Sergio Spazzali: un comunista forte e gentile,
Rosella Simone, Milano 1994.
da La Mappa Perduta, ed. Sensibili alle foglie, Roma
Quando si sono sposati, con rito civile, Paola indossava un tailleur rosso. E in quei lontanissimi primi anni sessanta, il matrimonio in comune e la sposa vestita di rosso erano entrambi fatti scandalosi. Paola Forti e Sergio Spazzali erano allora due giovani brillanti di sicuro avvenire. Sergio era molto fiero della donna che è stata sua moglie e che per la vita, pur nelle sofferte scelte diverse, gli è stata sempre amica. E adesso che è morto in esilio, mi piace incominciare a parlare di lui ricordandolo giovane e felice. "Aveva tutti i numeri per essere un leader" ricorda l'avvocato Dino Leon. Ma aggiunge: "Era anche uno che non aveva mai brigato per averlo, il potere". Quello che cercava era altro. Aveva una sua idea della felicità: lottare. Era un comunista, quello che cercava era altro. Voleva mettere il suo sapere al servizio della gente o, come si diceva una volta, quando Lenin era ancora di moda, essere in "rapporto organico" con le masse. Ma soprattutto era un uomo che cercava esseri umani. Uomini che sognano e s'interrogano. Che vogliono vivere l'utopia nel tempo presente. Era insomma un uomo forte e gentile. Una specie rara. Uno che, con Rosa Luxemburg e con il Che, sapeva che "un rivoluzionario deve possedere grandi sentimenti d'amore". La sua vita dunque testimonia di questa ricerca, non senza contraddizioni ed errori. Certamente non senza dolore. Ma sempre anche con ironia. Cercando nel vino e nell'amore un po' di quiete a quel demone di" verità che tormentava la sua mente. Analizzata dall'ottica del successo la sua vita fu un autentico, grandioso disastro. Ma per chi, ancora, voglia cambiare lo stato di cose presente, fu degna di essere vissuta.
Studente di giurisprudenza come il fratello Giuliano, in onore e amore al padre avvocato, milita nell'UGI. Laureato entra nel partito socialista, dove (in tempi certamente non sospetti) è un anticraxiano convinto, della corrente di Lelio Basso. Ai tempi dell'Algeria è con Giovanni Pirelli l'animatore del Centro Franz Fanon (poi, dal '72, Centro di ricerca dei modi di produzione). Un reseau internazionale che offre ospitalità ai disertori di una guerra ingiusta. Con la scissione del PSI entra nel Psiup. Non è più avvocato, adesso lavora come dirigente alla Rank Xerox. Dura poco però. Lo licenziano, con proibizione perpetua di mettere piede in quegli uffici, per aver partecipato e organizzato le lotte dei dipendenti. Passa dunque all'insegnamento. A Sesto San Giovanni all'Istituto tecnico per geometri De Nicola resiste tre anni, poi lo trasferiscono a Legnano, punito per aver partecipato all'attività politica e alle lotte degli studenti. Fa l'avvocato solo per difendere i fermati alle manifestazioni e, da militante dell'Unione inquilini, gli affittuari contro lo Iacp. "Era un personaggio scomodo anche nella professione", ricorda Franco Borelli che con Sergio ha lavorato per anni al C.r.m.p. "Gli altri avvocati erano terrorizzati dalla sua irruenza, dalla sua professionalità". Non ha mai smesso il suo impegno internazionalista e proprio nel Comitato contro la tortura, sorto sulla questione portoghese, Sergio incontra Petra Krause, e non sarà poca cosa nella storia personale e politica d'entrambi.
Lei era molto impegnata anche a denunciare l'isolamento in cui erano tenuti i detenuti della Raf in Germania. Ma c'era poco ascolto, quali fossero gli effetti della "deprivazione sensoriale" su corpo e mente di un prigioniero lo si incomincerà a capire solo più tardi. Nel '74 con la morte di Holger Meins. Nel '76 con quella di Ulrike Meinhof. Nel '77 con i suicidi di Stammheim. Nel '73, finalmente, otterrà un incarico a Milano. Al Primo Istituto Tecnico per il turismo di Milano. Quello che poi diventerà famoso come il "Varalli", dal nome dello studente di quarta, ucciso nel 1975 con un colpo alla nuca dai fascisti mentre ritornava da una manifestazione. Sergio arriva giusto in tempo per partecipare all'occupazione di una fabbrica dismessa, per protesta contro la mancanza di aule nella sede di via Verri. Il Varalli era una scuola combattiva, con un comitato politico d'insegnanti, una sezione sindacale agguerrita e vicina agli studenti. Sergio entra nel consiglio d'Istituto, fa parte del probiviri della Cgil di Milano, è a Roma nei congressi nazionali. "Aveva rapporti e discussioni intense con studenti, professori e genitori", ricorda Gabriella Buora, collega e amica in più di una battaglia. "Era molto rigido nei principi ma sapeva fare alleanze aiutato in questo dalla sua umanità, simpatia, intelligenza".
Ma i tempi ormai si sono fatti molto più aspri. I rompiscatole irriducibili devono essere messi a tacere. Incomincia per Sergio, come per molti altri, la lunga stagione degli arresti. Il primo è del novembre 1975. Imputato con Petra Krause ed altri del trasporto di due zaini pieni di mine attraverso il confine italo svizzero. A San Vittore subisce insieme a P. M. e G. M., imputati di BR, un tentativo di accoltellamento. Esce, ma solo per scegliere la via meno facile: fare l'avvocato dei detenuti nel Soccorso Rosso di Franca Rame.
Viene arrestato di nuovo il 12 maggio 1977 assieme a G. C. e altri nove. Gli inquirenti ritengono il Soccorso rosso responsabile di andare oltre la semplice assistenza legale. Dopo tre mesi è in libertà provvisoria, riprende a fare l'avvocato. Inventa la figura dell'"avvocato del detenuto" impegnato a difendere e denunciare i diritti offesi e la dignità negata di chi è in carcere. Naturalmente lo arrestano per la terza volta. Siamo nell'80. Lo accusa Peci. Lo condanneranno in appello, dopo averlo assolto in prima istanza, a quattro anni con la formula più strana che tribunale abbia inventato "concorso alla attività partecipativa dei suoi assistiti"! "Condannato senza indizi, trascurando prove a favore, facendo manipolazioni processuali" sbotta il difensore Gilberto Vitale. Siamo nell'82 ed ha accumulato, tra un pentito e l'altro, tredici anni di carcere da scontare.
L'esilio non era più una scelta, era un obbligo. A cercare e trovare altri amici, altri amori, altri pensieri da pensare. Ma anche molta solitudine e altrettanta povertà. Non voleva pesare troppo sulla famiglia che non ha mai smesso di aiutarlo. Adesso, dopo dodici anni, avrebbe forse potuto tornare. Un reato era caduto in prescrizione, un altro lo sarebbe stato in questi giorni. Invece è morto in terra di Francia. Da libero. Aveva scritto dall'esilio: "Io non sono stato brigatista, né ho collaborato con le BR altrimenti che difendendone alcuni militanti davanti ai tribunali della prima repubblica. In definitiva mi pento quanto meno di non aver praticato una milizia politica più attiva ed offensiva di quella che ho effettivamente praticato. Sono stato incoerente rispetto all'essenziale delle mie più profonde convinzioni… perché, per chi la pensa nell'ordine di idee a cui mi onoro di appartenere indegnamente (cioè per i comunisti), la difesa senza l'attacco costituisce una pura inetta astrazione".