Apr 092014
 

Bologna 31 marzo 2014 sentenza di primo grado del Processo “Outlaw”

Alle cinque della sera

Il 31 marzo 2014, alle cinque della sera, è arrivata la sentenza di assoluzione, perché il fatto non sussiste, per i 21 anarchici e anarchiche dello Spazio di Documentazione “Fuoriluogo”. Erano stati portati a processo con l’accusa di aver costituito un’associazione a delinquere con finalità eversive dell’ordine democratico, compresa di capi, sottocapi e partecipanti. Dopo 5 arresti durati sei mesi tra carcere e domiciliari, obblighi e divieti di dimora, fogli di via e chiusura della sede, dopo tre anni di tormentone e nove udienze è arrivata la conclusione del primo grado di giudizio. Non è ancora dato sapere se la pm ricorrerà in appello. L’andamento del processo lo sconsiglierebbe: la figura fatta dall’accusa e dalla digos di Bologna suggerirebbero un decoroso ritiro in sordina. Ma tant’è, questi personaggi, anche di fronte al crollo del loro impianto accusatorio, al tempo dedicato a seguire, pedinare, ossessionare le vite degli accusati e delle accusate che al massimo ha prodotto dei pettegolezzi sulle loro vite private, non è escluso che continuino a insistere. Vergogna non ne provano certo, della pochezza di mestiere dimostrata non se ne curano affatto, e può essere che convenga loro, come esecutori della repressione, mantenere attiva l’accusa. Al servizio di protezione dell’ordine costituito, il loro obiettivo non è sicuramente dar prova di intelligenza e competenza bensì di ottenere almeno qualche risultato. Nel caso in questione hanno chiuso una sede e, in parte, distratto chi ha dovuto affrontare il processo dall’essere con maggiore incisività presente nelle lotte. Hanno allontanato alcuni dalla città con i fogli di via, ma non pensino che altri non si siano aggiunti o che quei compagni e compagne non abbiano trovato altri luoghi in cui dare il tormento al potere.
Ha sconcertato osservare il disimpegno totale dimostrato nel sostenere l’accusa, sia da parte della pm che dei testi digos. Qualcuno sostiene che sia stata la diretta conseguenza del nulla che avevano in mano. Altri che il loro obiettivo sia stato comunque considerato raggiunto chiudendo il “Fuoriluogo” e disperdendo le forze dei partecipanti a quella esperienza di lotta. Anche la minaccia verso chiunque intenda opporsi al sistema scegliendo di usare metodi decisi, il monito “attenzione che se scendi in piazza con un po’ di determinazione potresti finire accusato di reato associativo” restano comunque efficaci pur senza condanna. Paura è probabile che ne facciano anche solo aleggiando la possibilità di provocare ad altri quel fastidio che hanno procurato nelle vite degli imputati e delle imputate.
Avevano deciso di colpire il “Fuoriluogo” per togliersi dai piedi un insieme di compagni e compagne con grande disponibilità alla lotta. La determinazione e la costanza dedicate all’opposizione ai centri di detenzione per immigrati senza permesso di soggiorno, denominati prima Cpt e poi Cie, la continuità con cui si è scesi in strada per portare la voce dei reclusi, l’attenzione riservata a chi gestisce e lucra su quei luoghi infami, la presenza abituale davanti alle mura di quei lager per dare solidarietà e raccogliere le storie tragiche di chi vi sta dietro, ma anche quelle delle ribellioni, delle bellissime rivolte che non si sono mai fermate, tutto questo è risultato intollerabile per le autorità cittadine e per i curatori dell’ordine. E questo per nominare solo l’impegno sostenuto con maggiore forza, ma molte sono le lotte che hanno visto in prima linea in città i frequentatori di quello spazio insieme a tanti compagni e compagne di differenti provenienze. Carcere, nucleare, nocività come il Tav o le discariche, solidarietà con gli sfruttati e chi subisce la repressione sono i terreni in cui negli anni ci si è mossi.  Le pratiche messe in atto non hanno mai tenuto conto del lecito e dell’illecito, del legale e dell’illegale, dell’approvazione o quanto meno della tolleranza da parte degli ufficiali dell’ordine e questo certo non ha contribuito a usare riguardi nei confronti degli anarchici e delle anarchiche finiti sotto accusa. Il loro cattivo esempio andava sanzionato perché non ottenesse di diffondersi.
Non va dimenticato che sono potentati come l’Eni, al tempo colpita da attacchi, che hanno dato il via all’operazione repressiva “Outlaw” il 6 aprile del 2011 riuscendo a mettere a tacere i dubbi che non ci fossero elementi consistenti per procedere. I funzionari di giustizia hanno allora costruito tutti i passaggi necessari, dall’incriminazione al rinvio a giudizio e al processo, e alla fine hanno dovuto limitarsi a raccogliere un misero risultato: un attacco preventivo senza concretizzazione di pena. Tutto questo impianto accusatorio, tutto questo baccano mediatico, tutta questa digos impegnata a stare appresso a un gruppo di anarchici per riuscire a malapena a trattenere la carica appassionata di donne e uomini avversi alle sopraffazioni e refrattari al dominio.

