2006.11.09
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- B _ "CRONACHE DA UNA CATASTROFE. Viaggio in un pianeta in pericolo" di Elizabeth Kolbert (Nuovi Mondi Media) : 2006.11.09#1 (BiBlio)
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"CRONACHE DA UNA CATASTROFE. Viaggio in un pianeta in pericolo" di Elizabeth Kolbert (Nuovi Mondi Media)
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CRONACHE DA UNA CATASTROFE
Viaggio in un pianeta in pericolo: dal cambiamento climatico alla mutazione delle speciedi Elizabeth Kolbert, http://www.nuovimondimedia.com, 2006, 175 pp., euro 16,50
"Il grande merito di questo libro è di riportare l'allarme sul clima che cambia 'con i piedi per terra'. Il cambiamento è qui, è adesso. Attraverso un racconto tanto rigoroso quanto appassionante, che a tratti prende la cadenza di un thriller d'autore in cui pagina dopo pagina il lettore vede materializzarsi la verità, Elizabeth Kolbert, giornalista del The New Yorker, ricostruisce trent'anni di ricerche e di SOS sulle origini antropiche dei cambiamenti del clima, dalle prime, ancora incerte ipotesi dell'inizio degli anni '70, fino all'evidenza di oggi; e parallelamente descrive i segni crescenti dello squilibrio ormai in atto."Roberto Della Seta, Presidente nazionale di Legambiente Per gentile concessione della casa editrice pubblichiamo il primo capitolo di "Cronache da una catastrofe"
SHISMAREF, ALASKA
di Elisabeth Kolbert
Il villaggio di Shishmaref, in Alaska, si trova su un'isola chiamata Sarichef, a cinque miglia dalle coste della penisola di Seward. Sarichef è una piccola isola (circa 400 metri di larghezza per 4 km di lunghezza) e Shishmaref è praticamente l'unica cosa che esiste sull'isola. A nord c'è il mare di Chukchi e in tutte le altre direzioni si estende la Bering Land Bridge National Preserve, che probabilmente si piazza ai primi posti fra i parchi nazionali meno visitati degli USA. Durante l'ultima era glaciale, questo ponte di terre, che emersero in seguito a un abbassamento del livello del mare di oltre 100 metri, crebbe fino a raggiungere una larghezza di oltre 1.500 km. Oggi la riserva naturale occupa quella frazione di terre che, dopo più di 10.000 anni di clima caldo, rimane al di sopra del livello del mare.
Shishmaref (ab. 591) è un villaggio Inupiat abitato, perlomeno stagionalmente, da parecchi secoli. Come in molti villaggi in cui risiedono popolazioni autoctone dell'Alaska, la vita qui è un misto - spesso sconcertante - di molto antico e completamente moderno. Quasi tutti a Shishmaref sopravvivono ancora grazie alla caccia, soprattutto di foche barbute ma anche di trichechi, alci, conigli e uccelli migratori. Quando ho visitato il villaggio, in un giorno di aprile, era il periodo del disgelo primaverile e stava per cominciare la stagione della caccia alle foche; aggirandomi nei dintorni, quasi inciampai nei resti della caccia dell'anno precedente che emergevano da sotto la neve. A mezzogiorno il responsabile dei trasporti del villaggio, Tony Weyiouanna, mi invitò a pranzo a sua casa. Un televisore enorme piazzato in soggiorno e sintonizzato sull'emittente pubblica locale trasmetteva una musica rock. Lo schermo era attraversato di continuo da scritte del tipo "Buon compleanno ai signori..."
Secondo l'uso tradizionale, gli uomini di Shishmaref andavano a caccia di foche spingendosi sul mare ghiacciato alla guida di slitte tirate da cani o, in tempi più recenti, di motoslitte. Dopo che gli uomini avevano portato al villaggio le foche catturate, le donne le scuoiavano e le trattavano per la conservazione, un procedimento che richiedeva parecchie settimane. Verso gli inizi degli anni '90, i cacciatori iniziarono a notare che il ghiaccio marino* stava cambiando. Il ghiaccio aveva cominciato a formarsi più tardi in autunno e a sciogliersi prima in primavera. Una volta ci si poteva spingere a cacciare sul ghiaccio marino per oltre 30 km dalla linea di costa; oggi, quando arrivano le foche, il ghiaccio è già molle a metà di quella distanza. Per descriverne la consistenza, Tony Weyiouanna ha usato le parole "pappa fangosa". Quando ci si imbatte in questa poltiglia, racconta Tony, "ti vengono i capelli dritti. Gli occhi si spalancano. Non si può battere ciglio". Andare a caccia con le motoslitte è diventato troppo pericoloso e gli uomini sono passati a usare le barche.
Ben presto i cambiamenti nel ghiaccio marino portarono anche altri problemi. Nel suo punto più alto, Shishmaref è soltanto sette metri sopra il livello del mare e le case, costruite per la maggior parte dal governo degli Stati Uniti, sono piccoli cubi simili a scatole e non hanno un aspetto particolarmente solido. Quando il mare di Chukchi congelava prima, lo strato di ghiaccio proteggeva il villaggio allo stesso modo in cui un telone impedisce che il vento agiti le acque di una piscina. Quando il mare ha iniziato a gelare più tardi, il villaggio di Shishmaref è diventato più vulnerabile ai flutti delle tempeste(per quanto l'affermazione che gli eschimesi avrebbero centinaia di termini per indicare la neve sia esagerata, è vero che gli Inupiat distinguono fra molti tipi di ghiaccio, tra cui sikuliaq, "ghiaccio giovane", sarri, "ghiaccio del pack" e tuvaq, "ghiaccio interno, di terra"). Nell'ottobre del 1997, una tempesta si è portata via una striscia della larghezza di 50 metri dal margine nord della cittadina; varie case sono andate distrutte e si è dovuto trasferirne altrove più di una dozzina. Durante un'altra tempesta, nell'ottobre del 2001, il villaggio è stato minacciato da onde alte quattro metri. Nell'estate del 2002 gli abitanti di Shishmaref hanno approvato (con 161 voti favorevoli e 20 contrari) il trasferimento dell'intero villaggio sulla terraferma. Nel 2004, il Genio militare dell'esercito USA ha completato un sopralluogo delle possibili ubicazioni del nuovo villaggio. La maggior parte dei siti presi in considerazione si trova in zone remote quasi quanto Sarichef, senza strade o città vicine, né insediamenti di alcun tipo. È stato calcolato che il completo trasferimento verrebbe a costare al governo degli Stati Uniti 180 milioni di dollari.
