto, riorganizzato secondo criteri quantitativi e messo in condizione di adattarsi ad ogni nuova esigenza della cooperazione sociale produttiva, e rispetto alla forza lavoro formata all'Universita', che viene spezzettata e segmentata secondo le linee stabilite dagli ambiti di impiego delle capacita' intellettuali.

Serve a poco lamentare la fine di una ricerca disinteressata che non e' mai esistita, di un'Universita' ansiosa di valorizzare la critica che difficilmente troviamo nei libri di storia, di un bel mondo che non c'e' piu', dove le accademie vivevano incontaminate dai rozzi criteri del bisogno materiale e della produzione sociale, fiere della loro austera e nobile indipendenza: tutto questo e' esistito, certo, nella trasfigurazione immaginifica e ideologica della formazione e della ricerca che informa ogni discorso d'insediamento in rettorato, nella difesa povera di argomenti del ceto professionale del docente universitario; ma non nel vissuto reale, crediamo, di chi nelle scorse generazioni abitava le Universita' concretamente, talvolta anche di notte. Questo tipo di istituzione, fin dalle sue lontane origini e ancor piu' a partire dal l'affermarsi dell'egemonia del modo di produzione industriale, non e' mai stata vergine, mai al riparo dalle impurita' che molto spesso ha cercato di squalificare, se necessario anche con la polizia.

D'altro lato la perdita d'aura dell'Universita', lamentata inconsapevolmente da tanti ricercatori - accanto alle legittime preoccupazioni per il loro presente e per il loro futuro - non sembra sottendere a una perdita di centralita', almeno se si guardano le trasformazioni materiali subite dai luoghi stessi della nostra esistenza.

Nella Torino olimpica, per esempio, l'evento e' divenuto il perno della riproduzione dei capitali e della conservazione dell'ordinamento sociale: da citta' produttrice di macchine a macchina che gira a vuoto, potremmo dire, dove questo vuoto e' precisamente la merce immateriale che si costruisce sull'immaginario della produzione spettacolare; il nulla oggetto di consumo, il niente che distrae dal niente, l'incubo venduto come sogno alle nuove generazioni. Il consumo, ormai, riempie il vuoto di ore apparentemente non lavorative, dove il lavoratore e' elevato al rango di produttore di consumo. Questo immaginario e' costruito sempre politicamente, controllato nella sua genesi e nella sua diffusione da istituzioni ed enti che traggono dallo Stato la loro legittimita', ed e', in quanto immaginario, tanto poco post-moderno quanto il sudore dei muratori romeni nei cantieri di Torino 2006.

Ma l'evento, sia esso l'olimpiade o l'ennesima mostra d'arte, la rivalutazione di un monumento o uno dei sette festival di cinema che ospita annualmente Torino, chi lo inventa? Chi lo gestisce? Chi lo valorizza?

Nella miriade di enti, gruppi e associazioni che si costituiscono per questi eventi, pronti a volatilizzarsi subito dopo e a ricomparire sotto diverso nome e con diversa composizione per l'evento successivo, si trova la forza-lavoro intellettuale formata all'Universita', quella che lavora all'Universita', quella che ha un contratto a tempo con l'Universita' o con una cooperativa che ha il contratto a tempo con l'Universita', perfino gente che presta forza lavoro gratuita all'Universita', insieme a coloro che hanno il potere di decidere la vita stessa dell'Universita' e, talvolta, della citta'. Questa trasformazione del ruolo rivestito nel tessuto produttivo e questo rinnovamento delle dinamiche di sfruttamento della forza lavoro interna, gli atenei li sperimentano da vent'anni. La diffusione su larga scala degli appalti alle cooperative si e' avuta per esempio e per la prima volta, diversi anni or sono, nelle Universita', e non altrove.

La ristrutturazione urbana complessiva della citta' di Torino e della sua cintura, la progettazione delle linee ad alta velocita', la risistemazione degli impianti sportivi attraverso il riciclaggio di strutture senescenti del paesaggio urbano, la scelta e il reperimento dei film e delle opere d'arte, la pubblicita' e la valorizzazione culturale di tutto questo, il restauro di cappelle e affreschi, gli scavi archeologici nel centro cittadino, la costruzione della vetrina luccicante che Torino sta diventando, a fianco delle strategie di repressione, dalla formazione di quadri della polizia e delle Forze Armate, fino alle competenze linguistiche per la traduzione degli interrogatori agli immigrati in Questura, tutto questo la metropoli lo ottiene grazie all'esistenza di quell'enorme complesso di saperi, mansioni, competenze e poteri che e' l'Universita'. Se questa istituzione, che e' diventata essa stessa un evento in occasione del suo sesto centenario, riveste una tale centralita' nella riorganizzazione complessiva del tessuto produttivo metropolitano, nella messa a regime di produzione di tanti oggetti di cultura, se e' protagonista del tentativo di riposizionare le mani del capitale sulla citta' facendo leva sul consumo come agente di valorizzazione - finita l'era della produzione di un bene di consumo specifico come l'automobile - sara' necessario sottoporla alla critica, ed anche all'intervento politico organizzato.

Questo senza fermarsi alla difesa di un ruolo perduto, ammesso che vi sia mai stato, e rendendosi conto del fatto che il tentativo di riforma del governo ha portato alla luce un enorme disagio sommerso, e una situazione di precarieta' che qui si vive da un pezzo. Questo disagio va oltre la riforma, e non sara' facile farlo rientrare.

