Intorno alle due di notte di mercoledì 13 maggio 2020, i Ros di Bologna, Firenze e Fidenza insieme a 200 carabinieri irrompono nella vita di 12 anarchiche e anarchici. Il gip Panza, su richiesta del pm Dambruoso, ne dispone per sette l’arresto e per cinque l’obbligo di dimora con rientro notturno (per quattro di questi anche la firma quotidiana). Un copione che conosciamo bene e che grazie alle dichiarazioni della procura, che ci rivelano la natura “preventiva” degli arresti, rende a chiunque ancora più esplicito il messaggio lanciato: sia ben chiaro a chi spera che la crisi apra la possibilità di dare uno scossone agli attuali rapporti sociali che lo Stato non cambia. Le accuse sono associazione con finalità di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico, avente per reati scopo l’istigazione a delinquere, il compimento di alcuni danneggiamenti e un incendio.
270 bis: associazione con finalità di terrorismo
Sebbene in fase di riesame l’accusa sia stata ritenuta inappropriata dal tribunale delle libertà, azzardiamo qualche parola in merito visto che su di essa, e il suo avvallamento da parte del gip Panza si sono rette le misure cautelari.
Anche in quest’operazione, denominata “Ritrovo”, al centro delle accuse stanno le lotte. Due in particolare: quella contro i CPR e quella contro il carcere – fosse questo destinato a compagni e compagne o meno. Lo Stato parla chiaro: terrorista è chi esprime solidarietà, chi lotta, chi non tiene la bocca chiusa, chi manifesta aperta approvazione verso l’azione diretta e le forme di opposizione radicali – anche illegali – alle strategie della repressione e dello sfruttamento. Non solo, una ricorrenza che si ritrova anche in altre recenti operazioni repressive è l’utilizzo del reato di istigazione a delinquere come collante dell’ipotesi associativa: la parola, di questi tempi, fa paura e lo Stato si muove ormai con modalità da regime. Accade da un po’ e ci aspettiamo accadrà ancora.
Almeno in potenza, dicono le carte, la “cellula” di Bologna aveva la capacità di attivare azioni piccole ma replicabili su scala nazionale da gruppi ad essa simili. Gruppi con cui la suddetta “cellula” era in contatto: una ramificazione capace di “costringere i poteri pubblici a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto”.
La nostra posizione in merito è semplice: se portare solidarietà a chi si rivolta e schierarsi contro le ingiustizie è terrorismo, allora siamo tutti e tutte terroristi. Ben lieti di accettar l’accusa se in questo mondo terrorista è chi non chiude la bocca e sceglie di attaccare. Attaccare quelle stesse istituzioni che sulla paura fondano il governo dei popoli. A riguardo potremmo parlare di guerre, bombe nelle piazze, morti in mare e manganellate, ma a che serve? Gli ultimi tre mesi non sono forse bastati a farci capire di quanta paura ha bisogno lo Stato per governarci? La paura dei controlli, la paura dell’arbitrio delle forze dell’ordine, dell’“abuso di potere”, la paura dell’ammalarsi e del far ammalare, costretti a doversi recare a lavorare per forza e a non potersi curare adeguatamente a fronte dello smantellamento della sanità. Una paura che si fa sempre più terrore se pensiamo agli arresti degli scioperanti e alle quattordici morti nelle carceri.
Le gestione delle crisi da Covid-19 ha rivelato in maniera lampante quali siano le vite più sacrificabili per il potere in un regime di produzione tecnodigitale come ad esempio anziani e disabili nelle case di riposo o case per disabili; piuttosto che le persone detenute, corpi criminalizzati nelle carceri e nei Cpr.
Una parte sempre più ampia della popolazione subisce un livello di violenza sempre maggiore e reagire è presto detto terrorismo.