La gente di Shishmaref con cui ho parlato ha espresso emozioni e pareri contrastanti sulla proposta di spostarsi altrove. Alcuni erano preoccupati poiché temevano che, lasciando l'isoletta, avrebbero perduto il loro stretto rapporto col mare e, con quello, loro stessi. Una donna mi ha detto: "È un'idea che mi fa sentire molto sola". Altri sembravano eccitati dalla prospettiva di ottenere con il cambio certe comodità (come l'acqua corrente), che a Shishmaref mancano. Tutti comunque sembravano concordare sul fatto che la situazione del villaggio, già disastrosa, poteva solo peggiorare.
Morris Kiyutelluk, un uomo di 65 anni, ha trascorso a Shishmaref quasi tutta la sua vita. Il suo cognome, come lui stesso mi ha spiegato, significa "senza un cucchiaio di legno". Ho fatto una chiacchierata con lui durante una delle mie visite al seminterrato della chiesa del villaggio, che è anche la sede non ufficiale di un gruppo chiamato "Shishmaref Erosion and Relocation Coalition" [Comitato Erosione e Trasferimento di Shishmaref]. "La prima volta che ho sentito parlare di riscaldamento globale ho pensato 'non credo a quei giapponesi'", mi ha detto Kiyutelluk. "Bene, avevano dei bravi scienziati, e tutto si è rivelato vero".
La National Academy of Sciences americana avviò il suo primo studio rilevante sul riscaldamento globale nel 1979. A quel tempo, lo sviluppo di modelli climatici era una scienza ancora molto giovane e soltanto pochi gruppi - uno guidato da Syukuro Manabe presso la NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration), e un altro da James Hansen presso il Goddard Institute for Space Studies della NASA - avevano esaminato con una certa accuratezza gli effetti dell'immissione di anidride carbonica nell'atmosfera. Eppure, i risultati del loro lavoro furono già abbastanza allarmanti da indurre il Presidente Jimmy Carter a invitare l'accademia a effettuare studi ulteriori. Fu quindi istituita una commissione di nove membri presieduta da Jule Charney, meteorologo di fama internazionale attivo presso il M.I.T., che negli anni '40 era stato il primo a dimostrare la possibilità di formulare previsioni del tempo su base numerica.
L'Ad Hoc Study Group on Carbon Dioxide and Climate [Gruppo di studio ad hoc sull'anidride carbonica e il clima], o "gruppo di Charney" come veniva comunemente chiamato, si riunì per cinque giorni nel centro studi estivo della National Academy of Sciences' a Woods Hole, Massachusetts. Le conclusioni a cui giunsero i suoi componenti furono inequivocabili.
Avevano cercato d'individuare dei difetti nella costruzione dei modelli, ma non erano riusciti a trovarne nessuno. "Se l'anidride carbonica continua ad aumentare, il gruppo di studio non ha motivo di dubitare che ne risulteranno cambiamenti climatici e non ha alcun motivo di ritenere che tali cambiamenti saranno trascurabili", scrissero gli scienziati. Per un raddoppiamento dei livelli pre-industriali di CO2, essi previdero un probabile aumento globale della temperatura compreso fra 1,3 e 4,3°C. I componenti del gruppo non erano sicuri del tempo che ci sarebbe voluto affinché i cambiamenti già innescati diventassero manifesti, soprattutto perché il sistema climatico ha in sé incorporato un meccanismo ritardante. L'immissione di CO2 nell'atmosfera produce l'effetto di portare la Terra fuori "dall'equilibrio energetico". Per poter ristabilire questo equilibrio - come, secondo le leggi della fisica, alla fine deve accadere - l'intero pianeta si deve riscaldare, compresi gli oceani, un processo che, secondo il gruppo di Charney, avrebbe potuto richiedere "vari decenni". Quindi, quello che poteva apparire come l'approccio più moderato - attendere che prove concrete del riscaldamento confermassero l'esattezza dei modelli - in realtà si risolveva nella più rischiosa delle strategie: "È possibile che non si avranno segnali di allarme fino a che il carico di CO2 non sarà tale da rendere inevitabile un cambiamento climatico sensibile".
Sono passati 25 anni da quando il gruppo di Charney ha pubblicato il suo rapporto e, in questo periodo, gli americani hanno ricevuto così tanti avvertimenti sui pericoli del riscaldamento globale che riportarne anche soltanto una piccola parte richiederebbe parecchi volumi. Di fatto, sono stati scritti interi libri riguardo ai tentativi di attirare l'attenzione pubblica sul problema; dopo il rapporto di Charney, la National Academy of Sciences americana ha prodotto quasi altri 200 studi sul riscaldamento globale, tra cui, per non citarne che alcuni, "La forza radiattiva del cambiamento climatico", "Capire i feedback del cambiamento climatico", e "Implicazioni politiche dell'effetto serra". Durante questo stesso periodo, le emissioni mondiali di anidride carbonica hanno continuato ad aumentare, passando da cinque a sette miliardi di tonnellate metriche l'anno, e la temperatura della Terra, rispettando le previsioni dei modelli di Hansen e Manabe, è andata crescendo costantemente. Il 1990 è stato l'anno più caldo mai registrato fino al 1991, ugualmente caldo.
Quasi tutti gli anni successivi sono stati ancora più caldi. Il 1998 detiene il primato di anno più caldo da quando si è cominciata a tenere una registrazione delle temperature, ma è seguito da vicino dal 2002 e dal 2003, che si classificano al secondo posto; seguono poi il 2001, al terzo, e il 2004, al quarto. Poiché il clima è per sua natura variabile, è difficile dire, esattamente, da che punto in poi in questa sequenza sia possibile escludere la variabilità naturale quale unica causa. Ma nel 2003 l'American Geophysical Union, una delle più grandi e più stimate organizzazioni scientifiche degli USA, ha ritenuto la questione definitivamente risolta. Nel congresso di quell'anno l'associazione ha redatto un documento, approvato da tutti i suoi membri, in cui si afferma che "le influenze naturali non possono spiegare il rapido aumento delle temperature globali negli strati vicini alla superficie". In base alle stime più accurate, oggi il mondo è più caldo di quanto sia mai stato nei duemila anni precedenti e, se questa tendenza persiste, per la fine del secolo probabilmente sarà più caldo di quanto sia mai stato negli ultimi due milioni di anni.
Come il riscaldamento globale ha gradualmente cessato di essere una mera teoria, così anche il suo impatto non è più soltanto ipotetico.
