La mobilitazione dello scorso 24 novembre a L’Aquila, in occasione di un processo alla prigioniera delle BR-PCC Nadia Lioce, era inserita in un percorso di lotta anti-carceraria; tale percorso individua il regime di 41bis come l’apice, la punta di diamante del sistema di repressione italiano, nonché “scuola” per le amministrazioni penitenziarie di tutti gli stati occidentali e non solo (pensiamo ad esempio alla Turchia).
Come campagna “pagine contro la tortura” nell’ultimo anno e mezzo, e come compagni e compagne contro il carcere, da una decina di anni a questa parte, abbiamo lanciato a più riprese diversi appuntamenti nel capoluogo abruzzese, proprio per la presenza in quel territorio del supercarcere che rinchiude oltre 100 persone, quasi tutte ristrette in 41bis.
Lo scorso 24 novembre ci siamo così recate/i a L’Aquila da differenti parti della penisola individuando nel processo a Nadia una doppia occasione: poter solidarizzare con lei, accusata per una serie di proteste contro le condizioni di detenzione, attuate per mezzo di battiture, e per ribadire che il 41bis, regime detentivo cui la compagna è sottoposta da 12 anni, è tortura.
Di fronte all’entrata del tribunale, un presidio con striscioni e volantini è stato partecipato da decine di solidali, mentre una cinquantina di persone hanno preteso, con necessaria determinazione, di poter essere presenti in aula; e così è stato.
Per molti/e era la prima volta che ci si trovava a un processo con l’imputata in videoconferenza, prassi obbligata per chi come Nadia si trova in 41bis, ma negli anni estesa anche ad altra “tipologia” di detenuti/e.
La videoconferenza è solo un esempio di come ciò che viene normato per la detenzione speciale, diventi poi “normale”, “di normale amministrazione” appunto, quindi “accettabile”, così da poter passare agli altri circuiti del sistema carcerario con una certa, supposta, legittimità.
Insomma, noi dall’altra parte dello schermo abbiamo potuto, per ora, solo immaginare cosa possa significare essere privati della possibilità di scambiare qualche sguardo complice con i propri affetti, sentire da vicino la solidarietà di chi è presente in aula, confrontarsi simultaneamente e non per interposta persona con i propri avvocati, eventualmente intervenire rispetto alle cose che vengono dette nel processo che si sta subendo… Proprio in questa udienza, che ha visto la partecipazione di un’ispettrice dei G.O.M. (reparti “specializzati” della polizia penitenziaria operativi nelle sezioni del 41) come testimone dei fatti imputati alla compagna, è stato particolarmente difficile non esprimere sdegno. La naturalezza con cui questa guardia riferiva le condizioni di detenzione (leggere: di annientamento psico-fisico) all’interno delle sezioni a 41bis, imposte dalle regole scritte sull’ordinamento penitenziario, e che lei “doveva” rendere esecutive, era di-sar-man-te: se c’è scritto che vanno fatte 3 perquisizioni al giorno, si fanno 3 perquisizioni al giorno. Punto. Se vige il divieto assoluto di comunicare tra detenute, la diretta conseguenza anche solo di un cenno della testa o di uno sguardo è il rapporto disciplinare. E così via. Candidamente.
D’altra parte, il dato rilevante di questa udienza, e che in qualche modo segna una novità, è stata la presa di parola da parte di Nadia, che ha presentato alla corte un documento di una decina di pagine in cui ha ritenuto necessario ripercorrere i passaggi della detenzione speciale, dall’art.90 al 41bis, descrivendo la natura vessatoria delle condizioni cui si pretende di sottoporre i detenuti e le detenute in 41bis, contestualizzandole e rendendo chiaro quanto grottesche possano risultare le accuse a lei rivolte in questo processo. È un documento prezioso e ci sembra evidente che quella sollevata dalla compagna sia una questione di principio, posta con la presentazione di questo testo come memoria processuale, così da farlo giungere all’esterno, tra le mani di noi tutti/e. Nella memoria appunto, che pubblichiamo in fondo a questo testo, Nadia ci consegna la testimonianza diretta di ciò che ci stanno facendo. E tutte/i noi abbiamo la responsabilità di farne a nostra volta memoria. Memoria viva, perché ciò che stanno facendo a oltre 700 persone sottoposte in Italia al cosiddetto carcere duro, è ciò che potrebbe in un modo o nell’altro riguardarne molte altre. I paletti della legalità sono nelle mani dello stato, e dove vengano di volta in volta piantati dipende dal terreno fertile che trovano. Una parte in campo spetta sicuramente a chi ritiene di non potere e volere accettare in silenzio la tortura dell’isolamento, così come le condizioni di sfruttamento, imposte, torniamo a dire, candidamente dagli stati. Che questo terreno diventi quarzo!
