Quando durante un’udienza per i fatti del 15 ottobre di fronte ad evidenti immagini di violenza delle forze dell’ordine, ed in particolare di uno dei tanti blindati che nella follia dei loro caroselli investe un manifestante, il P.M. domanda al perito tecnico se si sia accorta che l’investito portava con sé un bastone ( se sia fondamentale o no sapere che in realtà era un’asta di una bandiera sta a chi legge), viene immediatamente in mente l’assassinio di Carlo Giuliani. Un estintore è bastato a giustificare la mano che ha sparato uccidendolo. E quella mano apparteneva ad un esecutore dell’ordine così come quel P.M. appartiene a chi decide le politiche di uno stato incluse quelle di piazza.
Quando 2 anni fa alcuni compagni e compagne furono arrestate per il reato di associazione sovversiva a causa di uno striscione che diceva “Terrorista è lo stato”, furono sequestrati e sequestrate nelle prigioni per circa un anno per poi essere prosciolti e prosciolte in sede di rinvio a giudizio a seguito della richiesta della stessa P.M. che senza colpo ferire ritrattava la sua accusa (con la peculiare spocchia di chi veste le toghe accusatorie) adducendo che non voleva essere responsabile di gravare lo stato di ulteriori spese.
Quando una manifestazione di piazza, che rivendica condizioni lavorative, abitative, ambientali degne di uomini e donne libere e non schiavizzati e schiavizzate da cinici interessi di un capitalismo in trasformazione, viene repressa ricorrendo ad arresti o misure limitative della libertà.
Quando è storia che lo stato con le sue forze contro rivoluzionarie si è sempre dotato e sempre si doterà di tutte quelle armi lecite e illecite (bombe, assassinii anonimi, suicidi indotti, norme di codici penali emergenziali mai revocate, criminalizzazioni di lotte sociali, campagne mediatiche infamanti) per soffocare ogni anelito di libertà e giustizia, invocare il diritto alla resistenza oltre ad essere una contraddizione in termini, è miope…
Oppure si fa finta di non capire. Si fa finta di non capire che non v’è giustizia nella legalità. Che nessuna legalità può rappresentare, includere, inglobare il diritto naturale (non concesso da alcun codice) alla rabbia e alla sovversione.
Non si attacca una banca artefice di devastazioni e saccheggi o una vetrina simbolo di ingiustizia sociale e istigazione ad una vita il cui valore fondante è “produci consuma e crepa” per chiamare quella azione “diritto alla resistenza”. La piazza è il luogo in cui ritrovarsi sfruttato/a tra gli sfruttati/e, per uscire dall’isolamento a cui vorrebbero ridurci attraverso percorsi che nulla hanno a che fare persino con il loro vocabolario in particolare quando esso diventa codice, l’arma democratica con cui perpetrare la riduzione al silenzio, alla rassegnazione.
Rivendicare il riconoscimento del diritto alla resistenza (attraverso un’ennesima norma penale, una sorta di attenuante, magari?) diviene un gioco, una partita a biliardo alla ricerca di sponde istituzionali per altro ad oggi inesistenti. Diviene un tentativo di rimessa in campo di forze politiche sinistre che ancora una volta vorrebbero riconquistare pezzi di strada, riaffacciandosi sulla scena politica attraverso l’uso che sempre hanno fatto dei movimenti sociali.
Chissà come lo leggeranno tutti quei detenuti e detenute che per qualsiasi motivo, culturale, di opportunità, di scelta, di costrizione e quanti altri potremmo elencare si ritrovano nelle patrie galere privi anche della possibilità di rivendicare il loro diritto a non rimanerci.
RETE EVASIONI