Praticamente tutti i principali ghiacciai del mondo si stanno riducendo; quelli del Glacier National Park si stanno ritirando così velocemente che, secondo una stima, entro il 2030 saranno completamente scomparsi. Gli oceani stanno diventando non soltanto più caldi ma anche più acidi; la differenza fra le temperature diurne e quelle notturne sta diminuendo; gli animali stanno spostando i confini dei propri areali verso i poli e le piante stanno iniziando a fiorire in anticipo di giorni, in certi casi di settimane, rispetto al loro solito periodo. Questi sono i segnali di allarme verso i quali il gruppo di Charney aveva messo in guardia, e se in molte parti del globo sono ancora abbastanza sottili da poter essere trascurati, in altre zone non possono più essere ignorati. Per caso, i cambiamenti più drammatici si stanno verificando in luoghi, come Shishmaref, in cui tendenzialmente la popolazione è più scarsa. Anche questo maggiore impatto che il riscaldamento globale avrebbe avuto sull'estremo nord era stato previsto dai primi modelli climatici, i quali prevedevano anche, con colonne di cifre generate in linguaggio Fortran, ciò che oggi può essere misurato e osservato direttamente: l'Artico si sta sciogliendo.
La maggior parte della terraferma nelle zone artiche e quasi un quarto di tutte le terre dell'emisfero settentrionale - circa due miliardi di ettari - giacciono sotto vari strati di ghiaccio permanente, il permafrost. Qualche mese dopo la mia visita a Shishmaref, sono ritornata in Alaska per accompagnare in un tour all'interno del paese Vladimir Romanovsky, geofisico ed esperto di permafrost. Quando sono arrivata in volo a Fairbanks - Romanovsky insegna all'Università dell'Alaska che ha lì il suo campus principale - l'intera città era avvolta da una foschia densa simile a nebbia, ma dall'odore di gomma bruciata. La gente continuava a dirmi che ero stata fortunata a non arrivare un paio di settimane prima, perché allora era stato molto peggio. "Persino i cani portavano la mascherina", mi ha detto una donna che ho incontrato. Devo aver sorriso. "Non sto scherzando", ha replicato lei.
Fairbanks, la seconda città dell'Alaska, è circondata su ogni lato da foreste e praticamente ogni fulmine estivo appicca il fuoco in questi boschi, riempiendo l'aria di fumo per giorni o, negli anni peggiori, per settimane.
Nell'estate del 2004 gli incendi sono iniziati presto, in giugno, e stavano ancora bruciando due mesi e mezzo più tardi; al momento del mio viaggio, verso la fine di agosto, erano già stati ridotti in cenere circa 3 milioni di ettari - un'area grande all'incirca quanto il New Hampshire. La gravità degli incendi era chiaramente collegata al clima, che era stato eccezionalmente caldo e secco; la media delle temperature estive era la più alta mai registrata a Fairbanks e la quantità di piogge era la terza più bassa.
Al mio secondo giorno a Fairbanks, Romanovsky venne a prendermi in hotel per un tour con cui verificare lo stato del sottosuolo della città. Come la maggior parte degli esperti di permafrost, Romanovsky è russo (fu il regime sovietico a inventare, più o meno, lo studio del permafrost quando decise di costruire in Siberia i suoi gulag). Uomo dalla corporatura massiccia, con la testa arruffata di capelli scuri e la mascella quadrata, da studente Romanovsky dovette scegliere fra l'hockey e la geofisica. Come lui stesso mi ha raccontato, aveva optato per la seconda perché "come scienziato me la cavavo un po' meglio che come giocatore di hockey". Aveva poi continuato a studiare, conseguendo due master e due dottorati. Romanovsky arrivò alle 10 del mattino; con tutto quel fumo, sembrava l'alba.
Qualsiasi zona del terreno rimasta congelata per almeno due anni è, per definizione, permafrost. In alcuni posti, come la Siberia orientale, lo strato di permafrost arriva a più di un chilometro di profondità; in Alaska la sua profondità può variare dai 60 a più di 600 metri. Fairbanks, che si trova appena al di sotto del Circolo Polare Artico, è situata in una regione di permafrost discontinuo, il che significa che la città è come butterata da zone di terreno ghiacciato. Una delle prime fermate nel giro con Romanovsky fu presso una buca apertasi in una zolla di permafrost non lontano da casa sua. La buca era larga circa due metri e profonda un metro e mezzo. Lì vicino si indovinano i contorni di altre buche, ancora più grandi, che, disse Romanovsky, erano state riempite di ghiaia dal locale ufficio dei lavori pubblici. Questi buchi sono il prodotto di fenomeni termocarsici, ovvero sono dovuti all'improvviso scioglimento del permafrost, un po' come accade a un pavimento d'assi marcite (il termine tecnico per lo scioglimento del permafrost è talik, da una parola russa che significa "non congelato"). Romanovsky mi indicò, attraverso la strada, una lunga trincea che correva dentro il bosco. La trincea, mi spiegò, si era formata in seguito allo scioglimento di un cuneo di ghiaccio sotterraneo.
Gli abeti rossi che crescevano nelle vicinanze del cuneo, o magari sopra, ora se ne stavano lì inclinati in strane angolazioni, come piegati da un vento fortissimo. La gente del posto li chiamava "gli ubriachi". Alcuni abeti rossi erano caduti del tutto. "Questi qui sono molto ubriachi", disse Romanovsky.
In Alaska il terreno è crivellato di cunei di ghiaccio formatisi durante l'ultima glaciazione, quando la terra raffreddandosi si spaccò e le crepe si riempirono d'acqua. Questi cunei, che possono trovarsi a decine o persino a centinaia di metri di profondità, tendono a formare delle reti, per cui quando si sciolgono lasciano dietro di sé delle depressioni di forma esagonale (tipo diamante) fra loro collegate. A pochi isolati di distanza dalla foresta ubriaca, arrivammo a una casa il cui giardino mostrava chiari segni dello scioglimento dei cunei ghiacciati. Il proprietario, nel tentativo di far buon viso a cattivo gioco, lo aveva trasformato in un minigolf. Girato l'angolo, Romanovsky mi indicò un'altra casa - ormai disabitata - che si era praticamente spaccata in due; il corpo principale pendeva inclinato a destra, il garage a sinistra. L'edificio era stato costruito negli anni '60 o nei primi anni '70 ed era sopravvissuto fino a una decina d'anni fa, quando lo strato di permafrost sottostante aveva iniziato a decomporsi. La suocera di Romanovsky un tempo aveva posseduto due case in quello stesso quartiere. Lui aveva insistito perché le vendesse entrambe. Me ne indicò una, che adesso aveva un nuovo proprietario; il tetto aveva assunto un aspetto tutto ondulato, che non faceva presagire niente di buono. Quando si era deciso a comprare casa, Romanovsky aveva limitato la sua ricerca alle zone libere dal permafrost.
