Feb 252021
 

Riceviamo e pubblichiamo

Lunedì 22 Febbraio si è tenuta l’udienza d’appello per i 7 compagni coinvolti nell’operazione Renata. L’udienza si è svolta in corte d’assise, e le richieste dei PM sono state le stesse del primo grado (da un minimo di 3 anni circa ad un massimo di 6 anni, già scontati di un terzo per il rito) con l’aggiunta di qualche mese. Il dato più significativo è che siano cadute nuovamente le accuse di associazione sovversiva con finalità di terrorismo (270bis) e il maldestro tentativo dell’accusa di trasformare in extremis l’accusa di associazione terroristica in associazione a delinquere “semplice”. Rimangono dunque confermate le condanne del primo grado (un totale di poco più di 13 anni).

Di seguito un testo delle compagne e compagni imputati.

                                Ai cuori ardenti

In quali condizioni, in quale senso la storia si svolgerà in
seguito? Questi quesiti sono insolubili. Ciò che noi sappiamo
sin d’ora è che la vita sarà tanto meno inumana quanto più
grande sarà la capacità individuale di pensare e di agire.

                                                                                      Simone Weil

Sono passati due anni dall’operazione che ha portato ai nostri arresti e da quando, mesi dopo,

abbiamo messo nero su bianco quel che avevamo da dire a riguardo. A tutt’oggi cinque di noi si

trovano sottoposti a misure cautelari, in attesa del processo d’appello, misure che non vengono

neppure conteggiate ai fini dell’esecuzione della pena. Un “obbligo di dimora” che nella realtà dei

fatti appare come una sorta di “confino” trovandoci divisi e sparpagliati in varie parti della penisola.

Ben più degno di nota, però, è quel che è accaduto nel frattempo. Possiamo dire senza troppi

fronzoli che il mondo (ancora quello di là fuori, per alcuni e alcune di noi, ma a quanto pare non

solo per noi) si sia letteralmente stravolto. L’epidemia di Covid19 ci ha sbattuto in faccia non solo

quali possono essere le conseguenze dell’organizzazione sociale capitalista (con la devastazione

della natura, due secoli di guerra industriale al pianeta che abitiamo, irresponsabilità scientifiche

alla ricerca di soluzioni per un sempre maggiore profitto), ma anche quale può essere la risposta

degli Stati per far rientrare i potenziali dissidenti in quelle stesse logiche rassegnatorie che hanno

permesso di trovarci in questo duemilaventuno.

Così è arrivata l’alzata di spalle della “società democratica” di fronte alle stragi di Stato nelle

carceri, che trovandosi tra le comodità dell’al di qua del muro ha lasciato soffocare le urla di quei

detenuti che per primi hanno alzato la testa. Quelle urla di disperazione hanno trovato una società

capace di “accettare” la quotidianità del coprifuoco, una società capace di adattarsi essa stessa alla

logica della carcerazione. Questo dobbiamo constatare: da qui, dall’abitudine ad una normalità

sempre più spaventosa nasce quell’indifferenza, trasformandosi poco a poco nell’incapacità di uno

spirito critico anche per tutto il resto: d’un prendersi cura l’uno dell’altro, d’una solidarietà

concreta, resa “illecita” e “criminale” senza dubbio dalle operazioni repressive, ma forse ancora di

più dalla rassegnazione a vedere la Verità solo negli slogan di Stato (come dimenticare le bandiere

ai balconi, i “distanti ma uniti”, i “siamo tutti sulla stessa barca” ed infine la fiducia nella Scienza

come unico “dio salvatore”). Come un colpo di spugna sullo scontro reale e di classe, la

digitalizzazione del mondo, presentandosi come una fuga da una realtà che “è meglio non vedere”,

non può che accelerare questo processo di distacco dal mondo. Sono messaggi del nostro tempo che

dobbiamo cominciare a vedere chiaramente.

Ma oltre a cercare di vederci chiaro, siamo tra quelli che cercano di guardare lontano per trovare la

forza di battersi qui, perché il terreno internazionalista è ciò che dà il senso a tutte le lotte per la

libertà. E non ci è certo sfuggito che in moltissime parti del mondo centinaia di migliaia di oppressi

si stanno battendo contro misure di contenimento che hanno tutto del militare e poco del sanitario,

contro le sistemiche violenze della polizia, contro regimi sempre più autoritari.

