Parlo a te
g.
da Treni sorvegliati Rifugiati italiani, vite sospese. Milano, Colibrì, 2008 [pag 46 - 47]
Parlo a te di Sergio come tu parlavi a lui di noi come lui parlava a noi del mondo per continuare a parlare del mondo ora che lui non c'è più.
Torino-Lione. Paesaggio fermo. In realtà vedevo poco di quello che c'era oltre il finestrino del treno.
Molta curiosità, immagini possibili e pesanti nella mia testa. Tu eri contento, non sufficientemente emozionato (mi sembrava). Abituato in fondo a queste visite saltuarie e intense. Provavo dell'invidia, in parte. Un rapporto vissuto da lontano ma più vicino e reale di molti altri.
All'arrivo al binario non c'era nessuno. Ti vedevo un po' teso e mi sorprendevo a pensare che sarebbe stato bello restare noi due, farci un giro (erano circa le nove di sera), trovare una pensione dove rinchiuderci da soli. Ma avevi la faccia contratta, ti sforzavi di ridere e mi dicevi che tutte le volte era sempre così, non si riusciva mai a prendere accordi precisi, ti capitava persino di restare ore e ore nel bar dove vi eravate dati appuntamento, per poi riuscire a incontrarvi ormai sfiduciati e stanchi in un altro posto ancora.
L'appuntamento, quella sera, era fuori della stazione. La piazza, larga, era buia e vuota. Non c'era nessuno. Aspettammo circa dieci minuti. Eccolo - mi dici. Andammo incontro a una figura in controluce che camminava lentamente e che sembrava leggermente sbilanciata (quando fummo vicini, mentre vi abbracciavate, vidi che aveva un bastone). Ci aspettava dal pomeriggio, era un po' stanco e noi affamati. Vicino c'era un ristorante dove mangiammo pessimi spaghetti italiani e dove bevemmo un vino finto, ma l'atmosfera era bella, calda e solare. La sua faccia era un quadro impolverato e prezioso, la sua risata rauca riusciva a fargli scomparire gli occhi, di cui restavano due finestre taglienti. Mi ricordo che hai commesso un errore, quello di comunicargli, di fronte a me, che avevi dei soldi per lui. La sua espressione fu più eloquente di ogni parola; dopo pagammo e ci alzammo. Camminava fra noi due, era un po' ingombrante e chiassoso, ma poi capii che era così perché era contento, autenticamente contento. Lo divertiva portarci a casa della sua amica (che era via), sistemarci in un giaciglio a terra, bere ancora con noi del vino rosa in bottiglie di plastica, parlare di Antonio . Più di una volta si volle assicurare che mi piacesse dormire lì, se volevo mi accompagnava in pensione, ma io ero felice di essere in quella casa con poster di tramonti e di Che Guevara, avevo già sonno, il vino era stato efficace e vi salutai. Prima di sprofondare nel sonno pensai che il materasso era comodissimo e che avrei sicuramente fatto dei bei sogni; sentii le vostre risate e me le portai con me, quella notte. Erano risate calde, contagiose. Sono certa che risi anch'io.
Nei due giorni successivi ci portò in giro, infaticabile e loquace, per le strette vie di Lione, camminando in salita e in discesa, raccontandoci del museo delle bambole a cui non andammo, ma facendocene vedere un altro di pupazzi in movimento. Ero incantata.
Voi due insieme eravate curiosi, così simili e così diversi, tu con il tuo anonimo maglione, lui con i vestiti variopinti e col bastone di legno, i capelli grigi lunghi tirati indietro, l'aria sorniona, i racconti avvincenti. Avevo fame. Ci fermammo in una trattoria (quella dove voleva portarci lui era chiusa) dove mangiammo non mi pare benissimo ma dove bevemmo meglio del giorno prima. Alla fine il padrone offrì a voi due della grappa, a me niente, forse perché ero donna. Ci rimasi male, ma non dissi niente.
Uscimmo e camminammo ancora un po', stanchi e appesantiti. Sergio propose di comprare qualche giornale italiano per fare una pausa, ma prima mi fece entrare in un bar e mi pagò una grappa.
Ricordo che si divertiva della situazione politica italiana: ne parlava con un buffo distacco e a un certo punto mi chiese se sapevo che lui era un terrorista. Disse proprio così, e rideva. Poi disse che non voleva tornare a Milano, perché questo avrebbe significato molte cose a cui preferiva rinunciare, come per esempio andare al ristorante insieme a qualche vecchio amico (mai più sentito), al quale raccontare in forma di romanzo folkloristico del suo esilio e dei suoi progetti futuri.Poi disse anche che amava il barocco, e che sarebbe volentieri andato in Sicilia con noi, una volta o l'altra.
Quando ci accompagnò al treno non fu facile salutarsi, non ne avevamo nessuna voglia, ci disse di tornare e se ne andò velocemente, immergendoci in un silenzio profondo.
Credo di averlo conosciuto in una fase poetica della sua vita, in un momento di solitaria bellezza e di candore; mi sembra adesso che si preparava a morire e che lo volesse, per un verso. L'ho amato molto, in quei tre giorni. Avrei davvero voluto andare a Noto con voi due, ma in un certo senso l'abbiamo fatto.
E adesso ho voluto parlarti di lui perché mi manca, perché anche questo è un modo di farlo vivere, di farci vivere.
(1994)