Lunedì 22 Febbraio si è tenuta l’udienza d’appello per i 7 compagni coinvolti nell’operazione Renata. L’udienza si è svolta in corte d’assise, e le richieste dei PM sono state le stesse del primo grado (da un minimo di 3 anni circa ad un massimo di 6 anni, già scontati di un terzo per il rito) con l’aggiunta di qualche mese. Il dato più significativo è che siano cadute nuovamente le accuse di associazione sovversiva con finalità di terrorismo (270bis) e il maldestro tentativo dell’accusa di trasformare in extremis l’accusa di associazione terroristica in associazione a delinquere “semplice”. Rimangono dunque confermate le condanne del primo grado (un totale di poco più di 13 anni).
Di seguito un testo delle compagne e compagni imputati.
Ai cuori ardenti
In quali condizioni, in quale senso la storia si svolgerà in
seguito? Questi quesiti sono insolubili. Ciò che noi sappiamo
sin d’ora è che la vita sarà tanto meno inumana quanto più
grande sarà la capacità individuale di pensare e di agire.
Simone Weil
Sono passati due anni dall’operazione che ha portato ai nostri arresti e da quando, mesi dopo,
abbiamo messo nero su bianco quel che avevamo da dire a riguardo. A tutt’oggi cinque di noi si
trovano sottoposti a misure cautelari, in attesa del processo d’appello, misure che non vengono
neppure conteggiate ai fini dell’esecuzione della pena. Un “obbligo di dimora” che nella realtà dei
fatti appare come una sorta di “confino” trovandoci divisi e sparpagliati in varie parti della penisola.
Ben più degno di nota, però, è quel che è accaduto nel frattempo. Possiamo dire senza troppi
fronzoli che il mondo (ancora quello di là fuori, per alcuni e alcune di noi, ma a quanto pare non
solo per noi) si sia letteralmente stravolto. L’epidemia di Covid19 ci ha sbattuto in faccia non solo
quali possono essere le conseguenze dell’organizzazione sociale capitalista (con la devastazione
della natura, due secoli di guerra industriale al pianeta che abitiamo, irresponsabilità scientifiche
alla ricerca di soluzioni per un sempre maggiore profitto), ma anche quale può essere la risposta
degli Stati per far rientrare i potenziali dissidenti in quelle stesse logiche rassegnatorie che hanno
permesso di trovarci in questo duemilaventuno.
Così è arrivata l’alzata di spalle della “società democratica” di fronte alle stragi di Stato nelle
carceri, che trovandosi tra le comodità dell’al di qua del muro ha lasciato soffocare le urla di quei
detenuti che per primi hanno alzato la testa. Quelle urla di disperazione hanno trovato una società
capace di “accettare” la quotidianità del coprifuoco, una società capace di adattarsi essa stessa alla
logica della carcerazione. Questo dobbiamo constatare: da qui, dall’abitudine ad una normalità
sempre più spaventosa nasce quell’indifferenza, trasformandosi poco a poco nell’incapacità di uno
spirito critico anche per tutto il resto: d’un prendersi cura l’uno dell’altro, d’una solidarietà
concreta, resa “illecita” e “criminale” senza dubbio dalle operazioni repressive, ma forse ancora di
più dalla rassegnazione a vedere la Verità solo negli slogan di Stato (come dimenticare le bandiere
ai balconi, i “distanti ma uniti”, i “siamo tutti sulla stessa barca” ed infine la fiducia nella Scienza
come unico “dio salvatore”). Come un colpo di spugna sullo scontro reale e di classe, la
digitalizzazione del mondo, presentandosi come una fuga da una realtà che “è meglio non vedere”,
non può che accelerare questo processo di distacco dal mondo. Sono messaggi del nostro tempo che
dobbiamo cominciare a vedere chiaramente.
Ma oltre a cercare di vederci chiaro, siamo tra quelli che cercano di guardare lontano per trovare la
forza di battersi qui, perché il terreno internazionalista è ciò che dà il senso a tutte le lotte per la
libertà. E non ci è certo sfuggito che in moltissime parti del mondo centinaia di migliaia di oppressi
si stanno battendo contro misure di contenimento che hanno tutto del militare e poco del sanitario,
contro le sistemiche violenze della polizia, contro regimi sempre più autoritari.
