<<Franco Fortini Ragionamenti 1956 | INTERVISTA A YANN MOULIER BOUTANG >> |
Quando il 18 aprile 1975 H. Arendt si presentò
a Copenhagen per ritirare il premio Sonning attribuitole dal governo danese
“per il meritorio lavoro a favore della cultura europea”, era normale
che, fra amici, ne parlasse come di una seccatura. Ebrea profuga, apolide, privata
della casa, del lavoro, della lingua, degli amici, una vita spezzata dalla mostruosità
di un tempo uscito dai cardini, non aveva mai cessato di sentirsi in dissidio
con un mondo che trattava come superflue intere popolazioni, non lasciando spesso,
come unica possibilità di mantenere un minimo di umanità e di
dignità, altra strada che il ritiro da esso. Né meno estranea
le era la società: “Sono sempre più dell’opinione
che oggi ci si possa assicurare un'esistenza degna di un essere umano soltanto
ai margini della società, proprio là dove si rischia, con maggiore
o minore senso dell’umorismo, di essere lapidati dagli altri, oppure di
essere condannati a morte per fame. Io qui – riferendosi alla sua seconda
vita americana – sono abbastanza conosciuta e in certo questioni ho un
po' d’autorità nei confronti di alcuni uomini: in altre parole,
hanno fiducla in me. Ma, sotto un diverso aspetto, ne deriva che essi sanno
benissimo come io non desideri fare carriera, né in base alle mie convinzioni,
né grazie alle mie «doti»”. V’era di che dispiacere
alla classe degli intellettuali, per una persona che non faceva dipendere il
proprio orgoglio da qualsiasi opera avesse prodotto e che aveva più volte
argomentato un giudizio sprezzante e implacabile sulla loro totale incapacità
e mancanza di coraggio nel giudicare o nell'agire nel mondo.
Eppure, già nel 1959 – nel magnifico discorso con cui aveva accettato
dalla città di Amburgo il premio Lessing – proprio rifacendosi
all’atteggiamento esemplare del grande predecessore verso i suoi tempi
oscuri”, aveva attentamente modulato il tema del dissidio dal mondo: in
nessun caso esso esonera dal misurarsi con la presenza degli altri, dall'esistenza
di uno spazio in cui parlare ed essere ascoltati, visti, giudicati diversamente
da come ci si può giudicare da soli, e quindi dal problema del riconoscimento
pubblico: chi si rifiuta nobilmente, con appassionata sofferenza, all'accordo
col mondo, non può però mai sottrarsi all’obbligo di riconoscenza
che ha comunque verso di esso, pena imboccare il vicolo cieco dell’anonimato
e del segreto, che lo priva della possibilità di fare esperienza dell'unica
scena reale, quella di una determinata epoca storica; la critica radicale o
anche la fuga dall'esistente, possono essere una energica manifestazione e una
forza solo se non lo mettono tra parentesi, considerandosi troppo nobili per
misurarvisi, e se fanno fronte apertamente anche alla negatività assoluta
delle circostanze.
La grandezza per H. Arendt non è eccezionalità, superiorità
rispetto agli altri, ma “eccellenza nel senso del pieno attigimento del
significato di ciò che si fa nell'attualità vivente del suo compiersi,
ossla nello scambio di sguardi, attenzione, parole, gesti che ogni persona vivente
mette in atto nel momento in cui fa qualcosa” (L. Boella, Hannah Arendt.
Agire politicamente, pensare politicamente): questo discorso, per il modo come
prende di petto il tema del riconoscimento e della fama nel momento del riconoscimento
e della fama, ne è un esempio raro. la sua conclusione di indomita fierezza
e insieme di grande acutezza sulla “persona” sociale come maschera
ma anche come megafono e sul “chi” le sta dietro avrebbe meritato,
da coloro che proprio in quegli anni ponevano come lei le loro uniche speranze
di cambiamento radicale nell'irrompere di un “sistema dei consigli”,
maggiore attenzione rispetto alle piattezze controculturali mistico-californiane
di chi, come un Norman Brown, sentenziava che “essere visti è il
desiderlo del fantasmi”, o alle fallimentari liquidazioni di “scienza
marxista” della Storla che profetizzava l’anonimato della rivoluzione
in base al mutismo effettivamente proprio della “specie”.