Possiamo senz’altro dire che non sia stato il silenzio a caratterizzare la giornata del 24: arrivati al momento del rinvio alla successiva udienza, fissata per il 4 maggio 2018, grida e cori si sono alzati dalle file dei/delle solidali in aula, è stato aperto uno striscione con su scritto 41BIS = TORTURA, qualcuno ne ha sottolineato il significato con un discorso estemporaneo… Nel frattempo il giudice faceva sgomberare l’aula, ma l’udienza era già finita e il corteo di solidali, con lo striscione alla testa, lasciava il tribunale raggiungendo il presidio all’esterno.
Di fatto non sappiamo se le nostre grida siano giunte fino a Nadia, il cui collegamento audio potrebbe essere stato prontamente interrotto; d’altra parte questo dispositivo fa parte del meccanismo perverso di annientamento pianificato e applicato.
Lasciato il tribunale in un’ottantina ci si è diretti al carcere dove, con un presidio ricco di interventi a microfono aperto si è cercato di raccontare la giornata, rompere la monotonia della vita internata e mandare un messaggio di solidarietà a Nadia e a tutti i detenuti e le detenute che non abbassano la testa.
Di fronte all’abominio possiamo alzare le spalle in un gesto di rassegnazione e girare la testa dall’altra parte, oppure guardare dritto in avanti e rimboccarci le maniche! Quest’ultima la nostra scelta!
1° Dicembre 2017
CAMPAGNA “PAGINE CONTRO LA TORTURA”
Di seguito la memoria processuale di Nadia:
Al Tribunale Penale de L’Aquila
La sottoscritta Nadia Lioce ha presentato opposizione al decreto penale di condanna n.29/2016 ritenendo di poter qualificare le azioni, addebitatele come di disturbo delle altre detenute, come tradizionali azioni di protesta verso l’amministrazione penitenziaria (battitura delle sbarre), e di poter argomentare come non potesse ritenere di aver arrecato un disturbo alle altre detenute, non avendo udito lamentele; né che tali azioni arrecassero un tale disturbo, essendo state storicamente accettate e/o condivise dalle detenute della sezione femminile 41 bis dell’istituto de L’Aquila, come in generale lo sono per tutti i detenuti.
Gli eventi in oggetto –di battitura delle sbarre- sono quelli del 25/08/2015, 27/08/2015, 29/08/2015, 31/08/2015, 04/09/2015 e 07/09/2015, quali segmento di una protesta durata dal 27 marzo 2015 al 30 settembre 2015, con una frequenza analoga a quella citata (documentata dalle sanzioni irrogate le cui notifiche sono state depositate agli atti), e forme identiche (battitura con bottiglietta di plastica del cancello) e durata (mezz’ora), per un totale di episodi superiore alla cinquantina, in un regime di prigionia “speciale” quale, essendo segregativo nella natura e nello scopo è ordinariamente ben poco conosciuto. Eppure per poter contestualizzare i fatti è necessario poterne distinguere le caratteristiche, per cui la sottoscritta cercherà di tratteggiarle per come si sono andate determinando storicamente, pur nella consapevolezza che il salto esistente tra la vita civile e le condizioni della prigionia speciale in particolare, complessificando la rappresentazione in parole della sua concretezza, possa non essere colmato dal proprio tentativo e lasciarne incompleta la comprensione.
Ma è tanto più necessario quanto più è rilevabile una certa ambiguità aleggiante sulle regole che attengono alla prigionia speciale, sulla quale si tornerà in seguito con degli esempi.
Il 41 bis nasce negli anni ’90, ma come antesignano ha quello che si chiamava “articolo 90”, che veniva applicato ai prigionieri politici, e non solo, ed era parte anche di una più vasta trasformazione dell’istituzione carceraria in direzione della differenziazione in più circuiti detentivi (bassa, media, alta sicurezza – politici e non) e della normalizzazione di sistemi premiali; oltre che inquadrato in ragioni politiche la cui trattazione esula da queste precisazioni.
Entrambi finalizzati a segregazione dall’esterno e controllo interno della popolazione detenuta, all’origine concepiti come regimi di prigionia speciale rispondenti ad un’emergenza, ovvero ad una situazione a termine, non strutturale – l’art. 90 fu addirittura abrogato una volta ritenuta esaurita l’emergenza rivoluzionaria – che in quelle condizioni politiche lo rendeva compatibile con i principi costituzionali.
Il 41 bis conserva –all’origine– questa giustificazione nelle forme applicative ma, non sussistendo più le condizioni politiche generali dei decenni precedenti, in se stesso può nascere per restare come forma di prigionia speciale “normalizzata”.