"Dieci anni fa, nessuno si preoccupava del permafrost - mi disse - Oggi tutti vogliono sapere". Le misurazioni che Romanovsky e i suoi colleghi dell'Università dell'Alaska hanno effettuato nell'area di Fairbanks dimostrano che la temperatura del permafrost è aumentata a tal punto da arrivare oggi, in molte zone, a meno di un grado al di sotto dello zero. Nei luoghi in cui è stato intaccato per costruire strade, case o tappeti erbosi, il permafrost in gran parte si sta già sciogliendo. Romanovsky sta monitorando anche il permafrost del North Slope, la regione settentrionale dell'Alaska sulla Prudhoe Bay, e anche lì ha riscontrato alcune zone in cui la temperatura del permafrost è molto vicina allo zero. Mentre le buche che i fenomeni termocarsici aprono nel fondo stradale, e il talik al di sotto degli scantinati, rappresentano quel genere di problemi che toccano davvero soltanto le persone che ci vivono vicino, o addirittura sopra, il riscaldamento del permafrost ha una portata che va ben oltre le perdite di beni immobiliari della gente del posto. Da un lato, il permafrost rappresenta una documentazione molto speciale dei trend a lungo termine della temperatura; dall'altro, si comporta di fatto come un serbatoio di gas serra. Con il cambiamento climatico, vi sono buone probabilità che questi gas vengano infine rilasciati nell'atmosfera, contribuendo ulteriormente al riscaldamento globale. Benché l'età del permafrost sia difficile da determinare, Romanovsky valuta che in Alaska la maggior parte di questi strati risalga probabilmente all'inizio dell'ultima glaciazione. Ciò significa che, se tale ghiaccio si scioglie, sarà per la prima volta in oltre 120.000 anni.
"Questo è davvero un periodo molto interessante", è stato il commento di Romanovsky.
La mattina seguente, Romanovsky passò a prendermi alle sette. Il piano era di viaggiare in auto per più di 700 km a nord di Fairbanks, fino alla città di Deadhorse sulla Prudhoe Bay. Romanovsky fa questo giro almeno una volta all'anno, per raccogliere i dati delle molte centraline che ha installato.
Dato che la strada era in gran parte non asfaltata, per l'occasione aveva affittato un camion. Il parabrezza era rotto in vari punti. Quando provai a dire che avrebbe potuto essere un problema, Romanovsky mi rassicurò affermando che quella era la "tipica Alaska". Come provviste, si era portato una megaconfezione di Tostitos.
La strada che stavamo seguendo - la Dalton Highway - è stata costruita per i pozzi di petrolio e l'oleodotto le corre a fianco, a volte sulla sinistra, altre volte sulla destra (a causa del permafrost, le condutture corrono soprattutto in superficie, su piloni contenenti ammoniaca che funge da refrigerante). Continuavano a sorpassarci dei camion, alcuni con teste di caribù fissate con delle cinghie al tettuccio, altri appartenenti all'Alyeska Pipeline Service Company. Sui camion dell'Alyeska campeggiava, scritto a vernice, lo sconcertante motto "Nessuno si fa male". A circa due ore d'auto da Fairbanks, iniziammo ad attraversare tratti di foresta che erano andati a fuoco di recente, poi zone dove la cenere era ancora fumante e infine aree in cui, qua e là, ardevano ancora le fiamme. La scena sembrava tratta in parte dall'inferno dantesco, in parte da "Apocalypse now". Procedemmo a passo d'uomo attraverso il fumo. Qualche ora più tardi arrivammo a Coldfoot, un luogo che probabilmente deve il suo nome al fatto che alcuni cercatori d'oro arrivati qui nel 1900 si impaurirono [in inglese, to get "cold feet"] e tornarono da dove erano venuti. Ci fermammo per il pranzo in una stazione di servizio per camion, che rappresentava più o meno l'intero abitato. Subito dopo Coldfoot oltrepassammo il limite degli alberi. Su un sempreverde era affisso un cartello che diceva: "Questo è l'abete rosso più a nord lungo l'Alaska Pipeline: non tagliare". Come era prevedibile, qualcuno ci aveva provato con un coltello. Una profonda incisione tutt'attorno al tronco era fasciata con nastro adesivo.
"Penso che morirà", mi disse Romanovsky. Finalmente, verso le cinque del pomeriggio, raggiungemmo la strada secondaria che portava alla prima stazione di rilevamento. Ora viaggiavamo ai piedi della catena del Brooks Range. Le montagne erano color porpora nella luce del pomeriggio. Poiché uno dei colleghi di Romanovsky aveva nutrito il sogno - mai realizzato - di arrivare in aereo alla stazione di rilevamento, la centralina era situata nei pressi di una piccola pista di atterraggio, sulla sponda opposta di un fiume dalla corrente veloce. Ci infilammo gli stivali di gomma e lo passammo a guado, approfittando dell'acqua bassa dovuta alle piogge scarse. La stazione consisteva in pochi pali piantati nella tundra, un pannello solare, un pozzo di trivellazione profondo 60 metri da cui usciva un fascio di grossi cavi, e un contenitore bianco, simile a una scatola termica, che racchiudeva una serie di apparecchiature elettroniche. Il pannello solare, che l'estate precedente era stato montato sollevato da terra di qualche decina di centimetri, ora giaceva in mezzo alla sterpaglia. All'inizio Romanovsky pensò che si fosse trattato di un atto vandalico ma, dopo avere ispezionato le cose più da vicino, stabilì che era l'opera di un orso. Mentre lui collegava un computer portatile a uno dei dispositivi all'interno del contenitore bianco, io avevo il compito di tenere d'occhio i dintorni, per controllare se si avvicinavano animali selvatici.
Quanto più si scende in profondità, tanto più il permafrost si scalda, per la stessa ragione per cui in una miniera di carbone si suda, cioè per il calore che affluisce dal centro della terra. Nelle condizioni di equilibrio - vale a dire, quando il clima è stabile - in un pozzo di trivellazione le temperature più calde si trovano verso il fondo e decrescono in modo costante man mano che si sale. In queste circostanze la temperatura più bassa viene registrata alla superficie del permafrost, così che, riportati in grafico, i risultati daranno una retta inclinata. Ma negli ultimi decenni il profilo della temperatura del permafrost in Alaska ha avuto un crollo drammatico. Ora, anziché essere una linea retta, il grafico è più simile a una falce. La temperatura massima del permafrost si ha ancora sul fondo del pozzo, ma il punto più freddo non è alla superficie bensì più o meno a metà strada, mentre verso la superficie la temperatura si alza di nuovo. Un segno inequivocabile del fatto che il clima si sta riscaldando.