Il dattiloscritto in inglese del discorso, custodito
presso la Biblioteca del Congresso a Washington, non è stato finora pubblicato
se non in una traduzione francese di M.-I. de Launay e A. Enegrén (“Esprit”,
VI, n.7-8, pp. 21-29, Paris, 1982), su cui è condotta questa prima traduzione
italiana. Precedendo di pochi mesi la morte dell'autrice, il discorso ritorna
ancora una volta. implicitamente ma talvolta letteralmente, su un insieme di
temi già affrontati in vari passi delle sue opere. Tanto per la questione
del riconoscimento pubblico, quanto per quella del rifiuto quasi automatico
di ciò che attiene alla sfera pubblica nei tempi oscuri della moderna
alienazione dal mondo, particolare importanza ha L’umanità nei
tempi oscuri. Riflessioni su Lessing (tr. it. in “La società degli
individui”, Parma, n. 7, 2000/1, pp. 5-30), discorso pronunciato in occasione
del conferimento dell'omonimo premio, mentre nel settimo paragrafo, secondo
capitolo, di Vita activa (tr. it. Bompiani, Milano, 1991) è trattata
la futile estraneità ad ogni solido mondo comune della attuale “ammirazione
pubblica”, in quanto accesso ad una rilevanza di tipo “spettacolare”,
da consumare in fretta, della status sociale; l'intervista la lingua materna
(tr. it. Mimesis, Milano, 1993) chiarisce maggiormente i riferimenti autobiografici;
la degenerazione burocratica e tecnocratica degli attuali sistemi di governo,
a partire da quello statunitense, è analizzata, in base ai Pentagon Papers,
in La menzogna in politica (tr. it. in Politica e menzogna, Sugar, Milano, 1985);
il decimo capitolo di La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (tr.
it., Feltrinelli, Milano, 2001) analizza estesamente la peculiarità della
resistenza danese al nazismo; la non equivalenza, nonostante la loro frequente
confusione, di potere e violenza è ampiamente trattata in Sulla violenza,
(tr. it. Guanda, Parma, 1996): per le “generazioni perdute” si veda
Bertolt Brecht: il poeta e il politico (tr. it. in Il futuro alle spalle, Il
Mulino, Bologna, 1995) e Azione e ricerca della felicità (tr. it. in
“Trimestre”, XVIII, 1985, n. 1-2, pp. 127-147); i temi del pensiero
e del giudizio in quegli stessi mesi della vita dell'autrice sono oggetto della
scritto incompiuto la vita della mente (tr. it. Il Mulino, Bologna, 1987). Al
tema della “persona” sociale si fa riferimento analizzando le rivoluzioni
moderne nel secondo capitolo del saggio Sulla rivoluzione (tr. it. Comunità,
Milano, 1996).
[Mario Lippolis]
Signore, signori,
dal momento in cui, con una certa sorpresa, venni a sapere che la vostra scelta
era caduta su di me e che avevate deciso di assegnarmi il premio Sonning, che
segnala un’opera che abbla dato un contributo alla cultura europea. non
ho smesso di domandarmi che risposta avrei potuto darvi. A causa di quel che
stata la mia vita, da una parte e, dall'altra, di quello che in genere il mio
atteggiamento verso eventi pubblici di questa natura, il solo fatto di trovarmi
posta di fronte a questo avvenimento suscitò in me tante reazioni e riflessioni
spesso contraddittorie che ho avuto non poche difficoltà ad adattarmici
– non sto parlando di quella gratitudine profonda che ci lascla disorientati
quando il mondo ci fa un dono vero, e realmente gratuito, allorché la
fortuna ci sorride, spazzando vla superbamente tutto ciò cui, più
o meno coscientemente, tenevamo: le nostre speranze, i nostri progetti, i nostri
scopi.