Di fronte alle mistificazioni dei partiti della sinistra tradizionale occorre rivendicare al sapere il suo ruolo produttivo, in questo ribadendo che il capitale resta fonte e motore primario di innovazione ed e' sul terreno dell'innovazione che occorre orientare le nostre scelte. Questo e' possibile sapendo leggere le rotture come momenti dell'unica continuita' che le comprende. Rivendichiamo ai saperi il loro ruolo di oggetti di conoscenza sulla terra dei rapporti sociali di produzione e non nel cielo autoreferenziale e mistificato della Cultura e dell'Arte; saperi produttivi di aggregazione sociale e politica conflittuale, grazie alla loro internita' ai mutamenti generali delle nostre vite reali. Saperi da rovesciare sullo stesso terreno, oggi centrale, prescelto dagli agenti della trasformazione: studenti di Architettura contestano i piani della devastazione ambientale, ricercatori di medicina rifiutano la logica del brevetto, studenti di filosofia indagano sui fondamenti eidetici della proprieta' intellettuale, giovani critici del cinema e del teatro mettono in discussione la sottomissione disciplinata di due muse impertinenti.

Tutto questo sul terreno politico e pratico dell'antagonismo organizzato, attraverso contenuti che trovino la loro base nella considerazione critica e nel rovesciamento di cio' che l'Universita' stessa ci trasmette, senza che sia necessario cercare cattivi maestri lontano dalle nostre ore di lezione.

L'ambivalenza abita l'Universita' del nuovo secolo tanto nei portatori di forza lavoro che pagano le tasse due volte all'anno e ricevono crediti privi di valore, frustrati nella loro passione per la conoscenza e soffocati da un sistema formativo a svalutazione permanente, al quale sempre meno riconoscono legittimita', quanto nei contenuti di conoscenza prodotti dalle ricerche di qualunque tipo, che hanno in se stesse il risultato, sono esse stesse il risultalo politico a cui tanto noi quanto il capitale puntiamo, solo che esso deve essere riconosciuto mediante una riflessione esterna, attraverso lo scarto della differenza: in modo dialettico.

Con questo si torna a Hegel: se la proposizione non adegua mai la cosa, e questo lo si trova nel senso stesso della voce o segno "proposizione", nell'essenza del linguaggio, ogni sapere produce eccedenza, anche quello apparentemente sottomesso nella maniera piu' cieca, anche quello che ci sembra abbia perso dignita' e profondita' critica, e la sussunzione del particolare all'Intero non e mai completa, come non e' mai esaurita la tensione della differenza.

Questo nesso, questa complessa dialettica di produttivo e improduttivo, di spreco e di nuova messa a regime, di Universita' ed eccedenza, e' un nesso logico, che precede anche una teoria materialistica della conoscenza, perche' ancor prima che conoscenza di trasformazione e' conoscenza del movimento dialettico che, abitando il linguaggio (e cosi ogni tipo di ricerca, di formazione, ma anche di comando o di insurrezione) fonda e precede ogni teoria.

La differenza, il surplus, cio' che "non torna", cio' che non e' a regime, mette capo al passaggio piu' importante, che e' la valorizzazione politica, conflittuale, di parte, del contenuto eccedente, ossia l'antagonismo, che si fa socializzato e che abita il luogo dell'eccedenza specifica propria della ricerca, il luogo dove si producono proposizioni per adeguare, e produrre, cose: l'Universita'. Discorsi oziosi, si dira', ma l'ozio non e' ignaro: avvolge i momenti maggiormente proficui della della lettura e della scrittura. Una riflessione sull'Universita' priva di una considerazione critica e non pacificata dei fondamenti generali dell'esperienza linguistica come esperienza sociale e dell'esperienza di studio come esperienza sociale non andra' lontano: continuera' a produrre piattaforme per arginare un problema che non si fara' arginare, ricadra' ogni volta nella cattiva mitizzazione della ricerca che dopotutto perseguono anche il governo e la confindustria, in un momento dove il nesso produzione-sapere decide in quadro geopolitico internazionale - con i suoi rumori di' guerra. Discorsi oziosi, forse, ma che vanno al di' la' della senile discriminazione tra attrezzi linguistici vecchi e nuovi, tra cio' che e' lecito o illecito pensare in questi nostri anni, che soprattutto mettono al riparo dal rischio di confondere i propri eventuali fallimenti politici con grandi trasformazioni strutturali, dando alla critica la possibilita' almeno di' essere produttiva, ma di conflitto, e non di svalutazioni permanenti della teoria, buone forse per qualche casa editrice alternativa. Discorsi che continueremo a fare nell'Universita', nelle occupazioni delle Facolta' e nei seminari che organizziamo, ma anche in faccia al docente durante la lezione o a chi cerca di censurare le attivita' contro la guerra, sempre attenti a non produrre, con il conformismo travestito da rivoluzione, "la stessa svalutazione della parola linguaggio, tutto cio' che nel credito che gli si fa, denuncia la vilta' del vocabolario, la tentazione di sedurre a poche spese, l'abbandono passivo alla moda" (Derrida, Della Grammatologia). L'importante, insomma, e' non raccontarsi storie.

 

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