"È molto difficile studiare i trend nella temperatura dell'aria, proprio perché essa è così variabile", mi spiegava Romanovsky; eravamo tornati al camion e ci stavamo dirigendo, sobbalzando, verso Deadhorse. Scoprii che si era portato i Tostitos non tanto per ingannare la fame quanto la fatica sgranocchiare lo teneva sveglio, mi disse - e il sacchetto era ormai mezzo vuoto. "E così, nella regione di Fairbanks un anno c'è una temperatura media annuale di zero gradi e tu dici: 'Eh, si sta proprio riscaldando', e poi in altri anni la temperatura annuale media è di sei gradi sotto zero, e tutti dicono: 'E allora? Dov'è il vostro riscaldamento globale?' Riguardo alla temperatura dell'aria, il segnale è molto debole in confronto al rumore. Il permafrost funziona come un filtro a passo basso. Ecco perché le tendenze della temperatura sono molto più facili da vedere nel permafrost che nell'atmosfera".
Nella maggior parte dell'Alaska, la temperatura del permafrost è aumentata di tre gradi dai primi anni '80 ad oggi; in certe zone, l'aumento è di quasi sei gradi.
Quando si cammina nell'Artico, non si posano i piedi sul permafrost ma su qualcosa che viene chiamato "lo strato attivo". Questo strato, il cui spessore può variare da qualche centimetro a qualche metro, ghiaccia d'inverno ma si scioglie d'estate ed è ciò che sostiene la crescita delle piante - grandi abeti là dove le condizioni sono abbastanza favorevoli, arbusti dove non lo sono, e infine solo licheni. Nello strato attivo, la vita è molto simile a quella che si può osservare nelle regioni più temperate, ma con una differenza cruciale. Le temperature sono così basse che gli alberi e le erbe, quando muoiono, non si decompongono completamente. Le nuove piante si sviluppano sopra quelle vecchie, decomposte solo a metà, e quando anche queste muoiono si verifica di nuovo lo stesso fenomeno. Infine, tramite un processo noto come crioturbazione, la materia organica viene spinta sotto lo strato attivo, fino al permafrost, dove può restare per migliaia di anni in una sorta di versione botanica della morte apparente (a Fairbanks, è stata trovata erba ancora verde in strati di permafrost che risalgono a metà dell'ultima glaciazione). È per questa ragione che il permafrost, in modo molto simile a una torbiera o, sotto questo riguardo, a un giacimento di carbone, funge da deposito di carbonio accumulatosi nel tempo.
Uno dei rischi dell'innalzamento della temperatura è che il processo di deposito possa iniziare a funzionare al contrario. Se si creano le condizioni giuste, materiale organico che è rimasto congelato per millenni comincerà a degradarsi emettendo anidride carbonica o metano, che è un gas serra ancora più potente (benché a vita più breve). In alcune parti dell'Artico questo processo è già in atto. Un gruppo di ricercatori svedesi, ad esempio, sta misurando da circa 35 anni le emissioni di metano di una palude conosciuta come il 'pantano di Stordalen', situata vicino alla città di Abisko, oltre 1.300 km a nord di Stoccolma. Con il riscaldarsi del permafrost, le emissioni di metano in questa zona sono aumentate, in alcuni punti anche del 60%. Lo scioglimento del permafrost potrebbe rendere lo strato attivo più ospitale per le piante, che sono un serbatoio naturale (sink) di carbonio. Ma neppure questo sarebbe sufficiente a controbilanciare le emissioni di gas serra. Nessuno sa esattamente quanto carbonio è immagazzinato nel permafrost di tutto il pianeta, ma le stime arrivano a valori altissimi, come 450 miliardi di tonnellate metriche.
"È come una minestra precotta: basta scaldare appena un po' ed è bella e pronta", mi disse Romanovsky. Era il giorno successivo al nostro arrivo a Deadhorse e ci stavamo dirigendo, attraverso una pioggerella insistente, verso un'altra stazione di monitoraggio. "Penso che sia come una bomba a orologeria; perché scoppi, è necessario soltanto che la temperatura salga appena un altro po'". Romanovsky indossava un impermeabile sopra gli abiti da lavoro di canapa, io me ne infilai uno che lui aveva portato per me. Poi tirò fuori un telone dal retro del camion.
Ogni volta che ha ricevuto dei finanziamenti, Romanovsky ha aggiunto alla sua rete nuovi siti di monitoraggio che, attualmente, sono una sessantina; per tutto il tempo che rimanemmo nel North Slope lui trascorse l'intera giornata e anche parte della notte - c'era luce fin verso le 11 - correndo da una centralina all'altra. In ogni sito la procedura era più o meno la stessa. Per prima cosa collegava il suo computer al data logger, l'unità per la registrazione dei dati, che dall'estate precedente aveva misurato la temperatura del permafrost ogni ora. Quando pioveva, Romanovsky eseguiva questa prima operazione accovacciato sotto il telone. Poi estraeva una sonda di metallo a forma di "T" e la infilava nel terreno a intervalli regolari, per misurare la profondità dello strato attivo. La sonda era lunga un metro, ma, come poi scoprimmo, questa lunghezza non era più sufficiente. L'estate era stata così calda che, quasi ovunque, lo strato attivo era diventato più profondo, in alcuni punti solo di qualche centimetro, in altri in misura ben più rilevante. Dove lo strato attivo era particolarmente spesso, Romanovsky aveva dovuto escogitare un nuovo metodo per la misurazione, usando la sonda come un metro di legno. Io l'ho aiutato, prendendo nota dei risultati di questi esercizi nel suo taccuino da campo impermeabile. Alla fine - mi ha spiegato - il calore che aveva fatto aumentare la profondità dello strato attivo si sarebbe aperto la via verso il basso, portando il permafrost molto vicino al punto di scioglimento. "Torni l'anno prossimo", mi ha raccomandato.
Nell'ultimo giorno della nostra permanenza nel North Slope arrivò un amico di Romanovsky, Nicolai Panikov, microbiologo presso lo Stevens Institute of Technology, in New Jersey. Il suo progetto era quello di raccogliere microrganismi che prediligono le temperature molto basse, chiamati psicrofili, per poi riportare i campioni nel New Jersey e studiarli. Panikov aveva l'obiettivo di determinare se quegli organismi avrebbero potuto vivere nelle particolari condizioni che un tempo, a quanto si crede, erano presenti su Marte. Panikov mi disse di essere profondamente convinto che su Marte esiste la vita - o, almeno, è esistita. Romanovsky espresse la sua opinione a riguardo stralunando gli occhi; comunque aveva acconsentito ad aiutare Panikov a scavare un po' di permafrost.