Vorrei tentare di mettere ordine in quelle riflessioni. E partirò da dati puramente biografici. Ricevere una testimonianza pubblica di riconoscimento al titolo di aver contribuito alla cultura europea non è un evento trascurabile per me, che ho lasciato l’Europa trentacinque anni fa – certo non di buon grado – e che ho scelto successivamente di divenire cittadina degli Stati Uniti – davvero di buon grado e con piena conoscenza di causa – perché questo paese era una Repubblica retta dal diritto e non dagli uomini. L’essenziale della mia formazione durante gli anni decisivi che precedettero la mia naturalizzazione sta in ciò che imparai da me della filosofla politica dei Padri fondatori, e ciò che determinò la mia decisione fu l’esistenza effettiva di un corpo politico totalmente differente dagli Stati-nazione europei. caratterizzati dalle loro popolazioni omogenee, con il loro senso innato della storia, le loro divisioni più o meno marcate in classi, il loro principio di sovranità nazionale con la nozione di ragion di Stato che vi è connessa. L’idea secondo cui, quando i giochi sono fatti, conviene sacrificare la diversità sull’altare dell’“union sacrée” della nazione, che segnò un tempo il maggior trionfo del potere di assimilazione del gruppo etnico dominante, comincia solo oggi a cedere sotto la minaccia della mutazione di ogni governo – e quello degli Stati Uniti non fa eccezione – in burocrazia; e allora non sono né il diritto né gli uomini a reggerci, ma delle amministrazioni e dei computer anonimi il cui dominio perfettamente impersonale rischia di rivelarsi più gravido di minacce per la libertà, e per quel minimo di civiltà senza di cui non concepibile alcuna vita in comune, della più sfrenata arbitrarietà dei tiranni del passato. Ma i pericoli del gigantismo alleati con quelli della tecnocrazia, il cui dominio minaccia effettivamente di deperimento e di estinzione tutte le forme di governo – all’epoca si trattava ancora di una pia fantasticheria ideologica le cui spaventose conseguenze potevano essere colte solo da uno sguardo critico –, questi pericoli non avevano fatto la loro quotidiana apparizione in politica e, al mio arrivo negli Stati Uniti, ciò che determinò la mia scelta fu la libertà di optare per una cittadinanza senza doverne pagare il prezzo con l'assimilazione.
Io sono un individuo ebreo feminini generis, come potete vedere, nata ed educata in Germania, come potete percepire, e mi sono parzialmente formata attraverso otto lunghi anni molto felici passati in Francia. Io non sono in grado di cogliere in che cosa abbia potuto contribuire alla cultura europea, ma devo riconoscere che durante tutti questi anni mi sono aggrappata al mio passato europeo in ogni suo dettaglio, con una tenacia che talvolta sfiorava la testardaggine non priva di intento polemico, perché vivevo in mezzo a persone, spesso vecchi amici, che facevano l’impossibile per giungere allo scopo esattamente inverso: si sforzavano di comportarsi, di parlare e di reagire come dei “veri americani”, cedendo in questo alla sola forza dell’abitudine, che per loro era quella di vivere in uno Stato-nazione cui non si può appartenere se non ci si conforma agli usi e costumi dei connazionali. Ma il problema è che io non ho mai cercato appartenenze, neanche in Germania, ed ho dunque avuto difficoltà a comprendere il ruolo che gioca molto naturalmente la nostalgia del paese d'origine fra tutti gli immigrati, particolarmente negli Stati Uniti in cui l’origine nazionale, dopo aver perso la sua pertinenza in materia politica, è giunta di conseguenza a costituire il legame più forte, in società come nella vita privata. Ora questa origine che, per altri, rimandava a un paese, forse a un paesaggio, a un insieme di abitudini e di tradizioni e, sopratutto, a una certa mentalità, era rappresentata per me dalla lingua. E, se mai mi è accaduto di contribuire in maniera cosciente alla cultura europea, non può essere altro che per la mia deliberata intenzione, dal momento in cui fuggii dalla Germania, di non barattare la mia lingua materna con una di quelle di cui, volente o nolente, dovevo far uso. Mi sembrava che per la maggior parte delle persone, in specie per tutti coloro che non hanno doti speciali al riguardo, la lingua materna rimanesse il solo riferimento sicuro rispetto a tutte le lingue acquisite in seguito con l’apprendimento. Poiché le parole del linguaggio quotidiano si caricano di quella densità che orienta le nostre scelte e ci risparmia le espressioni raggelate grazie alle molteplici associazioni che sgorgano spontaneamente ed esclusivamente dal tesoro della grande poesia che quella lingua ha ricevuto in retaggio.
