<<Fiat, sconfitta annunciata Il gioco del mondo_Arendt 1975>>

PROPOSTE PER UNA ORGANIZZAZIONE

DELLA CULTURA MARXISTA ITALIANA


Il sommario degli errori e delle deficienze della cultura marxista in URSS, quale è stato compiuto dal XX Congresso del PCUS, ha sollecitato non pochi uomini di cultura del marxismo italiano ad un inizio di autocritica. Ma per la maggior parte di costoro si è trattato soltanto di riconoscere, non senza resistenze e ambiguità, una situazione che era già chiara da alcuni anni. Tale situazione, se in rapporto con quella della cultura marxista internazionale, ha caratteri propri al nostro paese. Vi è stata anche una via italiana degli errori socialisti. Via determinata soprattutto dalla politica dei partiti marxisti e, subordinatamente, da quella dei loro avversari.
Per quanto riguarda le esplicite menzogne, le discussioni in malafede, la mancanza di serietà e di lealtà scientifica, basta rimandare ai documenti scritti, su giornali, riviste e libri. E' questa la parte che qui ci interessa meno. E, nel nostro paese, non è stata la più importante, anche se, per quanto concerne gravi responsabilità, molto di più potrebbe e dovrebbe esser detta. Sarà relativamente facile, allo studioso, farne giustizia con il passo medesimo della propria attività. Più serie e difficili le deficienze dovute alle cose non dette, ai settori non esplorati, ai silenzi che coonestavano le falsificazioni della verità. Se dal tumulto del dopoguerra, dove si è cercato con generosa e affannosa violenza di impadronirsi della cultura antifascista italiana e straniera, si è passati ad una più acuta opera di ricerca (che in taluni settori ha dato indiscutibili risultati) questa ha avuto come contropartita, con la ripresa delle parole d’ordine dell’anticosmopolitismo e del nazional-popolare, l'arresto del contatto critico con gli sviluppi della cultura nei paesi capitalisti, il silenzio sulla storia recente del movimento marxista internazionale, la superficialità della politica delle alleanze culturali. Detto altrimenti, al regime della guerra fredda e alla politica delle due ipotesi — pace e guerra — è corrisposta una direzione culturale che oscillava fra astratto ideologismo (o conservazione dei testi) e l'accettazione di strumenti di lavoro e di comunicazione di rigorosa osservanza accademica e borghese. Un regime di doppia verità che si riassume nell'immagine dello studioso che si sarebbe sentito disonorato da una citazione imprecisa o da una bibliografia incompleta in calce ad una propria ricerca storica ma che, più o meno cosciente della sua falsità storiografica, commentava ai propri compagni di cellula il Breve Corso di Storia del P.C. (b).
A tutto questo non si rimedia con denuncie generiche né con appelli alla serietà morale. Noi stessi che parliamo abbiamo d’altronde accettata la nostra parte di corresponsabilità. Abbiamo cioè ritenuto, per alcuni anni, che la fedeltà politica ai partiti marxisti e alla causa della sinistra italiana — fossimo comunisti o socialisti o marxisti indipendenti – costituisse una delle condizioni per conferire un giusto peso ai nostri interventi o alle nostre astensioni. Non abbiamo creduto bene di salvarci l’anima scegliendo le più facili libertà che ci venivano generosamente offerte dagli avversari del socialismo. Né di questo abbiamo da menar vanto o da pentirci. Non però abbiamo creduto che si dovesse tacere; ed abbiamo parlato dovunque si poteva e doveva. Non possiamo perciò accettar lezioni, oggi, dai falsi maestri di ieri. Troppi fra costoro hanno abusato d’una condizione di ricatto obiettivo che faceva appello alla nostra coscienza politica, per usufruire di una condizione di privilegio ed imporre, con autorità che altrimenti sarebbe loro mancata, tesi, giudizi e gusti ambizioni, vanità e soperchierie.
