Il perché del progetto secondo alcuni dei promotori (1999)
Esco di casa, è una serata di autunno.
Vivo in un paese. Il paese è vivo con me.
Incontro amici, gente che conosco.
Viviamo assieme quella che decidiamo noi essere la nostra vita. Individui che si sono
incontrati ad un certo punto della loro vita e che hanno deciso di costruirsi assieme la
loro esistenza.
La vita di città ci ha così alienato che a fatica riusciamo a concepire e a ritrovare il
senso di stare insieme nell'agglomerato urbano. Nel magma caotico urbano. Dobbiamo
ritrovarci, per passare ore insieme, in luoghi preposti. Luoghi organizzati dove viene
commercializzata la nostra sete di socialità.
Io quello che ricerco è conoscere gente che mi mostri la propria vita, che non si
nasconda dietro barricate definite a priori.
Spesso ho a che fare con persone che della loro vita mi sembra diano un'idea quantomeno
prototipata... "finisco l'università, dopo 10 giorni ho già trovato lavoro, vado a
lavorare alla Marconi... c'è sì la partecipazione militare, ma che vuoi farci, è la
vita, io non ci posso fare niente...". In 1984 di Orwell potevamo immaginarci un
mondo di androidi. Siamo nel 1999, gli androidi hanno 15 anni e ci stanno già
colonizzando.
Abbiamo cercato non la casa in campagna, magari sufficientemente grande da
consentire la presenza di più persone, ma il borgo. La differenza non è solo
quantitativa, ma anche qualitativa. Borgo implica pluralità di nuclei abitativi separati
ma interconnessi.
Implica attività di vario tipo -ludico - lavorative - culturali - sociali -
solidaristiche. È un'entità autonoma / a se stante. Autosufficiente, nel senso che
limita al massimo i rapporti esclusivamente mercantili. È un luogo che pensiamo di
strutturare in modo tale da consentire a ciascuno degli abitanti / frequentatori di
riappropriarsi della propria identità, costruirla ed esprimerla in modo via via più
complesso e profondo.
È un luogo dove vivono giovani, adulti, anziani. Dove non esistono verità assolute
(bisogna battezzare o non battezzare i neonati; avere tutto in comune o niente in
comune...), ma dove le scelte individuali sono tutte legittime finché non diventano
reciprocamente incompatibili.
Un posto del genere ci serve:
A vincere le difficoltà - in gran parte di tipo economico - della vita
"normale", per cui spendiamo la maggior parte del tempo a lavorare per
mettere assieme il pranzo con la cena, rinunciando, spesso, a tutti i lussi che sono
appannaggio di caste privilegiate.
A superare l'isolamento in cui ognuno di noi in genere si trova - e che lo costringe a
relegare i rapporti di amicizia nei momenti di vuoto lavorativo, se e quando gli restano
le energie fisiche o mentali sufficienti a coltivarli.
A creare sinergie di cui è difficile prevedere a priori o in modo articolato sviluppo e
risultati.
Ad affrontare il vivere senza dover fare obbligatoriamente i conti con tutto quello di
negativo che l'alienazione dei rapporti sociali, la standardizzazione dei comportamenti,
le regole non scelte del "vivere civile" comportano.
Non so, non sono ancora riuscito a capire un sacco di cose del mondo. Ad
esempio non so tuttora perché sto continuando a vivere, con tantissimi miei simili, in
una follia collettiva che pazzi come me chiamano buonsenso.
Vedo così tanta gente che come me non è soddisfatta di ciò che la circonda,
l'isolamento, i lavori competitivi massacranti o avvilenti, la conquista a fatica di uno
spazietto dove sopravvivere sperando che nessun fulmine colpisca; l'abitudine alla
diffidenza di chiudersi nelle famiglie e chi suona al campanello inaspettato 'sarà un
seccatore'...; il tempo libero che è misurabile con precisione, e a volte ci trova così
stanchi e sfiduciati, ed è così poco, che non sappiamo che farcene e lo lasciamo lì
come un resto di cinquanta lire.
E questo lo consideriamo normale e a volte ci prendiamo anche sul serio quando lo
pensiamo.
Però sappiamo che non è così che dovremmo, che vorremmo essere e vivere. O almeno lo sa
una gran parte di noi, a giudicare dalle facce che si vedono sugli autobus (andare in
motorino aiuta, ma non basta). Sappiamo bene che non è proprio il massimo passare così
la nostra unica vita, e invece spesso agiamo come se ne avessimo una per adattarsi senza
disturbare, e una decina in seguito per star bene; d'accordo, chissà, magari mi
reincarno, ma per quello che ne so potrei reincarnarmi in una cavia da laboratorio, meglio
essere prudenti. Sospettiamo (è un eufemismo) che parecchi altri possano condividere i
nostri disagi eppure non ci cerchiamo, non ci diciamo nulla, sfioriamo gli sguardi per la
strada e per un attimo crediamo di aver visto in altri occhi sconosciuti che non siamo gli
unici fessi a sentirsi così minimi.
Ma non sia mai, comunicare, probabilmente ti vuole grattare il portafoglio, e poi dai,
passare per strani, passare per deboli, passare per influenzabili; preferiamo sempre
passare e basta, passare e raddrizzare lo sguardo e rinfoderare questi pensieri, lucidi
dal poco utilizzo, nella morbida custodia delle abitudini. Non so di cosa più abbiamo
paura in realtà, forse del giudizio degli altri, o forse di una vita peggiore o appunto
che ci freghino il portafoglio, non so se ci difendiamo dietro al cartello 'domani
cambierà' o se riteniamo morale darci da fare per adattarci a schemi altrui, come se ci
avessero dato una traccia da sviluppare e avessimo paura di andare fuori tema.
O se semplicemente di norma siamo troppo soli per ogni tipo di iniziativa.
Un'idea fuori tema, in comune con alcuni amici, ma in realtà con chiunque voglia
'appropriarsene' davvero è quella di ritagliarsi uno spazio, di quelli misurabili in
metri quadrati od ettari, che ci dia più spazi, quelli misurabili in termini di
soddisfazione personale. Un posto dove poter abitare, se vogliamo, in cui poter lavorare,
se vogliamo, poter dismettere molte delle nostre finzioni quotidiane, se vogliamo, potere
un po' più facilmente esprimersi e portare avanti le cose che ciascuno di noi ha in testa
e cercare di condividerle con chi vuole farlo. Un posto dove poter avere un po' più
fiducia in una solidarietà delle persone che non sia limitata a un ristretto e spaurito
ed accerchiato ambito familiare (ammesso e non concesso, anzi proprio negato con forza,
che la solidarietà possa esistere all'interno di una famiglia media). Dove insomma si
possano riesumare due componenti di noi che secondo me sono letteralmente massacrate dal
tipo di vita che in media siamo costretti a fare: la creatività e la socialità.