Il secondo aspetto che, rispetto alla mia vita, doveva necessariamente attrarre la mia attenzione, concerne il paese cui oggi devo questo onore. Il modo tutto particolare in cui il popolo danese e il suo governo hanno trattato e risolto il problema cruciale posto dall’invasione dell’Europa da parte dei nazisti mi ha sempre affascinata. Spesso ho pensato che questa storia straordinaria, che a voi è evidentemente più familiare che a me, dovrebbe figurare nel programma di tutti i corsi di scienze politiche incentrati sul rapporto fra il potere e la violenza, nozioni di cui spesso si presuppone l’equivalenza e la cui confusione costituisce uno degli errori fondamentali non solo della teoria, ma anche della pratica politica effettiva. Quell’episodio della vostra storia propone un esempio eminente dell’importante potenziale di potere racchiuso nell’azione non violenta e nella resistenza ad un avversario che possieda mezzi incomparabilmente più potenti per esercitare la violenza. E poiché in quel conflitto la vittoria più spettacolare fu quella ottenuta sui promotori della “soluzione finale” e si è risolta nel salvataggio della quasi totalità degli ebrei del territorio danese, è del tutto naturale che gli ebrei sopravvissuti alla catastrofe si sentano uniti a questo paese da legami molto privilegiati.
Due cose mi hanno particolarmente colpita in quella storia. In primo luogo, il fatto che prima della guerra la Danimarca aveva riservato ai rifugiati una accoglienza non particolarmente amabile; come negli altri Stati-nazione, essi si erano visti rifiutare naturalizzazione e permesso di lavoro. Benché non vi sia stato antisemitismo, gli ebrei, dato che erano stranieri, non erano i benvenuti, ma il diritto d’asilo, altrove calpestato ovunque, a quanto pare qui era considerato un principio sacrosanto. Perché, allorquando i nazisti esigettero dapprima la deportazione dei soli apolidi, vale a dire dei rifugiati tedeschi che avevano spogliato della propria nazionalità, i danesi fecero sapere che quei rifugiati, non essendo più di pertinenza tedesca, non potevano essere rivendicati dai nazisti senza l’accordo della Danimarca. D’altra parte, mentre l’Europa occupata contava alcuni paesi che riuscirono a salvare la maggior parte dei loro ebrei con mezzi obliqui, a mia conoscenza i danesi furono soli a osare dire nettamente ai loro padroni ciò che pensavano. Allora, sotto la pressione dell’opinione pubblica e senza che fosse stata agitata la minaccia di una resistenza armata o di una guerra partigiana, i funzionari nazisti di stanza nel paese fecero marcia indietro. Avevano perduto qualsiasi credito, si trovavano sconfitti proprio da ciò che sopra ogni cosa disprezzavano, delle semplici parole, pronunciare liberamente e pubblicamente. Si tratta di qualcosa che non accaduto da nessuna altra parte.