Quello stesso giorno, volai in elicottero con Romanovsky fino a una piccola isola nel Mar Glaciale Artico, un altro sito in cui aveva installato una stazione di monitoraggio. L'isola, appena più a nord del settantesimo parallelo, era una desolata distesa di fango punteggiata di piccoli ciuffi di vegetazione giallastra. Era piena di cunei di ghiaccio che stavano cominciando a sciogliersi, generando una rete di depressioni poligonali. Faceva freddo ed era umido, così, mentre Romanovsky se ne stava acquattato sotto il suo telone, io rimasi nell'elicottero a chiacchierare col pilota. Viveva in Alaska dal 1967. "È certamente diventato più caldo da quando mi sono stabilito qui. L'ho davvero notato", mi disse.
Quando Romanovsky uscì fuori dal suo riparo, facemmo un giro dell'isola a piedi. In primavera era stato probabilmente un luogo di nidificazione per gli uccelli, perché ovunque andammo trovammo frammenti di gusci d'uovo e mucchi di escrementi. L'isola si trovava a soli tre metri circa sopra del livello del mare e i suoi bordi affilati cadevano a strapiombo nell'acqua. Romanovsky indicò un punto lungo la costa in cui l'estate precedente aveva notato una serie di cunei di ghiaccio affioranti. I cunei si erano sciolti e il terreno aveva ceduto, lasciando il posto a una cascata di fango nero. Nel giro di qualche anno, mi disse, si aspettava che altri cunei di ghiaccio venissero a trovarsi esposti per poi fondere, aggravando l'erosione. Rispetto a Shishmaref, i meccanismi dei due processi erano diversi, ma le cause erano le stesse e, secondo Romanovsky, anche gli esiti sarebbero stati molto probabilmente identici. "Ecco un'altra isola che scompare - mi disse indicando a gesti alcuni dirupi esposti da erosioni recenti - tutto il terreno sta cedendo molto, molto in fretta".
Il 18 settembre 1997 il Des Groseilliers, una nave rompighiaccio lunga 100 metri con lo scafo di un bel rosso vivo, salpò dalla città di Tuktoyaktuk, sul mare di Beaufort, dirigendosi a nord sotto un cielo coperto da una coltre di nubi. Normalmente il Des Groseilliers, che è ancorato a Québec City, viene usato dalla Guardia Costiera canadese, ma in quel particolare viaggio trasportava un gruppo di geofisici americani che aveva in programma di andarsi a infilare in un lastrone di ghiaccio galleggiante della banchisa.
Gli scienziati speravano di poter eseguire una serie di esperimenti mentre la nave e il lastrone andavano alla deriva, come un unico corpo, nel Mar Glaciale Artico. C'erano voluti anni per preparare la spedizione, e in fase di progettazione gli organizzatori avevano attentamente esaminato i risultati di una precedente spedizione artica, che risaliva al 1975. I ricercatori a bordo del Des Groseilliers erano perfettamente consapevoli che il ghiaccio del mare artico si stava ritirando; anzi, era esattamente quello il fenomeno che speravano di riuscire a studiare. Nonostante ciò, furono presi alla sprovvista.
Basandosi sui dati della spedizione del 1975, avevano stabilito di cercare un blocco di ghiaccio galleggiante dello spessore medio di tre metri. Quando raggiunsero la zona dove avevano progettato di trascorrere l'inverno - a 75 gradi di latitudine nord - scoprirono che non solo non c'era alcun lastrone galleggiante di quello spessore, ma a malapena si potevano trovare blocchi che raggiungevano i due metri. Uno degli scienziati che parteciparono a quella spedizione ha ricordato con queste parole la reazione a bordo del Des Groseilliers: "Della serie 'eccoci qua, tutti agghindati e tirati a lucido, e nessun posto dove andare'. Provammo a immaginare che effetto avrebbe fatto ai nostri sponsor alla National Science Foundation se li avessimo chiamati per dire loro 'Be', sapete, non riusciamo proprio a trovare del ghiaccio'".
Il ghiaccio marino dell'Artico è di due tipi diversi. C'è un ghiaccio stagionale, che si forma d'inverno e si scioglie d'estate, e uno perenne, che dura tutto l'anno. A un occhio inesperto i due tipi possono apparire più o meno identici, ma leccandolo si può dedurre con sufficiente precisione da quanto tempo quel particolare blocco sta galleggiando in mare.
Quando dall'acqua marina comincia a formarsi il ghiaccio, il sale viene eliminato perché non trova posto nella sua struttura cristallina. Man mano che il ghiaccio si ispessisce, il sale spinto fuori si raccoglie in minuscole sacche piene d'acqua salmastra, troppo concentrata per congelare. Se succhiate un pezzo di ghiaccio vecchio di un anno, scoprirete che ha un sapore salato. Infine, se il ghiaccio resta congelato abbastanza a lungo, queste sacche di acqua salata si svuotano attraverso piccoli, sottili canali simili a vene, e il ghiaccio diventa più dolce. Il ghiaccio marino vecchio di qualche anno è così puro che, una volta sciolto, lo si può bere.
Le misurazioni più precise del ghiaccio marino artico sono state effettuate dalla NASA, per mezzo di satelliti equipaggiati con sensori a microonde. Come rivelano i dati satellitari, nel 1979 il pack, il ghiaccio marino perenne, copriva una superficie di 0,8 miliardi di ettari, ovvero un'area all'incirca della stessa grandezza degli Stati Uniti continentali. L'estensione del ghiaccio varia di anno in anno, ma da allora si rileva una tendenza generale a una forte diminuzione. Le perdite sono state particolarmente forti nei mari di Chukchi e di Beaufort, e considerevoli anche nel mare della Siberia Orientale e nel mare di Laptev. Durante questo stesso periodo un pattern di circolazione atmosferica, denominato Oscillazione Artica, si è mantenuto per lo più nella modalità che i climatologi definiscono "positiva". L'Oscillazione Artica positiva è caratterizzata da bassa pressione sopra il Mar Glaciale Artico, che tende a produrre forti venti e temperature più alte nell'estremo nord. Nessuno sa con certezza se il recente comportamento dell'Oscillazione Artica sia indipendente dal riscaldamento globale o se ne sia un prodotto. È tuttavia un dato di fatto che il ghiaccio marino perenne oggi si è ridotto di circa 100 milioni di ettari, un'area della grandezza degli stati di New York, Georgia e Texas messi insieme. Secondo i modelli matematici, persino il lungo periodo di Oscillazione Artica positiva può spiegare solo in parte questa perdita.