La cultura socialista non può essere monopolio o proprietà di alcun gruppo a partito; non condizionata ad una tessera. Eredità e patrimonio indivisibile delle classi vitalmente impegnate al socialismo, coscienza del loro moto e della realtà essa si è applicata nel corso storico, da Marx a Gramsci, all’analisi delle condizioni del proprio stesso sviluppo ossia delle proprie forme organizzative. Alla critica dell’ideologia tedesca o di quella italiana dell’idealismo, del cattolicesimo e del fascismo, essa deve accompagnare la critica di sé stessa e cioè delle condizioni nelle quali si sviluppa si esprime, si comunica. Tali condizioni partecipano, pur non coincidendo, di quelle del movimento politico socialista e comunista in Italia. Per questo affermiamo che il dovere di verificare i dati e le interpretazioni del reale sui quali si fondano le tesi politiche dei partiti della sinistra italiana è di tutti i militanti, ma che un più rigoroso dovere incombe a coloro che sono più eminentemente qualificati alla ricerca scientifica e storica; sì che l’interpretazione del passato, sulla quale si fonda tanta parte dell’odierna disputa politica, non sia solo affidata ai politici ma a coloro che abbiano abito scientifico e pienezza di qualificazioni culturali. E affermiamo ancora che se v'è un modo concreto di dimostrare la volontà unitaria ed il superamento dei sentimenti di setta essa è quello di promuovere ovunque, fra gli uomini di cultura marxisti, incontri dove il comunista, il socialista e il marxista indipendente esaminino insieme le condizioni organizzative nelle quali si è svolto e si svolge il loro lavoro, discutano del funzionamento di quegli istituti culturali, organi di stampa, case editrici, circoli di cultura, ecc., la cui attività ed i cui errori interessano solidalmente tutto il movimento socialista, pronuncino proposte, diano inizio alla loro attuazione. Il primo passo per iniziare la fine concreta degli “intellettuali” come categoria o ceto separato e privilegiato è proprio nell’esame delle condizioni nelle quali si svolge il loro lavoro; non o non solamente nell’ambito della società capitalistica ma nell’ambito di quella società socialista iniziale che è rappresentata dalle organizzazioni politiche, sindacati, dai loro centri studi, riviste, istituti di cultura. Gli uomini di cultura marxisti debbono impegnarsi a non disgiungere mai una discussione, una proposta, una ricerca su di un problema generale o particolare e specifico da quella sulle forme organizzative nelle quali quel pensiero dovrà svolgersi e comunicarsi. Non si superano le deficienze della cultura marxista italiana se per ogni indagine compiuta, ogni pensiero espresso, ogni ricerca realizzata non ci si domanda entro quale sistema organizzativo della cultura socialista quell’indagine, quel pensiero, quella ricerca debbano inserirsi, come funzioni e perché quella rivista, quell’istituto, quell’organo di stampa, quella casa editrice destinata a trasmetterli. La critica delle condizioni della cultura socialista è la condizione di una cultura socialista critica. Non possono immaginarsi “garanzie” contro il ripetersi del ricatto politico ai danni della libertà critica per entro la cultura marxista, se gli uomini di questa cultura non garantiscono essi stessi le forme della sua espressione; se almeno non le conoscono e non le controllano, “strumenti di produzione”, quali esse sono, di cui debbono essere padroni.

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L’attività culturale delle sinistre, si presenta oggi, in Italia, sotto un doppio aspetto. Se per il primo è connessa con le istituzioni nazionali e internazionali del mondo borghese ed è considerata dalla cultura ufficiale come una sezione di quelle, per il secondo è anticipo in senso socialista della tendenziale coincidenza della parte con la nazione tutta. Se poniamo in evidenza questo secondo aspetto, ciò accade perché gli eventi ci sollecitano a farlo, non perché se ne dimentichi il primo.