Permettetemi di proseguire adesso queste osservazioni
in un’altra direzione. La cerimonia che si svolge oggi è certamente
un avvenimento pubblico e gli onori conferiti al premiato segnano apertamente
il riconoscimento di un individuo che si trova per l’appunto in tal modo
trasformato in personalità pubblica. E temo a questo riguardo che la
vostra scelta non sia soggetta a cauzione. Non che io voglia sollevare qui la
delicata questione del merito. Il fatto di ricevere degli onori è, per
quanto ne so, un appello insistente alla modestia, perché è qualcosa
che testimonia che non tocca a noi giudicare, e ci fa comprendere che noi non
siamo in grado di dare un giudizio su noi stessi e le nostre realizzazioni come
facciamo nei confronti degli altri. Io sono del tutto pronta ad accettare l'umiltà
che qui si impone, tanto più avendo sempre pensato che nessuno può
conoscere se stesso perché nessuno appare a se stesso quale appare agli
altri e che solo l’infelice Narciso può lasciarsi ingannare dal
proprio riflesso e deperire per amore di un miraggio. Ma, se sono pienamente
disposta ad accettare umilmente questa evidenza che nessuno può essere
il giudice di se stesso, rifiuto per contro di rinunciare totalmente alla mia
facoltà di giudizio per dire, come farebbe forse un vero cristiano, “Chi
sono io, per giudicare?”. Una inclinazione strettamente personale e individuale
mi spingerebbe piuttosto a dire, col poeta:
Le facce private in luoghi pubblici
son più intelligenti e più simpatiche
delle facce pubbliche in luoghi privati.1
Detto altrimenti, il mio temperamento e le mie particolari inclinazioni, queste qualità psichiche innate che determinano, se non i giudizi che noi formuliamo dopo riflessione, almeno i nostri pregiudizi e i nostri primi moti istintivi, mi inciterebbero piuttosto a fuggire per timidezza dalla sfera pubblica. Ciò apparirà forse falso e inautentico a coloro che conoscono certuni dei miei libri e si ricordano l’elogio, se si vuole l’apologia che vi si fa della sfera pubblica come spazio dell’apparire che è il solo adatto alla parola e all’azione politica. Quando si tratta di teorizzare e di comprendere, i semplici spettatori posti al di sopra della mischia hanno sovente una percezione più acuta e più profonda del significato reale degli avvenimenti rispetto ai partecipanti, che ardono, come d’obbligo, nel fuoco dell’azione. In effetti, del tutto possibile comprendere la politica e riflettervi senza nondimeno essere quel che si chiama un animale politico.
Queste disposizioni primarie – o, se si preferisce, queste insufficienze congenite – erano fortemente incoraggiate da due tendenze, nettamente distinte ma entrambe ostili ad ogni pubblicità, e che hanno coinciso con tutta naturalezza negli anni Venti, durante quel periodo postbellico che segnava già, secondo l’avviso perlomeno delle nuove generazioni del tempo, il declino dell’Europa. Anche se non era affatto banale, la mia decisione di intraprendere degli studi di filosofia non aveva niente di originale e la scelta del bios theoretikos, di un modo di vita contemplativo, escludeva già, forse a mia insaputa, ogni impegno nella vita pubblica. Il vecchio adagio epicureo che esorta il filosofo a vivere nascosto, lathe biosas, spesso interpretato a torto come un consiglio di prudenza, deriva semplicemente dal modo di vita del pensatore, poiché non solo il pensiero stesso, a differenza delle altre attività umane, è una attività invisibile senza manifestazioni esteriori, ma inoltre esso è da questo punto di vista forse unico nel suo genere: non è animato dal bisogno di apparire e solo molto moderatamente tende a comunicarsi agli altri. A partire da Platone, il pensiero è stato definito come un dialogo silenzioso dell’io con se stesso; il solo modo in cui noi possiamo tenerci compagnia e trovarvi soddisfazione. La filosofia è una attività solitaria, ed è normale che il suo bisogno si faccia sentire in epoche di transizione, quando gli uomini non hanno più fiducia nella stabilità del mondo e nel ruolo che vi è loro toccato in sorte, allorché le questioni che riguardano le condizioni generali della vita umana – che in quanto tali datano probabilmente dall’apparizione dell’uomo sulla terra – prendono una acutezza inabituale. Forse Hegel aveva ragione: “La civetta di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo”2.