Istigazione a delinquere
Oggi, l’accusa di istigazione a delinquere esplicita una contraddizione evidente, l’ingiustizia e l’arbitrio su cui il potere si fonda. Perché l’istigazione si verifichi – afferma il pm Dambruoso – è necessario un contesto adeguato e recettivo; perché non si perseguano le idee, è necessario, come in questo caso, che l’ambiente economico-sociale sia adeguato a recepire l’istigazione all’atto illecito. Il senso è: quello che ieri non era istigazione oggi lo diventa perché i tempi sono cambiati. Di cos’altro c’è bisogno per capire che il codice penale non è altro che uno strumento per il mantenimento della disparità di classe, finalizzato alla sola tutela della classe dirigente che, a seconda dell’aria che tira, rischia oggi di vedersi volar via il cappello e domani la testa?
È in quest’ottica che la “strategica valenza preventiva” assume tutto il suo senso. In un momento come questo un’operazione che tolga di torno dodici teste pensanti, dodici cuori liberi, fa assai comodo, perché – l’hanno detto loro stessi – la crisi incalza e i tempi a venire saranno bui per chi siede sul trono. Le sei misure cautelari rimaste (obblighi di dimora con rientro notturno) infatti riguardano proprio il reato di istigazione.
Permetteteci però una breve parentesi su questa “preventività”. La prima richiesta delle misure cautelari, inizialmente respinta dal gip, risale al luglio 2019, la seconda e accettata ci parla invece del 6 marzo 2020, alla vigilia delle rivolte nelle carceri. L’operazione era pronta a dispiegarsi da un bel pezzo e la “strategica valenza preventiva” si aggiunge, assieme a qualche recente segnalazione circa i presidi sotto il carcere della Dozza, a un malloppo già denso.
Agitatori, fomentatori, sobillatori, propagandisti, questo anarchici e anarchiche lo sono da sempre. Una cosa però ci sentiamo di dover chiarire: gli anarchici e le anarchiche non dicono a nessuno di fare per loro conto qualcosa. Essi difendono quello che ritengono essere giusto, agiscono in prima persona, da soli o con altre persone, ma mai si pongono al di sopra degli altri, pronti a plasmarne i comportamenti e l’agire. Questa è una strategia propria della politica e noi nella politica non crediamo, crediamo nell’azione diretta, nelle sue mille forme, che sono della politica l’esatto opposto.
Non si tratta di rispedire al mittente le accuse, né tanto meno capire se anarchismo e istigazione vadano di pari passo (una diatriba che lasciamo volentieri agli avvocati), ci preme semmai interrogarci su quale siano le cause profonde della rivolta. La rivolta secondo qualcuno sta nelle parole istigatrici del sobillatore, nelle insinuazioni del folle, che avrebbero la capacità di incrinare questo migliore dei mondi possibili. Secondo costoro se fuori dalle mura di carceri e CPR fossero mancate le presenze solidali le rivolte all’interno non si sarebbero verificate. Come ben sappiamo le rivolte in certi luoghi abbondano, anche senza che ci siano presenze solidali là fuori a far da cassa di risonanza. Questo perché la presa di coscienza della miseria in cui si vive, l’individuazione del nemico e la necessità di agire non sono certo determinate da discorsi istigatori, quanto piuttosto dalle angherie subite e dalle ingiustizie non più sopportabili.
È d’abitudine nei CPR da anni, è stato così nelle carceri nel marzo 2020 e lo è in questi giorni negli Stati Uniti, dove all’ennesimo sopruso, all’ennesimo omicidio di una persona nera compiuto da poliziotti bianchi, parte della popolazione è insorta. La rabbia negli Stati Uniti lo dice forte e chiaro: non sono necessari gli anarchici che istigano, lo schifo di questo mondo è di per sé sufficiente.
Eretici, socialisti, autonomi, anarchici, antifa… di categorie con cui i governi hanno cercato, da sempre, di mistificare il fenomeno dell’opposizione radicale, pur di non affermarne le radici profonde, non se n’è mai fatta parsimonia. La verità, però, è che il seme della rivolta sta in un terreno fatto di sfruttamento, controllo, repressione, razzismo, ingiustizia e, sempre più, gratuita prevaricazione. Non c’è da stupirsi se un giorno decidesse di germogliare anche qui, anche nel più completo e assordante silenzio di voci oppositive. Statene certi, accadrà.