Questa prospettiva socialista ci pone contro il liberismo culturale. La spontaneità della ricerca culturale nella società borghese è spontaneità mistificata che in realtà si adatta all’indifferenza o alla acquiescenza verso ideologie e poteri economici dominanti, e quando quella spontaneità, come oggi sempre più spesso accade, tende a pianificarsi (come avviene per determinate imprese culturali entro la società borghese, quali istituti speciali di ricerca, centri studi di industrie e di banche, ecc.) ciò avviene solo grazie al rivelarsi ed esplicitarsi di quella direzione, vale a dire mediante l’aperta sottomissione dell’intellettuale ricercatore e produttore di cultura al potere economico-politico di classe. Per questo oggi si tratta di opporre non già spontaneità a spontaneità, bensì piano a piano, organizzazione ad organizzazione.
Quale può essere il criterio di un piano della cultura socialista? Anzitutto la promozione degli studi scientifici necessari alla formazione dei quadri indispensabili all’indirizzo di una società avviata al socialismo (e non già soltanto alla funzione di guida di un partito preminente). Non può quindi essere un piano per il progresso di uno scibile indifferenziato (escluso, d’altronde, dalla nozione stessa di piano), bensì per il progresso di particolari contenuti e modi di cultura. La determinazione delle urgenze è dunque il primo compito di specialisti e di politici e qui si rivelerà in concreto la possibilità di integrazione dei due momenti: essi dovranno tener conto: a) del livello specialistico nel quale si dovrà operare; b) della circolazione attiva degli studi e ricerche (cioè della partecipazione collettiva alla ricerca). Ma una volta accettata la necessità di una pianificazione della attività culturale socialista, si può credere che questa possa essere compiuta a partire dal centro e per iniziativa dei partiti o di altre organizzazioni politiche?
Non lo crediamo. Le direzioni politiche non sono riuscite a promuovere un’autentica organizzazione della cultura. Ci troviamo ancora alle origini. Si tratta di mobilitare organicamente un numero rilevante di ricercatori e di studiosi fra cui già esistono collegamenti e contatti (spesso attraverso istituzioni statali, quali le università, i centri studi, le riviste specializzate e di categoria, ecc.), e quindi bisognerà tener conto che la grande maggioranza di quegli studiosi uscirà solo parzialmente dalle necessità e dalle consuetudini proprie al loro lavoro specialistico. Bisognerà evitare ad ogni costo che il loro contributo ad un lavoro pianificato sia qualcosa di aggiuntivo o diverso dal proprio lavoro normale; altrimenti ricadremo nell’errore tipico delle direzioni culturali, di richiedere cioè contributi più o meno estranei alla attività specifica dei singoli studiosi creando una scissione fra quelli e questa; ovvero di favorire la nascita di funzionari "culturali" (pseudo-intellettuali “organici”) nei quali il momento attivistico-politico si sviluppa a detrimento di quello specialistico, con una pubblicistica di generica sintesi. È dunque da tener conto che almeno in un primo momento, solo una minoranza delle forze culturali impiegabili sarà disposta ad organizzare il pro pria lavoro nel senso da noi proposta. Il decentramento urbano e universitario italiano tende a formare gruppi e sottogruppi spontanei; e a nostro parere, bisogna partire da questi gruppi già formati di fatto: intorno a pubblicazioni, a centri studi, a singoli docenti, dai nuclei già raccolti intorno a case editrici, a “case della cultura” ecc., ed anche da quelli che vivono nel raggio delle relazioni personali d’ogni sin gola ricercatore. Quella che cementa tali gruppi è in genere, la comunanza di determinazioni politiche più che quella di interessi specialistici. Si tratta perciò di rispettare la vitalità di tali raggruppamenti, proprio in nome della loro comunanza positiva, e insieme di favorire i collegamenti fra gli specialisti d’una medesima specialità, fra l’uno e l’altro gruppo, l’una e l’altra città.
È insomma necessario che sia i singoli ricercatori o le équipes di studiosi e di ricercatori della medesima disciplina e specialità sia quelli della disciplina e specialità analoghe elaborino progetti e piani coordinati del proprio lavoro.
E qui è opportuno tornare a precisare che una prima scelta delle specialità impegnate si compirà ad opera di quella “rilevazione delle urgenze” che la comune prospettiva politica suggerirà agli studiosi. Non si tratta insomma di negare le istituzioni esistenti, ma di costituire subito nuclei di lavoro programmato e, ove sia possibile, di équipe. Tali nuclei non possono essere esclusivi di singoli partiti, ma per la loro attività essi debbono integrare studiosi militanti nei diversi partiti del socialismo e studiosi marxisti indipendenti.