Ma questo crepuscolo, questo oscuramento della scena
pubblica non si è affatto formato silenziosamente. Proprio al contrario,
mai la sfera pubblica ha risonato di tante proclamazioni sempre molto ottimiste,
e in quel frastuono non si mescolavano solo gli slogan delle due ideologie antagoniste,
ciascuna delle quali profetizzava un ben diverso avvenire, ma anche le prosaiche
dichiarazioni dei politici e degli statisti rispettabili del centrosinistra,
del centrodestra e del centro: oltre a finir di confondere gli spiriti, quel
chiacchiericcio riuscì innegabilmente a svuotare di ogni sostanza tutte
le questioni affrontate. Il rifiuto quasi automatico di tutto quanto faceva
parte della sfera pubblica era un atteggiamento molto diffuso nell’Europa
negli anni Venti, con le sue “generazioni perdute” (come si battezzarono
da sé) che, ben inteso, rappresentavano solo una minoranza, tanto al
livello dei paesi che a quello delle avanguardie o delle élite. Malgrado
la loro debolezza numerica, gli elementi di quelle generazioni perdute erano
tuttavia rappresentativi del clima dell’epoca, benché si possa
imputare a questo aspetto l’immagine falsa, incredibilmente pregnante,
degli “anni folli” che vengono portati al settimo cielo, mentre
la disintegrazione di tutte le istituzioni politiche che ha preparato le grandi
catastrofi degli anni Trenta è quasi interamente caduta nell’oblio.
La poesia, l’arte e la filosofia di quell’epoca offrirono delle
testimonianze di quel clima di disaffezione verso tutto ciò che era pubblico;
è il periodo in cui Heidegger scopre il man3, il “Si” in
quanto si oppone al “se-stesso autentico”, in cui Bergson, in Francia,
giudica necessario “ritrovare l’io fondamentale” sottraendolo
“alle esigenze della vita sociale in genere e del linguaggio in particolare”,
e in cui, in Inghilterra, W.H. Auden dice in una quartina qualcosa che dovuto
sembrare a molti quasi troppo banale da scrivere:
Tutte le parole come Pace e Amore
Ogni parola affermativa e sana
Erano state sporcate, pro fanate e mutate
In un orrido meccanico stridore4
Se vengono acquisite negli anni di formazione, queste inclinazioni (fanno parte del temperamento? del gusto?) che ho tentato di situare storicamente e di spiegare in modo concreto, son capaci di esercitare un’influenza durevole. Possono condurre alla passione del segreto e dell’anonimato, come se all’individuo importasse solo ciò che egli non può divulgare (“Non cercare mai di dire il tuo amore/ Quell’amore che mai può essere detto5” o anche “Se vuoi donarmi il tuo cuore/ Fallo senza rumore6”), come se il solo fatto di avere un nome conosciuto dal pubblico, detto altrimenti una rinomanza, non potesse che esporre al contagio del “Si” heideggeriano, dell’“io sociale” bergsoniano e corrompesse la parola con la volgarità di quell’“orrido stridore” di cui parla Auden. Dopo la Prima Guerra mondiale apparve una strana struttura sociale che è finora sfuggita alla sagacia degli specialisti della critica letteraria come a quella degli storici e dei sociologi di professione e la cui migliore definizione sarebbe l’“associazione internazionale delle celebrità”; ancor oggi, non sarebbe molto difficile stabilire la lista dei suoi membri, e non vi figurerebbe nessuno degli autori che si sono in fin dei conti rivelati i più importanti dell’epoca. Se è vero che nessuna delle “internazionali” apparse negli anni Venti ha pienamente corrisposto alle speranze di solidarietà nutrite dai suoi membri negli anni Trenta, è altrettanto incontestabile, a mio avviso, che nessuna di quelle internazionali è crollata più rapidamente, nessuna ha gettato i suoi membri in una maggiore disperazione di quella associazione interamente non politica i cui membri, corrotti dal “potere accecante della celebrità”, si sono trovati di fronte alla catastrofe più disarmati delle oscure moltitudini che furono soltanto private della protezione del loro passaporto. Ho citato l’autobiografia di Stefan Zweig, Il mondo di ieri, ripubblicata dall’autore poco prima del suo suicidio. È, a mia conoscenza, la sola testimonianza scritta su quel fenomeno sottile e sicuramente illusorio la cui semplice aura conferiva a quelli che erano ammessi a condividere i caldi raggi della fama ciò che noi oggi chiamiamo “una identità”.