Almeno in una prima fase viene concretamente gestito con applicazioni di durata limitata della misura che la legge prevedeva potessero essere anche di 3 – 6 mesi e con proroghe non automatiche, e sia l’amministrazione che la giurisprudenza le concepiva revocabili; successivamente la legge aumentò la durata della singola applicazione a 1 o 2 anni e poi ancora, così che attualmente la durata della prima applicazione è imposta a 4 anni, quasi 10 volte più che all’origine, mentre le proroghe sono di un biennio e sono automatiche nella sostanza. Se fino al 2009 esisteva una teorica possibilità di revoca della misura, in sede ministeriale o giurisdizionale, in quanto l’onere di provare la sussistenza di motivi di applicazione era in capo al proponente o al decisore, con le modifiche apportate questa teorica possibilità non esiste più (che non significa che non ci sia stata più alcuna revoca da allora, ma un conto è la regola, un altro il caso particolare).[1]
Precedentemente la detenzione speciale consisteva nella separazione delle sezioni o dei reparti di 41 bis da quelli ordinari (comuni, A.S., EIVC); nella limitazione dei rapporti con l’esterno ai colloqui con il vetro con familiari entro il 3° grado per una o due volte al mese decise dal ministero oppure dal tribunale di sorveglianza territoriale in sede di reclamo, quando la competenza a decidere dei reclami al 41 bis era dei tribunali di sorveglianza locali; limitazioni dei “pacchi” di vestiario e cibi mensili a 2 per 10 kg totali; limitazione delle telefonate a 1 o 2 a familiari (che per riceverla devono recarsi al carcere). Per quanto riguarda la limitazione dei rapporti all’interno essa consisteva: nella frequentazione di 2 ore di passeggi e 2 ore di saletta in gruppi formati al massimo da cinque persone.
Per dare un termine di comparazione rispetto all’antesignano: l’art. 90 non prevedeva suddivisioni in gruppi, cioè i “gruppi” non esistevano, “l’aria” (o passeggi) era frequentata dalla sezione nel suo complesso; (“la socialità” forse al tempo non esisteva).
Rispetto agli altri circuiti detentivi: tutti i circuiti prevedono che l’aria sia a frequentazione comune, di tutta la sezione o di tutto il reparto. Non tutti i reparti utilizzano sale per la socialità che perciò può essere fatta nelle celle in un numero limitato di persone scelte dal detenuto volta per volta.
I detenuti comuni usufruiscono di sei ore mensili di colloquio con un arco più esteso di familiari, quelli in alta sicurezza o del fu EIVC, di quattro ore.
Tutti i detenuti di bassa, media e alta sicurezza possono fare una telefonata settimanale di dieci minuti ai familiari.
Il 41 bis prevede inoltre in tutti i casi la censura della corrispondenza che il censore operativo esamina, ed eventualmente sottopone al giudice competente, per la decisione dell’inoltro o meno. Una misura applicabile anche a detenuti non in 41 bis, in genere a quelli in A.S.
Tutto il resto del trattamento in teoria non avrebbe ragione di differire.
Cioè: si potrebbe erroneamente pensare che le altre condizioni di prigionia di detenuti ordinari e in 41 bis, possano essere le stesse.
In realtà non è mai stato così.
Innanzitutto perché la legge nel definire “le misure eccezionali” rispetto all’ordinamento non ha mai citato limiti minimi, con cui di norma si asseriscono le condizioni garantite per ogni condizione della prigionia, ma solo massimi.
Ad esempio: le ore di colloquio, di aria, di saletta, i chilogrammi e il numero dei pacchi, i capi di vestiario e i generi alimentari e di conforto detenibili in cella… sono tutti limiti non superabili. Le ore all’aperto – una all’aria, l’altra in saletta – sono “non superiori a due”.
Cioè, mai condizioni garantite, proprio perché è stato un regime concepito come una eccezione (e lo è) rispetto ad una normalità.
Poi perché il decreto riserva al vertice dell’amministrazione ulteriori specifiche disposizioni, individualizzate e non, sicché tutto il resto può anche differire totalmente e ulteriori compressioni delle libertà residue ed estensioni delle restrizioni possono colpire ogni aspetto della vita quotidiana, che sia per iniziativa del Dipartimento o per iniziativa locale, di interpretazione delle direttive, o di propositività di iniziativa.
Infine perché addetti alla custodia dei detenuti al 41 bis sono i G.O.M., cioè un corpo speciale di polizia penitenziaria, forse introdotto nel 1998 e dal 2009 obbligatoriamente nei reparti di 41 bis, che consiste in una sorta di polizia penitenziaria militarizzata -finora informalmente- centrata su compiti di contrasto e in grado di praticare questo genere di direttive.
Questa serie di peculiarità incidono su tutti gli aspetti della vita quotidiana: da quello delle disponibilità materiali – detenibilità di materiali in cella, dal vestiario, al cartaceo, a generi alimentari e di conforto o per l’igiene ambientale, o degli oggetti personali; a quello dell’accessibilità all’acquisto di prodotti non inclusi nella lista dei generi acquistabili di “sopravvitto”; a quello delle modalità e frequenza di svolgimento delle perquisizioni personali o della cella.