Nella stessa giornata della sentenza è stato riaperto uno spazio sottratto al piacere e all’esigenza di utilizzarlo. Uno spazio per il confronto, la discussione e la ricerca di un modo efficace per opporsi a un sistema che opprime, affama, devasta e avvilisce la vita. Uno spazio per continuare ad alimentare l’utopia di un mondo del tutto altro da questo.
Il Laboratorio anarchico di via Paglietta 15 era stato strappato ai compagni 15 anni fa. Si tratta della sede di un circolo intitolato a Carlo Cafiero che ospitava la Libreria Circolante. A metà degli anni sessanta era stato preso in affitto da Libero Fantazzini con alcuni compagni anarchici. Il comune di Bologna lo aveva concesso a un costo simbolico per sostituire la sede storica di Porta Galliera chiusa durante il ventennio fascista. Questo posto, nel giugno del 1999, fu messo sotto sequestro e poi chiuso con mattoni e cemento a seguito di un’inchiesta che aveva condotto in carcere una compagna e un compagno. Per più di trent’anni era stato utilizzato da gruppi e individualità anarchiche, riempito di attività, assemblee, incontri e condivisione di vita. Come spesso accade il procedimento penale non ebbe alcun seguito ma il locale, invece di essere reso come dovuta  conseguenza, restò murato e inaccessibile chiudendo con sé un pezzo di storia della città.
La riapertura nel pomeriggio del 31 marzo ha procurato gioia ed emozione, si è mantenuta il tempo di sogno, ma avrà la durata di una volontà.
Sconfitte a processo, non potevano le autorità costituite accettare questo smacco da parte degli “Assolti all’assalto”, come recitava in un titolo il fogliaccio cittadino per una volta divertente. Murato e sigillato la mattina del 2 aprile con la prepotenza e l’arroganza di chi della memoria storica si fa bello in occasione di parate e celebrazioni, il laboratorio è tornato a vivere uscendo dall’oblio di un ricordo rimosso. Il comune di Bologna è guidato da un partito, il Pd, che si è svenduto tutto, idee ed etica, pur di arrivare al comando. Figuriamoci se non si sarebbe svenduto anche il risarcimento dato nel dopoguerra agli anarchici come forza che aveva combattuto il fascismo.
Il fascismo aveva chiuso due sedi, la democrazia ha chiuso il “Fuoriluogo” e due volte il “Paglietta”. Complimenti!

Il via libera per la lotta non lo concede un’assoluzione, come ha tuonato il procuratore della città, ma la tensione che spinge per una vita bella e appassionata, libera da sfruttatori, potenti e servi.

Anarchiche e anarchici del processo “Outlaw”