Tramite corrispondenza, a due settimane dal presidio davanti al carcere “Le Sughere” di Livorno, veniamo a sapere che le persone detenute hanno sentito la calorosa solidarietà che proveniva da interventi, slogan e fuochi d’artificio, scegliendo di partecipare alla protesta con due ore di battitura e qualche lenzuolo in fiamme.
Una giornata intensa quella del 20 maggio a Livorno. Lì fuori si era in tanti: compagni e compagne provenienti da diverse città, famigliari di Stefano Crescenzi e le madri di altri ragazzi uccisi dal carcere. In circa 150, a squarciagola, abbiamo rotto il silenzio che le mura e le recinzioni vorrebbero imporre tra dentro e fuori.
È il racconto della giornata di protesta all’interno del carcere a confermarlo poiché durante il presidio, data la lontananza, è stato impossibile per chi partecipava percepire il rumore della battitura.
Durante quella giornata si sono susseguiti interventi di dolore e rabbia, di promesse di unirsi nella lotta perché, se la repressione uccide e isola tagliando i legami, nostro compito è quello di rafforzare le relazioni e non dar tregua a chi ci dichiara guerra ogni giorno.
Abbiamo conosciuto la famiglia di Stefano durante lo scorso presidio del 31 dicembre davanti al carcere di Rebibbia. In quell’occasione, con Radio Onda Rossa e la campagna Pagine Contro la Tortura, abbiamo trascorso la giornata intorno alle mura perimetrali del carcere femminile e maschile. A microfoni aperti, alcuni parenti delle persone imprigionate hanno potuto far arrivare loro affetto e vicinanza.
La lotta anticarceraria costruisce relazioni tra chi subisce la violenza del carcere anche fuori dalle mura; tra coloro a cui lo stato ha sequestrato o ucciso parenti, amici e persone care; tra chi ha vivo l’odio per quelle gabbie.
Lottare assieme, con la consapevolezza che farlo contro il carcere significa combattere la legalità e le oppressioni di questo esistente che lo Stato impone anche con la violenza militare.
Odiamo il carcere giorno dopo giorno.