È forse per questo che la sfilza di operazioni poliziesche che si sono abbattute contro anarchiche e

anarchici in questi due anni mostrano misure e strategie sempre più repressive. Arresti

dichiaratamente preventivi per evitare che si «soffi sul fuoco» del malcontento sociale, accuse di

terrorismo a chi ha resistito ad un pestaggio in carcere, l’infamante accusa di strage come nuova

arma repressiva per seppellire compagne e compagni sotto decine di anni di carcere (come le

condanne pesantissime dell’operazione Scripta Manent e il processo in corso a Juan).

Ma questo deve essere letto nel presente che stiamo attraversando. Se, per esempio, viene definito

“complottista” (quando non addirittura, vanificando il significato storico del termine, marchiato con

la categoria di “negazionista”) chiunque non accetti il pacchetto pronto dello Stato su qualsiasi

fronte, imponendo la via unica del silenzio-assenso, non c’è da stupirsi che un gruppo di anarchici venga accusato di “istigazione a delinquere” o processato per “associazione sovversiva” per aver,

tra le altre cose, evidenziato (perché non si tratta di chissà quali teorie innovative, basta aprire la

finestra) come e perché le responsabilità dell’organizzazione sociale capitalista siano le effettive

cause della nascita e della diffusione di questa come di altre epidemie, delle guerre, dello

sfruttamento.

Lo leggiamo anche tra le carte che ci portano all’appello dell’operazione Renata: dove una rivista

anarchica diventa lo spazio per «le finalità dichiarate dall’associazione» – come una premessa

certamente utile all’accusa di “terrorismo” – poiché vi si afferma l’ovvietà del fatto che un processo

rivoluzionario non possa «escludere anche forme di lotta violenta». Lorsignori, con la cocciuta

ostinazione a voler far rientrare l’anarchismo nelle logiche gerarchiche del processo penale, cercano

di incolpare chi esprime ciò che è ovvio del fatto che… «qualcuno prima o poi finirà per crederci»:

se non fosse il tragico tentativo di aumentare gli anni di galera risulterebbe perlomeno grottesco.

Come poteva essere prevedibile, la dichiarazione scritta in occasione del processo di primo grado –

“Ai cuori ardenti”, che segue questa premessa – non ha tardato ad arrivare sulle scrivanie di diverse

Procure. Ma noi non cerchiamo certo giustizia dove non si può trovare, e siamo consapevoli che sia

anzitutto la sproporzione dei rapporti di forza in campo a concedere terreno alla spavalderia

repressiva dello Stato. Solo quando le lotte riescono a prendere spazio si fanno più chiari i ruoli

della società in cui viviamo, anche quelli della farsa giuridica, e si fanno meno efficaci le armi della

repressione. Per questo riteniamo che questo duemilaventuno sia anche il frutto di uno spirito

rivoluzionario inconsistente e reso muto, se non del tutto incapace di immaginarsi. Ma sappiamo

anche che ci sono strade (im)possibili che possono cambiare le cose. Scriveva Bakunin all’alba

della Comune di Parigi: «è ricercando l’impossibile che l’uomo ha sempre realizzato il possibile».

Lo sappiamo noi come lo sanno tutti gli anarchici e le anarchiche che in ogni angolo del mondo ora

si trovano dietro le sbarre. A loro mandiamo il nostro saluto, la nostra complicità, la fervente

solidarietà che ci anima nell’azione. Lo facciamo oggi come lo ricorderemo domani se ci troveremo

di nuovo tra le strette mura di una cella.

Sì, continueremo ad essere testardi perché sappiamo che è solo con questo spirito che si potrà

guardare avanti, per continuare a battersi per la libertà, adoperandoci con i mezzi che più riterremo

adatti e consapevoli di avere di fronte un nemico che, spontaneamente, non farà alcun passo

indietro. Il battito che sentiamo non potrà mai essere percepito dal giudizio di un’organizzazione

sociale figlia del profitto e della competizione. Guardiamo oltre per vederci chiaro. Ma per questo

non sarà sufficiente rivolgere lo sguardo alle nostre mani e alle nostre menti.

Occorre rivolgerlo soprattutto ai nostri cuori.

I nostri cuori ardenti.

Trento, 22 febbraio 2021

Stecco, Agnese, Rupert, Sasha, Poza, Nico e Giulio