È forse per questo che la sfilza di operazioni poliziesche che si sono abbattute contro anarchiche e
anarchici in questi due anni mostrano misure e strategie sempre più repressive. Arresti
dichiaratamente preventivi per evitare che si «soffi sul fuoco» del malcontento sociale, accuse di
terrorismo a chi ha resistito ad un pestaggio in carcere, l’infamante accusa di strage come nuova
arma repressiva per seppellire compagne e compagni sotto decine di anni di carcere (come le
condanne pesantissime dell’operazione Scripta Manent e il processo in corso a Juan).
Ma questo deve essere letto nel presente che stiamo attraversando. Se, per esempio, viene definito
“complottista” (quando non addirittura, vanificando il significato storico del termine, marchiato con
la categoria di “negazionista”) chiunque non accetti il pacchetto pronto dello Stato su qualsiasi
fronte, imponendo la via unica del silenzio-assenso, non c’è da stupirsi che un gruppo di anarchici venga accusato di “istigazione a delinquere” o processato per “associazione sovversiva” per aver,
tra le altre cose, evidenziato (perché non si tratta di chissà quali teorie innovative, basta aprire la
finestra) come e perché le responsabilità dell’organizzazione sociale capitalista siano le effettive
cause della nascita e della diffusione di questa come di altre epidemie, delle guerre, dello
sfruttamento.
Lo leggiamo anche tra le carte che ci portano all’appello dell’operazione Renata: dove una rivista
anarchica diventa lo spazio per «le finalità dichiarate dall’associazione» – come una premessa
certamente utile all’accusa di “terrorismo” – poiché vi si afferma l’ovvietà del fatto che un processo
rivoluzionario non possa «escludere anche forme di lotta violenta». Lorsignori, con la cocciuta
ostinazione a voler far rientrare l’anarchismo nelle logiche gerarchiche del processo penale, cercano
di incolpare chi esprime ciò che è ovvio del fatto che… «qualcuno prima o poi finirà per crederci»:
se non fosse il tragico tentativo di aumentare gli anni di galera risulterebbe perlomeno grottesco.
Come poteva essere prevedibile, la dichiarazione scritta in occasione del processo di primo grado –
“Ai cuori ardenti”, che segue questa premessa – non ha tardato ad arrivare sulle scrivanie di diverse
Procure. Ma noi non cerchiamo certo giustizia dove non si può trovare, e siamo consapevoli che sia
anzitutto la sproporzione dei rapporti di forza in campo a concedere terreno alla spavalderia
repressiva dello Stato. Solo quando le lotte riescono a prendere spazio si fanno più chiari i ruoli
della società in cui viviamo, anche quelli della farsa giuridica, e si fanno meno efficaci le armi della
repressione. Per questo riteniamo che questo duemilaventuno sia anche il frutto di uno spirito
rivoluzionario inconsistente e reso muto, se non del tutto incapace di immaginarsi. Ma sappiamo
anche che ci sono strade (im)possibili che possono cambiare le cose. Scriveva Bakunin all’alba
della Comune di Parigi: «è ricercando l’impossibile che l’uomo ha sempre realizzato il possibile».
Lo sappiamo noi come lo sanno tutti gli anarchici e le anarchiche che in ogni angolo del mondo ora
si trovano dietro le sbarre. A loro mandiamo il nostro saluto, la nostra complicità, la fervente
solidarietà che ci anima nell’azione. Lo facciamo oggi come lo ricorderemo domani se ci troveremo
di nuovo tra le strette mura di una cella.
Sì, continueremo ad essere testardi perché sappiamo che è solo con questo spirito che si potrà
guardare avanti, per continuare a battersi per la libertà, adoperandoci con i mezzi che più riterremo
adatti e consapevoli di avere di fronte un nemico che, spontaneamente, non farà alcun passo
indietro. Il battito che sentiamo non potrà mai essere percepito dal giudizio di un’organizzazione
sociale figlia del profitto e della competizione. Guardiamo oltre per vederci chiaro. Ma per questo
non sarà sufficiente rivolgere lo sguardo alle nostre mani e alle nostre menti.
Occorre rivolgerlo soprattutto ai nostri cuori.
I nostri cuori ardenti.
Trento, 22 febbraio 2021
Stecco, Agnese, Rupert, Sasha, Poza, Nico e Giulio