Se la mia età non mi vietasse di riprendere senza ridicolo le espressioni delle giovani generazioni, confesserei che l’effetto più diretto e, nel caso specifico, più prevedibile dell’attribuzione di questo premio è stato di provocare in me una “crisi di identità”. La “società delle celebrità” ha cessato di rappresentare una minaccia. Grazie a Dio, essa è scomparsa. Nulla è più effimero, nel nostro mondo, nulla più precario di quella forma di successo che è conferita dalla fama. Nulla sopraggiunge più rapidamente e più agevolmente dell’oblio. Sarebbe più appropriato per qualcuno della mia generazione, attempata ma non ancora del tutto scomparsa, distogliersi da tutte queste considerazioni psicologiche e accettare questa intrusione nella mia esistenza come un pegno di fortuna, senza dimenticare che gli dei, gli dei greci almeno, sono ironici e perfino astuti, un po’ alla maniera di Socrate che cominciò a preoccuparsi e a interrogarsi sul modo aporetico di procedere dacché l’Oracolo di Delfi, celebre per le sue enigmatiche ambiguità, ebbe visto in lui il più saggio dei mortali. Egli sentiva in ciò una pericolosa esagerazione, una possibile allusione al fatto che nessun uomo è saggio, e pensava che Apollo aveva forse voluto così indicargli come poteva egli stesso dar corpo a questa intuizione, insinuando il dubbio nello spirito dei suoi concittadini. Ma allora, cosa hanno potuto voler dire gli dei incitandovi a rendere pubblicamente omaggio a qualcuno che non è un personaggio pubblico né ambisce a diventarlo?
Poiché la mia persona non è evidentemente estranea alla difficoltà che sorge a questo punto, permettetemi di tentare un altro approccio per circoscrivere questo problema della subitanea trasformazione in una personalità grazie alla potenza innegabile, non della fama, ma del riconoscimento pubblico. Lasciate che vi ricordi in primo luogo l’origine etimologica della parola “persona”, presa a prestito quasi senza modificazioni7 dal latino persona da parte delle lingue europee, altrettanto unanimi in questo caso come nell’adozione, ad esempio, della parola “politica”, derivata dal greco polis. Non è certo un caso se una parte tanto importante della terminologia che, in tutta Europa, serve a discutere di diritto, di politica e di filosofia discende da una medesima fonte proveniente dall’Antichità. Questo vocabolario fornisce in qualche modo l’accordo base i cui molteplici armonici risonano attraverso la storia intellettuale dell’umanità occidentale.
Persona, nella fattispecie, designava in origine la maschera che copriva il viso individuale, “personale” dell’attore, e indicava allo spettatore il suo ruolo e la sua funzione nel dramma. Ma in quella maschera, il cui disegno era determinato dal dramma, al posto della bocca era praticata una larga apertura attraverso la quale poteva risonare la voce individuale e non travisata dell’attore. È a questa risonanza che la parola persona si riferisce originariamente; per-sonare, “risonare attraverso”, è il verbo di cui persona, la maschera, è il sostantivo. I romani stessi furono i primi a far uso della parola in senso metaforico; nel diritto romano, la persona designava il titolare dei diritti civili in opposizione a homo, sostantivo riservato a colui che si limitava ad appartenere alla specie umana, che è certo distinto dall’animale, ma è privato di attributi e di qualità specifiche, di modo che quest’ultima parola, al pari del greco anthropos, fu spesso adoperata con una sfumatura di disprezzo per designare individui privati di ogni protezione giuridica.