Al tempo in cui il Des Groseilliers partì per la sua spedizione, le informazioni disponibili sui trend relativi alla profondità del ghiaccio marino erano ancora poche. Qualche anno più tardi, una quantità limitata di dati - raccolti, per scopi piuttosto diversi, dai sommergibili nucleari - cessò di essere coperta dal segreto militare e fu resa pubblica. Questi dati dimostravano che fra gli anni '60 e gli anni '90 la profondità del ghiaccio marino in una grande sezione del Mar Glaciale Artico era diminuita quasi del 40%.
Alla fine i ricercatori a bordo del Des Groseilliers presero la decisione di ripiegare sul migliore lastrone di ghiaccio che fossero riusciti a trovare. Ne scelsero uno con una superficie di circa 78 km2 e uno spessore di due metri in alcuni punti, di appena un metro in altri. Sul lastrone galleggiante furono montate delle tende per condurre gli esperimenti e vennero imposte speciali misure di sicurezza: chiunque si avventurasse fuori dalla nave, sul ghiaccio, doveva essere accompagnato da un altro e portare con sé una radio (molti prendevano anche una pistola, in caso di problemi con gli orsi polari).
Alcuni degli scienziati formularono l'ipotesi che, essendo il ghiaccio insolitamente sottile, nel corso della spedizione il suo spessore sarebbe aumentato. In realtà avvenne l'esatto contrario. Il Des Groseilliers trascorse dodici mesi incastrato nella banchisa e durante quel periodo andò alla deriva per circa 300 miglia verso nord. Ma, alla fine dell'anno, lo spessore medio del lastrone era diminuito, in alcuni punti anche di un terzo. Ad agosto del 1998 gli scienziati caduti in acqua erano stati così numerosi che al protocollo di sicurezza fu aggiunta una nuova prescrizione: chiunque mettesse piede fuori dalla nave doveva indossare un giubbotto di salvataggio.
Donald Perovich ha studiato il ghiaccio marino per trent'anni.
Andai a trovarlo nel suo ufficio in Hanover, New Hampshire, in un giorno piovoso non molto tempo dopo il mio rientro da Deadhorse. Perovich lavora per il Cold Regions Research and Engineering Laboratory, o CRREL (che si pronuncia "crell").
Il CRREL è una sezione dell'Esercito degli Stati Uniti, istituita nel 1961 in previsione di una guerra molto fredda (l'ipotesi di fondo era che, se i Sovietici avessero tentato un'invasione, con ogni probabilità lo avrebbero fatto dal nord). Perovich è alto, ha capelli e sopracciglia nerissimi e modi affabili e calorosi. Il suo ufficio è tappezzato di fotografie della spedizione del Des Groseilliers, alla quale ha partecipato in veste di responsabile scientifico; ci sono foto della nave, delle tende e, se si guarda abbastanza attentamente, degli orsi. In una foto tutta sgranata si vede qualcuno vestito da Babbo Natale, mentre celebra il Natale fuori nel buio, in mezzo ai ghiacci. "La cosa più divertente che si possa fare", è stato il commento con cui Perovich mi ha descritto la spedizione.
La particolare area di competenza di Perovich, citando le parole che compaiono nella sua biografia ufficiale pubblicata dal CRREL, è "l'interazione fra radiazione solare e ghiaccio marino". Durante la spedizione del Des Groseilliers, Perovich trascorse gran parte del suo tempo controllando le condizioni del ghiaccio per mezzo di un dispositivo chiamato spettroradiometro. Puntato verso il sole, questo apparecchio misura la luce solare incidente; puntato verso terra, misura la luce riflessa. Dividendo la seconda per la prima, si ottiene una misura definita albedo (il termine deriva da una parola latina che significa "bianchezza"). Durante i mesi di aprile e maggio, quando le condizioni sul lastrone di ghiaccio erano relativamente stabili, Perovich eseguì misurazioni con lo spettroradiometro una volta alla settimana; invece nei mesi di giugno, luglio e agosto, in cui le condizioni variavano più velocemente, rilevò le misure ogni due giorni. Ciò gli ha permesso di seguire esattamente la variazione dell'albedo da quando la neve sopra al ghiaccio si trasformava in fanghiglia, e poi la fanghiglia in pozze, fino a quando, infine, le pozze completamente disciolte arrivavano a riversarsi nel mare sottostante.
Una superficie bianca ideale, che riflettesse tutta la luce incidente su di essa, avrebbe un albedo di 1, mentre una superficie nera ideale, che assorbisse tutta la luce incidente, avrebbe un albedo di 0. L'albedo della Terra è, nel complesso, di 0,3; ciò significa che poco meno di un terzo della luce solare che colpisce la superficie viene riflesso. Qualsiasi cosa che modifica l'albedo della Terra produce anche una variazione della quantità di energia assorbita dal pianeta, con conseguenze potenzialmente drammatiche. "Mi piace questo metodo perché si basa su concetti semplici, ma molto importanti", mi diceva Perovich.
A un certo punto Perovich mi chiese di immaginare di guardare giù, sulla Terra, da una nave spaziale che passa sopra il Polo Nord. "È primavera, il ghiaccio è coperto di neve ed è molto bianco e luminoso. Riflette oltre l'80% della luce solare incidente". L'albedo è intorno a 0,8-0,9. "Ora, - dice - supponiamo che tutto quel ghiaccio si sia sciolto e che sia rimasto soltanto l'oceano. L'albedo dell'oceano è meno di 0,1; è intorno a 0,07. L'albedo del ghiaccio coperto di neve non solo è alto, ma è addirittura il più alto che si può trovare sulla Terra". E continua: "L'albedo dell'acqua non solo è basso, ma è più basso di qualunque altra cosa che si trovi sulla superficie terrestre.
Quindi, ciò che stiamo facendo è sostituire la cosa che riflette meglio la luce solare con la cosa che la riflette meno di tutte". Quanto più grande è la superficie dell'oceano che resta esposta, tanto maggiore è la quantità di energia solare che va a riscaldare l'oceano stesso. Il risultato è un circuito a feedback positivo, simile a quello tra lo scioglimento del permafrost e il rilascio di carbonio in atmosfera, ma solo più immediato. Si ritiene che questo feedback ghiaccio/albedo sia una delle principali ragioni per cui l'Artide si sta scaldando così rapidamente. "Se il ghiaccio marino fonde, possiamo immettere più calore nel sistema, il che significa che possiamo far fondere altro ghiaccio marino, che vuol dire che possiamo immettere ancora più calore e così via; come è facile vedere, è un sistema che si carica da solo", dice Perovich. "È sufficiente una piccola 'spinta', e il sistema climatico l'amplificherà in un grande cambiamento".