La complessità di queste proposte non ci sfugge. Sappiamo benissimo che si tratta di creare strutture culturali nuove all'interno di una società che offre le sue o collaudate da decenni di pseudospontaneità, o pianificate sotto il segno mistificato della neutralità scientifica, a quei medesimi uomini che dovrebbero mutarle a sostituirle. È ovvio, quindi, che uno dei primi compiti nostri sarà quello di studiare che cosa si è già fatto in questo senso. E cioè, anzitutto, come si sono formate, come hanno funzionato o non funzionato, le strutture culturali del mondo socialista, dall’Unione Sovietica ai paesi di democrazia popolare; quali siano le strutture organizzative della cultura negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, e di determinati istituti in altri paesi; quali, in fine, le proposte e le prospettive di singoli studiosi di questi problemi, in Italia e all’estero. È questo già un campo di studi assai vasto e tale da impegnare più di un gruppo di ricercatori specialistici.
Rifiutiamo le facili ironie di parte avversaria, che paragonando l‘ampiezza dei nostri pro grammi con limitati nostri risultati persuadono ad accettare il “sempre eguale”; o quelle, anche di parte nostra, che considerano funzione subordinata quella della strutturazione organizzativa, riservandosi l’irresponsabilità e felicità creativa: le loro menti geniali non ci interessano. Non ci proponiamo di costituire, in alcun modo, una controcultura ed una contro-organizzazione culturale affiancata a quella esistente del mondo borghese, una cultura di setta, ma solo alcuni elementi essenziali di metodi di lavoro nuovi, che siano di esperimento per coloro che dovranno poi trasformare la macchina della cultura borghesc e creare la nuova organizzazione della cultura socialista.
Non abbiamo da vergognarci dell’accusa di essere degli “estremisti culturali”; accusa che giudica, più che noi, chi ce l’ha rivolta. Non si dà cultura, cioè ricerca scienza verità se non estremista, se non persuasa della propria decisività. L’opportunismo e la diplomazia non sono né storicismo né dialettica. L’attuale brezza riformista va ripetendo: «Si studi, si lavori, si scriva; la moneta buona caccerà quella cattiva». Ma le dichiarazioni di “liberalismo culturale” che di questi tempi sentiamo frequentemente ripetere sulla stampa socialista e comunista hanno ben poco a che fare con le nostre ragioni.
Rifiutiamo la prospettiva “riformistica” che consiste nell’opporre o giustapporre libro a libro, pubblicazione a pubblicazione, cattedra a cattedra e tesi a tesi, lasciando inalterate le strutture e i metodi e fidando in una armonia superiore, che è l’armonia liberale. Il «come» per noi condiziona e determina il «che cosa».
Vi sono inoltre problemi specifici relativi a istituzioni già esistenti. Formuliamo qui alcune proposte. Anzitutto per la pubblicità dei programmi, delle responsabilità e dei finanziamenti.
lstituzioni quali l’Istituto Gramsci, il Centro di Studi Socialisti e la Fondazione Feltrinelli; riviste come Società, Critica Economica, Cronache Meridionali, Il Contemporaneo, Movimento Operaio, Rassegna Sovietica, Il Calendario del Popolo, Opinione, Ragionamenti; case editrici come le Edizioni Rinascita, le Edizioni di Cultura Sociale, gli Editori Riuniti, le Edizioni Avanti! (queste citazioni sona appena esemplificative), debbono rendere pubblici i loro programmi, almeno annualmente, e i rendiconti del lavoro compiuto e non compiuto.