Ognuno di questi aspetti delle necessità, condizioni e disponibilità personali può essere investito, e concretamente lo è stato e lo è, da un regime ulteriormente restrittivo, quando in modo “regolamentato” quando nella pratica provocatoria e nella finalità vessatoria che voglia essere messa in atto ad arbitrio, incidendo in modo significativo sulla vivibilità quotidiana della prigionia, con una tendenza dominante alla generalizzazione delle condizioni più restrittive e privative, per un principio di cosiddetta uguaglianza.
A tutto ciò va aggiunto che, con le modifiche legislative introdotte nel 2009, la logica giuridica generale che sopravviveva alla base del 41 bis originario viene rovesciata e viene sancita una sostanziale e permanente esternità “spaziale” del regime speciale all’ordinamento giuridico generale, che subentra alla eccezionalità e al suo carattere per così dire temporale.
Innanzitutto, appunto, esso, da misura almeno in teoria circoscritta nel tempo, diventa strutturale per un tipo di persone, cioè per coloro ai quali fosse stata applicata dal ministero.
L’inversione giuridica attraverso la quale può concretamente succedere è il trasferimento dell’onere della motivazione. Da questo momento quella che andrà motivata, di fatto, non è più la proroga della misura, ma la sua revoca. Dunque l’onere viene trasferito dal proponente o decisore al detenuto in 41 bis, che deve dimostrare: o che c’è stato uno scambio di persona, che cioè non è lui la persona che il Ministero vuole assoggettare alla misura, oppure di essere un collaboratore, cioè non il tipo di persona cui la misura è destinata.
Per un prigioniero che si è assunto le sue responsabilità verso un referente politico – l’organizzazione rivoluzionaria d’appartenenza – e sociale – la classe a cui ha rivolto la proposta rivoluzionaria – è cioè una esplicita richiesta di abiura politica che, di fatto, in se stessa abolisce il diaframma giuridico ordinariamente interposto dallo stato nel rapporto col prigioniero politico e politicizza il rapporto stesso, facendo diventare il regime di prigionia speciale uno specifico piano di confronto. Confronto nel quale, in sostanza e in generale, l’interesse del prigioniero ad una prigionia “normale”, non segregata, viene usato contro lui stesso, ossia come leva per ottenere la collaborazione, praticamente in modo esplicito.
E, a corroborare la coercitività del regime speciale ai fini della torsione della volontà degli assoggettati ad esso, viene allargato lo spettro delle misure restrittive fino a quel momento adottate e vengono intensificate quelle già esistenti, in parte con la legge stessa, in altra parte tramite ordinanze e circolari dell’amministrazione centrale o locale.
La sottoscritta approfondirà ora le condizioni particolari del regime di 41 bis in cui si sono collocati i fatti in oggetto, specificando cosa siano i gruppi, partendo da quello che sono diventati.
La legge del 2009 restringe i “gruppi”: da 5 componenti – al massimo – li riduce a 4.
Inoltre, essa dispone che le carceri per 41 bis siano distinte dalle altre, allocate nelle isole e, mentre il Ministero stabilisce la costruzione di apposite strutture carcerarie con sezioni “monogruppo”, la legge dispone anche che le strutture carcerarie adibite al regime di 41 bis, in generale siano attrezzate logisticamente per assicurare che i movimenti degli appartenenti a un gruppo avvengano precludendo la comunicazione con appartenenti a gruppi diversi dal proprio (la qual cosa in una sezione “plurigruppo” – come quella dei fatti in oggetto – avviene con l’accostamento dei “blindati” delle celle, da parte del personale penitenziario, durante il passaggio nel corridoio di un detenuto), in quanto stabilisce anche il divieto di comunicare tra appartenenti a gruppi diversi (comunicazione che sarebbe fisicamente possibile nelle sezioni “plurigruppo”)[2].
Con questa ulteriore stretta segregativa è avvenuto che i “gruppi” non siano più stati delimitazioni circoscritte alla frequentazione di passeggi e saletta per una funzione di controllo interno, ma siano diventati “esclusivi”.
E’ avvenuto cioè uno slittamento sostanziale dei paradigmi alla base della legge originaria che già – rispetto all’art. 90- introduceva delimitazioni alla frequentazione comune di aria e socialità, rispetto alle condizioni degli altri circuiti detentivi.
Un’evoluzione della normalizzazione dell’eccezione per il tramite della torsione giuridica, che sembra giungere a un momento di inversione del senso giuridico particolare della prigionia speciale, sancendone una ambigua ma strutturata e strutturale esternità ad un contesto regolamentare sistematico.
In pratica, con questo slittamento, i “gruppi” diventano “gruppi di segregazione” che escludono tutti gli altri.