A poche decine di chilometri a est del CRREL, non lontano dal confine Maine-New Hampshire, c'è un piccolo parco, la Madison Boulder Natural Area. La maggiore attrattiva del parco, di fatto la sua unica attrattiva, è rappresentata da un masso di granito grande quanto una casa a due piani.
Questo macigno - il Madison Boulder, appunto - è largo 11 metri e lungo 25, e pesa circa 4.500 tonnellate. Il masso, che si staccò dalle White Mountains e rimase depositato nella sua attuale posizione 11.000 anni fa, è la dimostrazione del fatto che cambiamenti relativamente piccoli nel sistema climatico possono produrre, se amplificati, risultati di proporzioni colossali.
Geologicamente parlando, stiamo vivendo in un periodo caldo che è seguito a un'era glaciale. Negli ultimi due milioni di anni, enormi ghiacciai sono avanzati nell'emisfero settentrionale, per poi ritirarsi di nuovo, più di venti volte (e ogni grande avanzata tendeva, per ovvi motivi, a distruggere le prove di quelle precedenti). Il movimento più recente, chiamato 'glaciazione Wisconsin', ebbe inizio all'incirca 120.000 anni fa. Il ghiaccio iniziò ad avanzare lentamente a partire da centri situati in Scandinavia, Siberia e negli altopiani nei pressi della Baia di Hudson, inoltrandosi gradatamente attraverso quelli che oggi costituiscono i territori dell'Europa e del Canada. Nel periodo in cui i ghiacciai raggiunsero la loro massima estensione verso sud, gran parte degli stati del New England e di New York e buona parte delle regioni superiori del Midwest erano sepolte sotto una coltre di ghiaccio spessa più di un chilometro. Questi ghiacci erano così pesanti da esercitare una forte compressione della crosta terrestre, fino a spingerla in basso, facendola rientrare nel mantello (in alcuni luoghi il processo di recupero da questa pressione, denominato 'rimbalzo isostatico', è ancora in atto). Ritirandosi, all'inizio del periodo interglaciale attuale, l'Olocene, i ghiacciai lasciarono lungo il loro cammino, fra le altre tracce, anche il deposito morenico terminale che oggi si chiama Long Island.
Oggi è un fatto riconosciuto, o perlomeno quasi universalmente accettato, che le ere glaciali sono avviate da lievi e periodiche variazioni dell'orbita terrestre. Queste variazioni - causate, tra gli altri fattori, dalla forza di attrazione gravitazionale degli altri pianeti - alterano la distribuzione della luce solare alle diverse latitudini nelle varie stagioni e seguono un ciclo complesso che impiega 100.000 anni a completarsi. Le variazioni dell'orbita, tuttavia, non sono di per sé sufficienti a produrre quel tipo di ghiacciaio imponente che si trascinò dietro il Madison Boulder. Quel ghiacciaio di dimensioni impressionanti, il Laurentide, che si estendeva per oltre 13 milioni di km2, era il risultato di feedback più o meno analoghi a quelli che si studiano oggi nell'Artico, ma in direzione opposta. Con l'estendersi della superficie ghiacciata l'albedo aumentava, portando a un assorbimento di calore sempre minore e quindi a una crescita della quantità di ghiaccio. Allo stesso tempo, per ragioni che non sono ancora del tutto chiare, con l'avanzare dei ghiacci i livelli atmosferici di CO2 si abbassarono: durante ognuna delle glaciazioni più recenti si è verificata una caduta dei livelli di anidride carbonica, in un sincronismo quasi perfetto con l'abbassamento delle temperature. In ogni periodo caldo, al ritirarsi dei ghiacci i livelli di CO2 aumentavano di nuovo. I ricercatori che hanno analizzato questi fenomeni sono giunti alla conclusione che la differenza di temperatura fra periodi freddi e periodi caldi possa essere attribuita per una buona metà ai cambiamenti nelle concentrazioni dei gas serra.
Mentre ero al CRREL, Perovich mi fece incontrare un suo collega, John Weatherly. Sulla porta dell'ufficio di Weatherly c'era un adesivo, ideato per essere attaccato - illegalmente - ai paraurti dei S.U.V., con su scritto "Io cambio il clima! Chiedimi come!" Weatherly sviluppa modelli climatici e da molti anni lui e Perovich stanno lavorando per tradurre i dati raccolti nella spedizione del Des Groseilliers in algoritmi informatici da usare per le previsioni del clima. Weatherly mi ha detto che, secondo alcuni modelli climatici - i più importanti attualmente in uso in tutto il mondo sono circa quindici - entro il 2080 nell'Artico la banchisa perenne sarà interamente scomparsa. A quel punto, anche se d'inverno continuerebbe a formarsi uno strato di ghiaccio stagionale, d'estate il Mar Glaciale Artico sarebbe completamente libero dai ghiacci. "Non avverrà nel corso della nostra vita - mi diceva - ma durante quella dei nostri figli".
Più tardi, dopo esser tornati nel suo ufficio, io e Perovich abbiamo parlato delle prospettive a lungo termine per l'Artico. Lo studioso notava che il sistema climatico terrestre è così vasto da non poter essere alterato facilmente. "Da una parte, viene da pensare, è il sistema climatico della Terra; è grande, è solido. E, in effetti, deve essere abbastanza solido altrimenti cambierebbe di continuo". D'altra parte, i dati climatici indicano che sarebbe un errore presumere che il cambiamento, nel caso si verifichi, arriverà gradualmente. Perovich mi ha riferito un'immagine usata da un suo amico glaciologo, il quale aveva paragonato il sistema climatico a una barca a remi: "Può inclinarsi da un lato e poi ritornare a posto. Può inclinarsi di nuovo e tornare a posto. Ma viene la volta che s'inclina e raggiunge l'altro stato stabile, che consiste nel restare capovolta".
Poi Perovich mi parlò di un'altra analogia che gli piaceva molto, ispirata alla conformazione locale del territorio. "È una cosa che ho pensato girando in bici nei dintorni. Qui si attraversano grandi pascoli e tutti hanno nel mezzo questi enormi massi di granito. E poi c'è un grosso macigno piantato proprio lì, sul pendio di una collina. Non puoi ignorarlo o fare finta di non vederlo. Senti il bisogno di provare a smuoverlo. E così inizi a spingerlo, e poi metti insieme un bel gruppo di amici e tutti quanti cominciano a spingere, e alla fine il masso inizia a muoversi. A quel punto uno realizza che forse non è stata l'idea migliore. È ciò che stiamo facendo come società. Non sappiamo dove andrà a finire questo clima, se inizia a rotolare".