Lo si è visto durante i mesi di quarantena. Mentre fuori il governo della paura ammansiva la popolazione, dentro le carceri questa stessa paura è diventata ingestibile per chi su di essa ha sempre costruito il proprio potere. Già dal 26 febbraio, Roberto Ragazzi, dirigente del Dipartimento di Medicina Penitenziaria dell’Ausl di Bologna, ordinava ai suoi operatori di non indossare mascherine nel reclusorio al fine di non allarmare la popolazione detenuta.
Il 9 marzo, messi all’angolo ed esasperati, i detenuti decidono che la paura loro imposta è divenuta oramai insopportabile, la situazione sfugge dalle mani delle istituzioni penitenziarie e alla Dozza esplode una rivolta, sulla scia delle altre che si accendono nelle prigioni lungo la penisola.
Chi può, di fronte a ciò, ancora pensare che la rivolta sia di fatto il prodotto della cospirazione o di qualche isolato contestatore? Istigano gli anarchici o è l’invivibilità di una vita fondata su paura e terrore la prima fonte di istigazione?
Azioni e sabotaggi
Tutto parte da qui, o almeno così dicono, anche perché intercettazioni ambientali e telefoniche erano già attive da tempo, almeno dal 2016, dalla bomba messa alla caserma di Corticella. Tutto comunque partirebbe da una notte del dicembre 2018, quando fu dato fuoco a un’antenna sui colli bolognesi. I ponti radio di Santa Liberata erano in uso a radio e televisioni locali, nonché a forze dell’ordine (rete interforze) e a non meglio precisate ditte coinvolte in sorveglianza audio-video. Quella sera alcune reti televisive si trovano oscurate e la Guardia di Finanza subisce un’interruzione momentanea delle sue comunicazioni radiofoniche. “Spegnere le antenne, risvegliare le coscienze, solidali con gli anarchici detenuti e sorvegliati” questa la scritta lasciata nei pressi. Era questa una delle tante azioni che in Italia ed Europa si verificano ai danni dell’infrastruttura fisica del mondo immateriale.
Durante il periodo febbraio-aprile 2019, contestualmente a manifestazioni di piazza, ma non solo, si verificavano poi imbrattamenti e danneggiamenti alle filiali delle banche BPER e BPM, entrambe coinvolte nella proprietà della struttura del CPR di Modena in previsione d’apertura, oltre che contro telecamere, monumenti nazionalisti e una caserma dei carabinieri. Che dire, quando ai responsabili di ingiustizie ed oppressione tocca un po’ dell’amaro che ci fanno ingoiare ogni giorno non riusciamo a non rallegrarcene. Certe azioni, seppur piccole, hanno tutto un loro senso per noi. Il nostro criterio di giustizia non è dato da un codice che non abbiamo mai sottoscritto, ma dalla non casualità di queste azioni e dal significato dell’obiettivo che scelgono.
Che provino pure a tapparci la bocca a suon di denunce, colpire chi sfrutta e reprime è giusto e questo è un fatto.
Solidarietà
Affrontare la repressione significa cercare di trasformare la merda in fiori.
Le dimensioni della solidarietà ricevuta sono state una bella sorpresa. Non solo “militanti ed attivisti”, ma anche molte persone che nessuno avrebbe immaginato poter prendere le difese di una “banda di anarchici”. In ciò hanno sicuramente avuto un peso non indifferente le amicizie, le conoscenze, gli incontri e le persone che segnano la quotidianità, la vita di tutti i giorni insomma. Con ciò non vogliamo affermare che il “radicamento sociale” sia la ricetta contro la repressione, anche perché una sua precisa definizione risulta piuttosto difficile, né i percorsi di anarchici e anarchiche debbono prevederlo di necessità. Tuttavia ciò è stato in questa specifica situazione un dato che ci sentiamo di dover riportare.
Questa solidarietà ricevuta non è casuale, così come non lo è il fatto che dopo mesi di reclusione domiciliare, paura e angherie poliziesche, qualche persona abbia pensato che quest’ulteriore svolta repressiva, destinata a chi negli ultimi tempi aveva chiaramente fatto voce contraria all’andazzo securitario, fosse davvero troppo.I vecchi rapporti sociali sono mutati in peggio per gli sfruttati e devono essere repentinamente normalizzati; forse c’è chi non se l’è sentita di abbassare la testa, anche solo di fronte alle affermazione inerenti la “strategica valenza preventiva”, come se i propri amici e conoscenti fossero un virus da debellare, gente scomoda di cui sbarazzarsi a prescindere.