Eguale pubblicità motivata dev’essere fornita a quanta riguarda il sistema di nomina delle direzioni, delle redazioni e i loro mutamenti. Ciò significa che bisogna studiare i modi della partecipazione democratica e collegiale alla determinazione di quei programmi e alla critica di quei risultati. È inaccettabile che i maggiori strumenti di analisi colturale delle sinistre socialiste sfuggano, o in senso privatistico o in senso partitario, al controllo democratico di coloro che, in quanto specialisti marxisti, sono i più direttamente interessati al loro buon funzionamento anche se non appartengono necessariamente a quella organizzazione politica che controlla eminentemente quella istituzione o quell’organo di stampa; e se non vi è controllo democratico degli specialisti marxisti a maggior ragione non ve ne sarà da parte dei non-specialisti, che non si esprimono attraverso quegli organi e istituzioni.
Per quanto riguarda, ad esempio, le case editrici, ci sembra evidente che, per tutta una larga serie di opere, le deliberazioni sulla loro traduzione e stampa non possono essere considerate come atti di un organismo meramente economico-commerciale né come espressioni dirette di un organismo politico, e che il giudizio sulla rilevanza scientifica di quelle opere, sulla diffusione ecc., non può essere considerato compito separato di altri organi (critici e recensori); l’interazione fra il primo e il secondo momento non può essere lasciata alla spontaneità, o al potere economico e politico, ma reso istituzione prima e costume poi. La pubblicazione o la non pubblicazione di certe opere, la loro diffusione o non diffusione, si copre di ragioni commerciali o politiche che è necessario portare alla luce e discutere. Si richiede dunque lo studio dei modi migliori per giungere alla pubblicità dei nomi dei consulenti e dei redattori responsabili di tali case editrici, ed eventualmente alla pubblicità e reperibilità dei loro giudizi e pareri.
Non possiamo dimenticare che una parte di responsabilità per le deficienze della cultura socialista in Italia può essere attribuita alle Case editrici. Se diverse Case editrici si servono della loro più o meno definita fisionomia politica per diffondere determinate opere lungo i canali delle organizzazioni di partito o sindacali; o se, inversamente, le dirigenze politiche influiscono sulle Case editrici per la scelta e il rifiuto di determinate opere e detengono funzioni di filtro e di controllo per quanto riguarda l’esportazione di opere italiane nel mondo socialista e viceversa – ci sembra non in utile richiedere che questi procedimenti si svolgano sotto un controllo non privatistico. La medesima cosa può dirsi per le riviste ed i periodici di cultura; e anche per quelle parti di periodici politici dedicate ad argomenti culturali.
Si può considerare l'eventualità di un controllo effettuato, ad esempio dai collaboratori, o da comitati eletti dai collaboratori; si può considerare una regolamentazione interna che imponga la pubblicazione su bollettini, o simili, dei giudizi e degli interventi di gruppi o di singoli. Anche la pubblicazione di estratti delle riunioni redazionali, su periodici di case editrici o istituti, soprattutto quando si tratti di riunioni programmatiche e che comportino mutamenti nelle composizioni direttive o redazionali, sarebbe di estrema utilità. Molto importante sarebbe altresì che ogni organismo stabilisse e rendesse note le forme e i criteri per la scelta di redattori o collaboratori. Questo sarebbe particolarmente necessarie per gli istituti ad elevata specializzazione (Istituto Gramsci, Centro Studi della CGIL, ecc.).
La qualificazione (tecnica e politica) richiesta per partecipare alla vita di questo e di quell'organismo dovrebbe essere stabilita e regolata sulla base della qualità del lavoro già svolto. Noi siamo persuasi che l’attuazione di tali pro poste avrebbe un salutare effetto su tutto lo sviluppo organizzativo della cultura socialista.
E dobbiamo considerare che tale attuazione sarebbe la pietra di paragone delle reali intenzioni democratiche di quelle istituzioni. Pensiamo che ad ogni organismo debbano essere proposte tali forme di controllo, che potranno essere liberamente accettate o respinte; ma affermiamo la necessità che gli uomini di cultura si prospettino il problema di condizionare la loro collaborazione a tali organismi alla esistenza di determinate garanzie e controlli. Nessuna collaborazione senza rappresentanza; nessuna iniziativa senza riferimento ad un piano: queste dovrebbero essere le condizioni di partenza di un’attività culturale socialista.