Prima erano limitati ad un’aggregazione di 5 persone, per un’asserita garanzia di controllo, ora la vita in ogni sua espressione, anche verbale, non deve fuoriuscire dal gruppo di assegnazione (ridotto ad un massimo di 4 persone).
Non un “buongiorno” può essere scambiato.
Così come effettivamente disposto dalla direzione dell’istituto de L’Aquila in data 6 novembre 2016. Un divieto di scambio di saluto tra detenuti presenti all’interno di una medesima sezione, che in concreto interruppe questa sopravvissuta tradizione e che è una delle espressioni, materializzate, di quella ambiguità aleggiante sulle regole del 41 bis, che si genera tra disposizioni di legge già citate, disposizioni del decreto di 41 bis, apparentemente a raggio di azione circoscritto[3]; e contenuti di giurisprudenza costituzionale (esempio: sent. C.Cost. 122/2017) che, dagli asseriti legittimi limiti alla comunicazione dei detenuti appare escludere, e con un argomento pesante quale quello dell’inviolabilità della persona, la possibilità di precludere comunicazioni tra detenuti compresenti in una sezione, in quanto argomenta di limitazioni alla facoltà dei detenuti di intrattenere colloqui diretti con persone esterne all’ambiente carcerario[4].
Uno slittamento che pare essere potuto avvenire in una condizione generale formata da una reiterazione di rappresentazioni pubbliche del carcere come un “santuario”, ovvero luogo in cui chi vi si trovi è invulnerabile, incontrollabile e incoercibile, opposte alla realtà della prigione, in cui le libertà sono a priori residue, e chi vi è rinchiuso è “coatto”, che hanno sollecitato un’aspettativa pubblica giustificante le scelte politiche alla base della legiferazione.
In ogni caso, ricostruendo gli avvenimenti, “la parola” segregata fu in realtà introdotta già da una circolare ministeriale nell’agosto 2008, cioè circa 10 anni fa, plausibilmente come sperimentazione della successiva introduzione legislativa.
La “parola”, ovvero quella facoltà innata del genere umano che storicamente presso un po’ tutte le civiltà ne tipicizza la dignità rispetto alle altre specie animali, viene criminalizzata in se stessa. Verso il detenuto in 41 bis che non si auto inibisse, lo è dal 2008 in poi con la sanzione disciplinare, sebbene non prevista come indisciplina specifica dall’ordinamento penitenziario né dal regolamento di esecuzione almeno fino al settembre 2017, ma, si presume, suscettibile di sanzione in quanto inosservanza di un ordine. Ma verso chiunque altro “consentisse” al detenuto in 41 bis di “comunicare” con “l’esterno” (presumibilmente anche del gruppo) -dal personale penitenziario, all’avvocato, al familiare, a chiunque solidarizzi- la previsione legislativa del 2009 è l’incriminazione penale. E tenuto conto che “verba volant”, che significa che le parole non hanno consistenza materiale, né in se stesse potenzialità di effetti materiali, intorno a questa criminalizzazione è venuto a formarsi un grumo antigiuridico potenzialmente ad alto tasso di criminogenità, potendo chiunque essere accusato di qualunque cosa[5].
Questa innovazione legislativa, insieme a quella che andava a creare un regime speciale per il diritto di difesa del detenuto in 41 bis limitandone le ore di colloquio e la durata delle telefonate (negli anni arrivate alla consulta e dichiarate incostituzionali) e insieme centralizzazione presso un unico Tribunale di Sorveglianza – quello territoriale del Ministero decretante la misura- dei reclami contro i decreti di 41 bis, andarono ad integrare il nuovo paradigma del “carcere duro”. Un paradigma la cui specificità rispetto al precedente è la capacità di proiezione di conseguenze a largo raggio, molto oltre l’ambito dei suoi “ristretti” o dell’intera popolazione detenuta, venendo ad incidere sul ruolo e sull’operatività di tutta la Magistratura di Sorveglianza.
Conseguenze al confronto delle quali le tendenze all’inibizione della parola non solo conversazionale, ma pure funzionale[6] sono solo una deriva parossistica localizzata dentro le mura del 41 bis.
A questo punto è necessario accennare alla specificità della componente femminile della popolazione detenuta a 41 bis.
La specificità della sezione 41 bis femminile dell’Aquila è quella di essere stata istituita da zero. Cioè scegliendo: ubicazione geografica e strutturale, personale assegnato e sua formazione, e il trattamento a cui sottoporre le “politiche” per cui è nata. E ciò potendo contare sul fatto che le prigioniere sottoposte alla misura non avessero un’esperienza pregressa, nemmeno storica, del 41 bis (misura che viene previsto possa essere applicata anche ai politici nel 2002). Inoltre, la mancanza di una loro coesione per ragioni di forza maggiore, ha reso più praticabile un trattamento di “massimo rigore”.
Col passare degli anni, e radicato l’insediamento e le sue caratteristiche di fondo, la particolarità è stata essenzialmente quella di essere poche.
