Gen 212021
 

riceviamo e pubblichiamo

E’ passato quasi un anno dalle proteste e rivolte carcerarie di inizio marzo che hanno visto il coinvolgimento di pressoché tutti gli istituti italiani con migliaia di detenuti mobilitati, moltissimi presenti sui tetti degli edifici penitenziari e tanti familiari, amici e solidali fuori dalle mura.
Una situazione del tutto inconsueta che non si vedeva dai primi anni del 1970 quando nelle carceri di mezza Italia si lottava contro il carcere preventivo, la recidiva e per la “riforma dei codici”.

Le misure speciali adottate dal governo per scongiurare la diffusione del virus all’interno delle carceri si sono dimostrate del tutto insufficienti e inadeguate. Anche gli appelli a provvedimenti di indulto o amnistia provenienti da associazioni, da intellettuali e dalla Magi- stratura di Sorveglianza sono rimasti del tutto inascoltati nonostante quest’ultima avesse dichiarato l’impossibilità di adempiere ai propri compiti istituzionali a causa del collasso dei propri uffici.

L’unica misura effettivamente presa per ridurre il sovraffollamento carcerario non ha nulla di speciale e consiste nello snellimento della procedura vigente per l’ottenimento degli arresti domiciliari, per chi una casa ce l’ha, e nella concessione di permessi più lunghi per i semiliberi. Una vera e propria beffa vista anche la mancanza dei braccialetti elettronici le cui commesse hanno solo gonfiato le tasche di Telecom, faccendieri e politici.

Così, a marzo, da un giorno all’altro, la popolazione reclusa si è trovata completamente isolata, senza poter vedere i propri familiari, senza poter svolgere alcuna attività e senza alcun contatto al di fuori delle guardie a causa della sospensione dei colloqui, di ogni attività trattamentale e dell’accesso di educatori, avvocati e personale civile.
Le proteste e le rivolte verificatesi nelle carceri nel mese di marzo sono state dunque la necessaria conseguenza di quanto non è stato fatto per preservare la popolazione detenuta dal rischio di contagio e delle ulteriori restrizioni introdotte all’interno delle carceri soprattutto con il divieto di poter svolgere i colloqui “in presenza” con i propri cari.
A queste lo stato ha reagito con estrema durezza e crudeltà, non solo picchiando a sangue durante quelle giornate ma continuando a farlo nei giorni successivi sui corpi inermi e già provati delle centinaia di detenuti trasferiti a chilometri di distanza, in barba ad ogni misura di prevenzione dal rischio di contagio.

Il bilancio di quella mattanza è di 14 detenuti morti e centinaia di feriti ai quali non solo non sono state prestate le dovute cure ma che hanno continuato a subire la rappresaglia dello stato nei giorni successivi. Ciò è documentato dalle ormai tante testimonianze raccolte e pubblicate in questi mesi che raccontano un’altra verità di quella dei morti per abuso di farmaci e della regia mafiosa che è stata raccontata all’indomani di questa ennesima strage di stato.

Ad oggi la situazione nelle carceri è rimasta la stessa di marzo.
Al 30 novembre i reclusi erano poco più di 54 mila a fronte dei 53 mila di metà maggio.

I colloqui sono ancora bloccati e quando si svolgono “in presenza” avvengono a due metri di distanza separati da una lastra di plexigass che costringe tutti ad urlare e nessuno riesce a capire granché; perlopiù si riesce a comunicare attraverso telefonate e videochiamate se non ci sono problemi tecnici, come spesso accade.
La sanità è completamente assente. Lo stato ha messo in evidenza che, in ogni caso, le vite di chi sta in carcere sono meno importanti di quelle di chi sta fuori. I centri clinici creati appositamente per i positivi al virus sono diventati dei lazzaretti; in carcere chi non è positivo è senza distanziamento in cella, tutti sono senza cure né medici.

Gli ulteriori provvedimenti presi dal go- verno sul tema delle carceri poco o niente hanno a che vedere con le condizioni di vivibilità interna o di prevenzione del rischio di contagio della popolazione reclusa. Per quanto riguarda le scarcera- zioni e i permessi premio, sulla spinta dell’allarme per le presunte scarcerazioni facili, le decisioni della Magistratura di Sorveglianza sono state vincolate al parere dell’antimafia, concedendo a chi dispone del potere di condannare anche quello di decidere di come scontare la pena.