Se l’accezione latina della persona serve al mio ragionamento, è perché essa richiede l’uso figurato; ora, le metafore sono l’alimento quotidiano del pensiero concettuale. La maschera romana illustra con molta precisione la maniera in cui noi appariamo nella società, dove non siamo dei cittadini resi uguali dallo spazio pubblico istituito e riservato per la parola e l’azione politica, ma in cui siamo accolti come individui, per quello che siamo, e niente affatto come semplici esseri umani. Il nostro apparire e il nostro essere riconosciuti dagli altri su quella scena che è il mondo sono determinati dal ruolo che ci è attribuito dalla nostra professione: medici o avvocati, autori o editori, insegnanti o studenti, eccetera. È attraverso quel ruolo, “risonando”, per così dire, attraverso di esso, che si manifesta qualcosa d’altro, di tutt’affatto singolare e indefinibile, e tuttavia inequivocabilmente identificabile, tanto che nemmeno un brusco rovesciamento dei ruoli ingenera confusione (quando, ad esempio, lo studente raggiunge il suo scopo e si trasforma in insegnante, quando la padrona di casa che conosciamo nelle sue funzioni di medico serve i suoi invitati, invece di curare i suoi pazienti). Detto altrimenti, la virtù della nozione di persona per il mio discorrere dipende dal fatto che le maschere, o i ruoli, che il mondo ci assegna, e che dobbiamo accettare e addirittura apprendere a far nostre, se vogliamo in qualche modo partecipare al gioco del mondo, sono intercambiabili; non sono qualcosa di inalienabile, nel senso in cui si parla di “diritti inalienabili”, non sono per sempre connesse al nostro foro interiore, nel senso in cui la voce della coscienza, come diffusamente si crede, è qualcosa che l’animo umano porta costantemente dentro di sé.
È in questo senso che io posso risolvermi ad apparire qui come una figura pubblica, ad uso di un avvenimento a carattere pubblico. Ciò significa che dopo l’evento per cui questa maschera è stata concepita – e mi appresto a smettere di usare e abusare dei miei diritti individuali a risonare attraverso di essa – le cose torneranno in ordine. E, molto onorata da questa cerimonia di cui vi sono profondamente grata, io sarò libera non solo di cambiare i ruoli e le maschere che può offrire il gran gioco del mondo ma anche di attraversarlo della nudità della mia “ipseità” identificabile, spero, ma indefinibile, senza soccombere a quella grande tentazione del riconoscimento che, quale che sia la forma che assume, può soltanto riconoscerci quia calis aut calis, cioè come qualcosa che fondamentalmente non siamo.
NOTE
1. Private faces in public places/ Are wiser and nicer/
Than public faces in private places.” Questi versi di W. H. Auden sono
tratti da “Shorts”, in Collected Shorter Poems 1927-l957, Faber
and Faber, 1966 (N.d.T.)
2. Cfr. G.W.F. Hegel, Prefazione a Lineamenti di filosofia del diritto (tr.it.
Rusconi, Milano, 1996) (N.d.T.)
3. In tedesco nel testo (N.d.T.)
4. “All words like Peace and Love/ All sane affermative speech/ Had been
soiled, profaned. debased/ To a horrid mechanical screech”
5. Sono due versi di W. Blake: “Never seek to tell thy love! Love that
never told can be” (Manoscritto Rossetti) (N.d.T.)
6. “Willst du dein Herz mir schenken/ So fang es heimlich an”: versi
iniziali di una canzone (1725) attribuita al violista Giovannini ma compresa
come opera forse spuria fra quelle di J. S. Bach, BWV 518 (N.d.T.)
7. Evidente riferimento ai termini inglese e tedesco person come al francese
personne (N.d.T.)
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