Ma è necessario fare un passo indietro.
Fino al 2005, la sezione 41 bis femminile era quella di Rebibbia, a Roma, dove le restrizioni applicate erano quelle di legge e generali, e il personale penitenziario era ordinario.
Quella sezione nel 2009 chiuse.
In quella aquilana, aperta nell’ottobre 2005, per applicare il “massimo rigore” fu adottato l’espediente di elaborare ed affiggere nella saletta della sezione un regolamento apposito per la sezione, che voleva dare l’impressione che, data la peculiarità di genere della sezione, essendo femminile in un carcere esclusivamente maschile, ne servisse uno apposta, altrimenti esisteva un regolamento di istituto che era vigente a tutti gli effetti.
In realtà, quando nel 2006 fu chiesto di poter acquisire il regolamento d’istituto –tutti gli istituti devono averne uno – non fu opposto un diniego, non sarebbe stato giustificabile, ma fu affissa una copia del regolamento mancante di alcune pagine iniziali e anche al suo interno. Se ne dovette perciò reclamare l’affissione nella sua interezza al Magistrato di sorveglianza. E infatti così fu fatto quando il magistrato lo ordinò.
Allora si poté scoprire che, quelle mancanti, erano pagine concernenti modalità di perquisizione personale, quantità e generi alimentari, di vestiario e altro, detenibili in cella. Ambiti in cui la prassi nella sezione femminile non osservava il regolamento a scapito delle detenute, fino a quel momento ancora poco esperte.
La sottoscritta farà alcuni esempio pratici: le “perquisizioni personali con denudamento” venivano fatte con denudamento integrale nonostante il regolamento d’istituto prescrivesse che il detenuto restasse con gli indumenti intimi.
Un altro esempio: il regolamento d’istituto prevedeva che in cella si potessero detenere 10 pacchetti di sigarette. Quello di sezione non contemplava l’argomento, sicché la quantità detenibile veniva comunicata oralmente. Diventarono 8, poi 6, poi 4. E il momento della decisione di ridurre da 8 a 6 ecc. era quello in cui nel corso della perquisizione della cella, a quel tempo settimanale, se ne trovavano 7, poi 5 e così via.
Alla detenuta veniva contestata la detenzione di un “eccesso”, alla previsa e scontata rimostranza, la prima volta c’era l’avvertimento, la seconda il rapporto disciplinare. E così per ogni variazione in senso restrittivo che potesse/volesse essere inventata.
A quel tempo, fino a tutto il 2009, era un metodo, poi è diventato periodico, mentre, più in generale, anche sui generi detenibili in cella il dipartimento ha sussunto molte delle potestà prima in capo, almeno formalmente, ai direttori.
Come detto, la particolarità della sezione femminile 41 bis è ora in buona parte dovuta alla scarsità di detenute, un dato di fatto che di per sé si traduce in una pressione più elevata, e che consente di gestire la frequentazione alternata dei comuni passeggi e della saletta, anche formando “gruppi” di due persone.
E poiché come prima opzione l’amministrazione privilegia la composizione di gruppi di numero minimo di persone, i “gruppi”, salvo cause di forza maggiore, sono sempre di due donne.
I gruppi di due persone nella vita civile si chiamano coppie. Anche in carcere, tempo fa, la definizione di “gruppo”, almeno nelle controversie insorte tra amministrazione, detenuti e magistratura, rispettava il senso comune. Il gruppo, cioè, era costituito da un minimo di 3 persone.
I gruppi di 2-3 persone, inoltre, erano limitati alle “aree riservate”, cosi dette perché braccetti separati “monogruppo”, isolati dagli altri e con un trattamento più duro, fino al 2009 presenti in poche unità per carcere ove fossero ubicate.
Trovate forme di legittimazione, di fatto con la legge del 2009, “l’area riservata” è diventata il modulo segregativo della popolazione detenuta al 41 bis. E anche in questo senso, la sezione femminile, che dall’apertura della sezione de L’Aquila è sempre stata un’area riservata per un massimo di 4 detenute – fino al 2013 – si è ritrovata ad essere il “benchmark” ed infine “la nuova normalità”.
Come si può intuire, i mini gruppi di 2 persone sono la composizione a massimo condizionamento reciproco.
Ad esempio offrono la possibilità con una sanzione di erogarne informalmente 2.
È quello che sarebbe successo alla sventurata detenuta che fosse capitata nel gruppo con la sottoscritta, anche dall’aprile 2015 all’ottobre 2017, quando avrebbe dovuto restare sola al passo delle sanzioni scontate dalla sottoscritta per la protesta effettuata dei fatti di un segmento della quale qui si discute.