E’ stata data maggiore autonomia e potere ai Gruppi Operativi Mobili (GOM) della Polizia Penitenziaria ovvero alle squadracce di picchiatori professionisti già ampiamente conosciute e sono stati posti al comando del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) due magistrati dell’antimafia affinchè le ragioni di sicurezza e impunità dello Stato prevalgano su tutte le altre.
Il 18 gennaio comincerà il processo a 22 detenuti accusati di resistenza, lesioni e incendio che a marzo si trovavano nel carcere di Milano-Opera. L’udienza si terrà alle 9.30 in videoconferenza all’aula bunker vicina al carcere di San Vittore. Crediamo sia importante manifestare quel giorno per non lasciare ancor più isolati quei detenuti e i loro familiari, come vorrebbe invece chi li ha portati a processo, e che hanno anzi bisogno di solidarietà e sostegno.
Dietro l’inefficacia e l’inefficienza delle politiche governative di prevenzione dal contagio c’è la natura antiproletaria delle politiche governative di gestione dell’emergenza Covid che rendono sempre più difficili le condizioni di vita, di lavoro e di salute di milioni di persone che si trovano senza più alcuna tutela economica e sanitaria e che vengono pestati, denunciati, processati, incarcerati e anche uccisi se osano opporsi alla dittatura degli interessi capitalistici.

TESTIMONIANZE

“..In questi giorni poi la situazione è molto critica, colpa del virus e dalle decisioni prese dal governo, con molte restrizioni per noi. Siamo stati esclusi da tutto e tutti, in perenne quarantena. Nel regime che mi ritrovo queste restrizioni si sono fatte sentire di meno, perché a parte qualche volontario e i colloqui con i familiari non è che c’era altro. Mentre i piani della Media sicurezza che sono un migliaio nei confronti di una cinquantina di noi hanno subito molto queste restrizioni certo che si sono ribellati, e credo che li fuori l’eco è arrivato di que- sta ribellione come del resto molti istituti sono in rivolta, però la società libera non sa come queste canaglie dell’ingiustizia reprimono queste ribellioni. Ieri hanno qui massacrato di botte centinaia di detenuti. Li hanno caricati con idranti e manganelli, è stato davvero uno strazio, l’impotenza ti ammazza l’anima. Ieri sera più di invitarli a smettere e a minacciarli noi dell’As1 non potevamo fare altro, relegati qui sotto, sezione distaccata da tutti gli altri..”
Lettera dalla sezione As1 del carcere di Milano Opera

“Ci hanno tolto il cibo, la televisione, il fornello, siamo stati privati delle ciabatte delle mutande e delle magliette, ci sono state negate le telefonate ci è stata staccata la luce. Siamo stati picchiati, abbiamo le ossa rotte e di non abbiamo ricevuto cure.”
Le parole dei prigionieri nei giorni successivi la rivolta

“Se gli fosse successo qualcosa, avrebbe dovuto tenere presente da subito che non si sarebbe trattato di suicidio e nemmeno di assunzione di metadone”.
Le parole di una familiare di un prigioniero di Opera

“..alla fine quella sera lo hanno preso e portato subito al carcere di Modena dove ero stato spostato anch’io, in una cella dove c’erano anche dei miei amici della mia città, sono rimasto lì finché è venuto il corona virus e quando è venuto il corona c’era un uomo malato del virus e non volevano farlo uscire e hanno vietato di farci vedere i famigliari. Dopo ciò è successa una rivoluzione e hanno bruciato il carcere e sono entrati le forze speciali e hanno iniziato a sparare sono morte 12 persone di cui 2 miei amici, sono morti davanti ai miei occhi sono ancora sotto shock. Io ero scappato fino al tetto del carcere così non mi sparassero dopo ci hanno presi tutti e ci hanno messo in una camera e ci hanno tolto tutti i vestiti e hanno iniziato a picchiarci dandoci schiaffi e calci. Dopo ci hanno ridato i vestiti e ci hanno messo in fila e ci hanno picchiato ancora con il manganello in quel momento ho capito che ci stavano per portare un altro carcere…”
Le parole di un prigioniero del carcere di Modena

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