Ad essere sinceri, però, va rilevato un fatto, di cui siamo consapevoli e su cui è necessario riflettere per quel che sarà il futuro: la debolezza dell’ipotesi accusatoria è stata sicuramente un fattore importante di mobilitazione della solidarietà, soprattutto da parte di persone lontane dalle lotte. Essa ha sicuramente contribuito a far nascere l’idea di un’ingiustizia da regime che andava compiendosi. La situazione contingente ha fatto gioco, lo riconosciamo. Sappiamo pure, però, che la solidarietà dev’essere rivoluzionaria, sempre a fianco di chi lotta contro Stato e padroni e non condizionata dalle accuse mosse. Dobbiamo avere l’onestà di leggere i contesti, ma pure la coerenza di rimanere fedeli alle nostre convinzioni anche nei momenti più duri, cercando di dimostrare una solidarietà forte e decisa anche quando la repressione colpisce più forte. Proprio per questo non ci siamo mai permessi di parlare di “montature”, né mai si è scelto – come giusto che fosse – un discorso innocentista, anche di fronte all’allargamento della solidarietà, cercando di continuare a portare discorsi radicali a più orecchie possibili. “Spegnere le antenne, risvegliare le coscienze”, così si apriva il corteo del 30 maggio, una dichiarazione di come l’azione diretta, il sabotaggio e le pratiche di attacco a strutture e servi di questo sistema siano giuste.
La prima risposta di fronte a tutto questo è stata quella di tornare nelle strade, come prima, più di prima, nonostante la paura e i divieti, per esprimere ciò che per noi è solidarietà: le pratiche.
La repressione quando sequestra compagni e compagne alle lotte, ha per scopo il limitarci materialmente togliendoci forze e spaventandoci. Bisogna essere coscienti che i nostri percorsi prevedono la possibilità che lo Stato prima o poi bussi alle nostre porte, bisogna prepararsi all’eventualità che la repressione arrivi e in quel momento mantenere la lucidità, per non farsi affossare e – sarà banale, ma – rispondere rilanciando le lotte, per non dichiarare la resa. Proprio quando è la solidarietà ad essere attaccata – come in questo caso – e proprio quando le sue reti sono messe in discussione,occorre far della repressione condizione e opportunità di rafforzamento e rilancio. Nella difficoltà comune essa può divenire opportunità e condizione per conoscersi, capirsi e organizzarsi meglio, rafforzarsi e rendere la solidarietà un’arma.
Il periodo che stiamo vivendo dimostra che lo Stato ha imboccato una strada chiara e significativa, abbiamo ben compreso che i prossimi mesi e anni saranno delicati e tesi.
Più consapevoli e più forti di prima, ci ritroveremo nelle strade.
«E dite, dite! Che cosa sareste voi
senza dio, senza re, senza padroni,
senza ceppi, senza lacrime?
— Il finimondo!»
“Matricolati!”, Cronaca sovversiva, 26 maggio 1917
Anarchici e anarchiche di Bologna
*Poco prima della stesura definitiva del testo ci è giunta la notizia dell’ennesima operazione repressiva che ha colpito 7 tra compagni e compagne, 5 in carcere e 2 ai domiciliari, messa in campo dalla Procura di Roma. Le notizie sono ancora un po’ frammentarie, ravvisiamo però diverse similitudini con quella bolognese. A condurla sono anche qui i Ros, le accuse sono di 270bis (per le persone in carcere) più numerosi fatti specifici, tra cui attentato con finalità di terrorismo, incendio e istigazione a delinquere, diversi episodi riguarderebbero azioni in solidarietà con prigionieri e prigioniere. L’abbiamo detto, lo Stato mostra i muscoli in un momento storico che si preannuncia denso di possibili tensioni. La solidarietà è fondamentale e la ribadiamo senza se e senza ma nei confronti dei compagni e delle compagne colpiti a Roma.