E invece non è successo perché la sottoscritta, anche per senso di responsabilità verso le altre detenute, all’atto del trasferimento in una sezione più grande in grado di custodire ulteriori detenute sopravvenute, ha scelto di non condividere gruppi con nessuna, ovvero dal gennaio 2013 a tutt’oggi.
In parole povere, composizioni di gruppi minimali sono una condizione che genera isolamenti in se stessa perché l’unico altro componente resta solo in casi di: sanzione, malattia, colloquio, udienza, o semplice, legittima, mancanza di volontà di uscire dalla cella, o di svolgere le medesime attività durante l’ora d’aria o di saletta, dell’altro.
Tutte condizioni concretamente verificatesi centinaia di volte dal 2005, da quando cioè L’Aquila aprì la sezione femminile per “le politiche”.
Dopodiché l’essere umano è per sua natura sociale, cioè lo è sia interiormente che nelle sue interazioni, non lo è solo circostanzialmente, perciò le circostanze sono ciò con cui potenzialità e istanze si misurano e con cui le persone possono maturare, anzi tanto più possono aspirare a migliorarsi, quanto più difficili fossero le circostanze che si presentassero.
La sottoscritta, non potendo sapere quale sia l’idea dei presenti sulle comunicazioni nelle sezioni 41 bis, immaginando che non fossero note né le circostanze derivanti dalla propria condizione di “solitudine” e dunque di preclusione assoluta delle comunicazioni con altre detenute, né che – tra le altre cose – all’epoca dei fatti la sottoscritta avesse conosciuto soltanto due delle altre sei detenute presenti nella sezione femminile in quanto già a L’Aquila dal 2010 – 2011, e infine immaginando che possa essere ritenuto – erroneamente – che una situazione del genere, contrastando con un principio di inviolabilità della persona, non possa verificarsi in questo paese, ha preferito dilungarsi a illustrare le condizioni d’esistenza proprie e delle altre detenute, nel regime di prigionia di 41 bis, prima di entrare nel merito di quanto in oggetto.
Perché in questo contesto di inibizione delle comunicazioni sociali nello spazio comune della sezione in cui i suoni fisicamente si trasmettono, che la sottoscritta non ha proprio avuto modo di sapere/capire di aver arrecato un concreto disturbo ad altre detenute.
Perché battiture delle sbarre sono sempre state fatte collettivamente, e non, per periodi di mesi e anche di anni e per più volte al giorno ognuna di 10-15 minuti, la qual cosa autorizzava a ritenere che ce ne fosse una pacifica accettazione.
Poiché la sottoscritta mentre faceva la battitura leggeva, come del resto facevano altre detenute in occasione di altre battiture, cioè la battitura era compatibile con altre attività, o, quando non lo fosse stata, ad es. durante la somministrazione di terapie farmacologiche, la sottoscritta, su richiesta, la interrompeva.
Perché la sottoscritta non ha mai sentito nessuna lamentarsi né avrebbe potuto sapere di una lagnanza per comunicazione da qualche detenuta la cui quiete fosse stata disturbata, a causa del divieto di parlarsi di cui sopra, come asserito invece da terzi, interessati perché destinatari della protesta.
Perché quando la sottoscritta ha letto le contestazioni dei rapporti del 25 e del 27 agosto 2015, recitanti: “dopo la perquisizione ordinaria effettuata nella propria camera detentiva, nonostante non le fosse contestato nulla, lei iniziava a battere con una bottiglia di plastica contro il cancello della sua cella, provocando le lamentele esasperate della restante popolazione detenuta. Per quanto sopra, le si contesta l’infrazione prevista dall’art. 77 punti 4 (atteggiamenti e comportamenti molesti nei confronti della comunità), 19 (promozione di disordini o di sommosse), 21 (fatti previsti dalla legge come reato commessi in danno di compagni, di operatori penitenziari, di visitatori)”, la sottoscritta, non avendo udito lamentele esasperate dalla restante popolazione detenuta, non gli ha attribuito rilievo, se non ai fini di ipotizzare una volontà dell’amministrazione di applicarle anche il regime di 14 bis (ipotesi confermata dagli atti depositati in quanto richiesta fatta da un responsabile GOM), per l’inverosimiglianza degli addebiti (punto 19) nella situazione concreta, oltre che per un’illinearità di interpretazione del “fatto battitura” che si ripeteva dal 24 marzo 2015 almeno due volte alla settimana – in occasione cioè delle perquisizioni della sua camera detentiva (a seguito della originaria perquisizione nella quale ne venne asportato materiale cartaceo, corrispondenza e atti giudiziari) e che sono terminate il 30 settembre 2015 a seguito della restituzione di gran parte del materiale, con le stesse identiche forme e durate, e per l’incoerenza tra gli addebiti al punto 19 e 21.
