Il 26 marzo si è tenuta presso il tribunale di Roma l’udienza preliminare del processo in cui sono imputati Gianluca e Adriano.
I due compagni sono accusati di “associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico”, a cui si aggiungono quelle di incendio, furto aggravato in concorso, deturpamento e danneggiamento di cose altrui. Si tratta di tredici azioni realizzate nel territorio dei Castelli Romani contro banche, una pellicceria, sedi distaccate di ENI ed ENEL e contro la discarica di Albano.
Il processo, di fronte alla corte d’assise, avrà inizio il 26 Maggio.
Con il provvedimento di rinvio a giudizio il GUP D’alessandro si è assunta la grave responsabilità di disporre che gli imputati debbano partecipare tramite videoconferenza.
La decisione sarebbe motivata da una circolare del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria che prescrive l’utilizzo di questo dispositivo come misura di contenzione dei detenuti “più pericolosi”, adottata in seguito all’evasione di Domenico Cutrì, avvenuta nel corso di un trasferimento giudiziario.
Si tratta di una misura che d’ora in poi potrebbe riguardare, insieme ad altri, tutti i procedimenti riguardanti i detenuti in regime di Alta Sicurezza.
L’utilizzo della videoconferenza rientra all’interno di un politica carceraria, stabilita dalla Comunità Europea, basata sul modello della differenziazione e quindi dell’isolamento.
Si tratta di separare dal corpo dei detenuti gli elementi considerati più pericolosi: da un lato per poter, con minor rischio e minor costo, gestire la massa crescente degli internati, dall’altro per tentare di annichilire tutti i nemici dello Stato insuscettibili di ravvedimento.
L’isolamento, che si tenta di imporre in maniera sempre più stringente, può arrivare ad essere una vera e propria forma di tortura che provoca pesanti danni fisici e psichici a chi la subisce.
Una serie di provvedimenti adottati recentemente nelle sezioni AS2 (riservate ai compagni rivoluzionari) sono indirizzati ad aumentare il grado di isolamento: chiusura di cancelli che dividono da altre sezioni, limitazioni di colloqui, tentativi di imporre l’isolamento individuale, divieto di incontro tra detenuti della stessa sezione.
A tutto questo si aggiunge il processo in videoconferenza, uno strumento che colpisce in diversi modi gli individui a cui viene imposto.
Sul piano umano negare ad un detenuto di partecipare fisicamente alle udienze significa infliggergli un ulteriore violenza, impedendo che il suo sguardo possa, anche solo per breve tempo, fuoriuscire dal ristretto orizzonte dell’istituzione totale ed incrociarsi con quello affettuoso e solidale dei compagni, degli amici, dei parenti.
Dal punto di vista processuale la videoconferenza fa parte di una serie di dispositivi tesa a rappresentare l’immagine del nemico (il mafioso o il terrorista) del quale si deve cancellare ogni traccia di umanità e ragione. Si suggerisce una colpevolezza a priori, legata a ciò che un soggetto è considerato piuttosto che ai gesti che ha effettivamente compiuto. L’imputato viene rappresentato come un mostro da tenere relegato e distante in quanto troppo pericoloso per presenziare in aula.
Così, una giuria popolare potrà condannare molto più a cuor leggero una immagine che scorre su uno schermo, come il telefilm della sera, piuttosto che un essere umano in carne ed ossa che è in grado di riconoscere come un proprio simile. Esattamente come un militare che guida un drone uccide più a cuor leggero di uno che spara da distanza ravvicinata.
L’imputato invece verrà limitato nella possibilità di esporre le proprie ragioni da una corte che potrà togliergli arbitrariamente la parola, e che di fatto lo porrà sotto questa costante minaccia. Verrà escluso, schiacciando un semplice tasto, ogni qualvolta dica qualcosa di non gradito dai togati.
Recentemente, con l’applicazione dell’articolo 270 sexies il potere ci ha dimostrato di possedere uno strumento giuridico potenzialmente in grado di colpire con condanne pesantissime ogni forma di reale conflitto sociale. Stabilito che terrorista è considerato chiunque si opponga efficacemente al sistema, devono in seguito costruire l’immagine del terrorista con un adeguato impianto scenografico. Da questo punto di vista la videoconferenza è un ulteriore strumento di guerra psicologica che si aggiunge ai processi in aula bunker, all’utilizzo di carceri speciali, al linguaggio mistificatorio con cui si descrivono le azioni di lotta, evocando tutto un immaginario.
Mentre le cause sociali della repressione sono sempre più evidenti, mentre assistiamo con crescente frequenza a costruzioni giudiziarie che assumono sfacciatamente il carattere della rappresaglia politica, i repressori mettono in atto l’ennesimo tentativo di tappare la bocca a chi si oppone ad un sistema fallito.
Vogliono soffocare le voci coraggiose e ribelli, vogliono seppellire le ragioni di chi lotta nel silenzio del cemento.
Le sentiranno i signori al potere queste voci, le sentiranno sempre più forti e sempre più vicine alle loro orecchie che non tollerano disturbi. Le sentiranno nei tribunali che vorrebbero asettici, nelle piazze che vorrebbero rassegnate, nelle notti in cui vorrebbero dormire sonni tranquilli.
Solidarietà attiva a Gianluca e Adriano
Solidarietà ai compagni e alle compagne prigioniere
Solidarietà ai detenuti e alle detenute
Rete evasioni
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