Oltretutto le sanzioni anche del 26 e del 30 settembre, sono per le infrazioni al punto 4 e 21, ma delle quali, dopo due anni, non si ha notizia di denuncia. Né se ne ha di denunce o di decreti emessi da codesto Tribunale penale per un reato di oltraggio a pubblico ufficiale come asserito a pag. 11 del decreto di proroga del regime speciale, notificato alla sottoscritta il 6 settembre 2017, e che si allega agli atti.
Nadia Lioce
[1] La legge sulla sicurezza del luglio 2009 sostituisce l’articolo 41 bis con un nuovo testo, e nel nuovo viene escluso che il “mero decorso del tempo” costituisca “di per sé” elemento sufficiente per escludere la capacità di mantenere i collegamenti con l’associazione o dimostrare il venir meno della operatività della stessa.
[2] La legge sulla sicurezza del luglio 2009, già citata, apporta modifiche all’art. 41 bis co. 2 quater lett. F, aggiungendovi: “saranno inoltre adottate tutte le necessarie misure di sicurezza anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti e cuocere cibi”.
[3] A pag. 17 del decreto di proroga del regime di 41 bis alla sottoscritta del 06/09/2017, all’art. 2: “Il direttore dell’istituto di pena, ove l’anzidetta detenuta è ristretta, adotterà le misure di elevata sicurezza interna ed esterna, anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione necessarie a prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento, contrasti con elementi di sodalizi contrapposti, interazione con altre detenute appartenenti alla medesima associazione ovvero ad altre ad essa alleate, secondo le disposizione dell’amministrazione penitenziaria”.
[4] Sent. 122/2017 C.Cost del 08/02/2017 pag.11 “… non può che essere ribadito il costante orientamento della giurisprudenza di questa Corte, secondo il quale la legittima restrizione della libertà personale, cui è sottoposta la persona detenuta, non annulla affatto la tutela costituzionale dei diritti fondamentali. Chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua libertà individuale (sentenze n. 20 del 2017 e n. 349 del 1993), e il cui esercizio, proprio per questo, non può essere rimesso alla discrezionalità dell’autorità amministrativa preposta all’esecuzione della pena detentiva (sentenze n. 26 del 1999 e n. 212 del 1997).
La tutela dei diritti costituzionali del detenuto opera, pur tuttavia, «con le limitazioni che, come è ovvio, lo stato di detenzione necessariamente comporta» (sentenza n. 349 del 1993).
La legittima restrizione della libertà personale cui il detenuto è soggetto, e che trova alla sua base un provvedimento giurisdizionale, si riverbera inevitabilmente, in modo più o meno significativo, sulle modalità di esercizio delle altre libertà costituzionalmente alla prima collegate. Ciò avviene anche per la libertà di comunicazione, la quale, nel corrente apprezzamento, rappresenta – al pari della libertà di domicilio (art. 14 Cost.) – una integrazione e una precisazione del fondamentale principio di inviolabilità della persona, sancito dall’art. 13 Cost., in quanto espressione della “socialità” dell’essere umano, ossia della sua naturale aspirazione a collegarsi spiritualmente con i propri simili.
È evidente, così, che lo stato di detenzione incide in senso limitativo sulla facoltà del detenuto di intrattenere colloqui diretti con persone esterne all’ambiente carcerario: colloqui che, quali comunicazioni tra presenti, ricadono certamente nella sfera di protezione dell’art. 15 Cost. Di necessità, i colloqui personali dei detenuti «sono soggetti a contingentamenti e regolazioni da parte dell’ordinamento penitenziario» (artt. 18 ord. pen. e 37 reg. esec.) (sentenza n. 20 del 2017) ed è l’autorità penitenziaria che, in concreto, stabilisce (in particolare, tramite il regolamento interno dell’istituto: art. 36, comma 2, lettera f, reg. esec.) i luoghi, i giorni e gli orari del loro svolgimento, senza che in ciò possa scorgersi alcuna violazione della norma costituzionale evocata”.
[5] La legge sulla sicurezza, già citata in nota 2:
“Nel libro II titolo III capo II del codice penale dopo l’art. 391 è inserito il seguente:
Articolo 391 bis (agevolazione ai detenuti e internati sottoposti a particolari restrizioni delle regole di trattamento e degli istituti previsti dall’ordinamento penitenziario) Chiunque consenta a un detenuto, sottoposto alle restrizioni di cui all’articolo 41 bis della Legge 26 luglio 1975 n. 354, di comunicare con altri in elusione delle prescrizioni all’uopo imposte è punito con la reclusione da uno a quattro anni.
Se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale, da un incaricato di pubblico servizio ovvero da un soggetto che esercita la professione forense si applica la pena della reclusione da due a cinque anni”.
[6] Il riferimento è al tentativo – in pochi giorni rinunciato – risalente al giorno successivo alla visita del garante nazionale dei detenuti, che avvenne il 05/05/2017, di vietare lo scambio verbale funzionale tra detenute e “portavitto”, ossia la lavorante nell’esercizio della sua funzione.