Occorre toccare ora un punto altrettanto importante: quello del finanziamento. Sappiamo benissimo quali ostacoli si frappongano alla pubblicità di tali dati, soprattutto quando si tratta di organismi commerciali privati, quali sono alcune case editrici. Tuttavia noi pensiamo che la pubblicità di taluni dati statistici relativi alla fonte dei finanziamenti sarebbe un importante contributo alla “legalità” socialista.
Abbiamo ben chiaro che questo problema, del finanziamento e del controllo da parte degli organismi politici e sindacali, è uno dei più gravi che si siano posti agli stati socialisti, per gli abusi e le violazioni della libertà scientifica e di studio, di stampa e di informazione che ne sono derivati. È forse indispensabile che gli organismi politici e sindacali italiani che si richiamano al socialismo costituiscano un fondo comune per finanziamenti indipendenti dal controllo politico a quel modo che i governi fanno nei confronti di istituti scientifici ecc. La casistica connessa alla risoluzione di questi problemi sarebbe un esemplare terreno sperimentale.
Le strutture organizzative della cultura socialista italiana hanno finora peccato di rigidezza (controllo di partito) e di mollezza (mancanza di coordinazione e di pianificazione); l’una non era che la faccia diversa dell’altra. Pensiamo invece che sia necessario rendersi conto che la coordinazione e la pianificazione, la regolamentazione di settori finora lasciati allo spirito di improvvisazione o alla mala copia degli esempi borghesi debbono avere come contropartita la varietà e flessibilità delle iniziative. Il momento presente richiede che si accentui, non che si diminuisca, il moto di decentramento e di autonomia delle iniziative culturali purché parallelamente si sviluppino i rapporti orizzontali, di liberi accordi e intese organizzative delle iniziative stesse. Solo così potrà risolversi la contraddizione apparente fra ricerca ad alto livello scientifico e corrente pubblicistica. Noi consideriamo che i mutamenti politici ed ideologici emersi dal XX Congresso PCUS ed i loro riflessi nei partiti comunisti e socialisti e soprattutto tutta la nuova tematica che si venuta sviluppando in questi ultimi tempi siano una soluzione di continuità, un intervallo fra il passato e l’avvenire; ovvero che per ogni militante si ponga il problema di un riesame critico delle proprie posizioni politiche, ideologiche e culturali. Per questo riteniamo che sia funzionale l’autonomia organizzativa della cultura rispetto a questo o a quel partito o organismo della sinistra italiana, persuasi che solo così sia possibile disegnare un riordinamento efficiente e rapido delle strutture organizzative della cultura socialista nel quadro del “blocco storico” del movimento operaio.
Affermiamo che il primo atto da compiere a questo fine sia che ovunque gli uomini di cultura comunisti, socialisti e marxisti indipendenti si incontrino per discutere della organizzazione dei loro strumenti di cultura. Vorremmo fraternamente persuadere i nostri compagni che il rifiuto a questa discussione comune e l’anteporre la sovranità di partito a quella più ampia della classe e della causa può rischiare di trasformarsi in obiettiva opera di divisione delle forze socialiste.
Persuasi dell’importanza di queste esigenze per un rinnovamento della cultura socialista, il presente documento si offre come proposta e contributo, anche nell’imminenza degli annunciati congressi del PSI e del PCI, per l’elaborazione di queste tesi di modifica delle norme statutarie degli organismi esistenti che ancora vincolano e non promuovono un reale sviluppo culturale.
In sintesi, proponiamo: a) una revisione pubblica dell’attuale sistema di organizzazione e diffusione della cultura socialista in Italia; b) una serie di discussioni pubbliche, con riunioni, convegni o altri mezzi, sui contenuti di un “piano” culturale socialista in Italia; c) la costituzione di centri socialisti, autonomi ed autocontrollati di indagine e verifica politica, economica, sociale, che possano usufruire degli strumenti di riunione, dei canali d’informazione, dei vari tipi di contatti e rapporti e delle varie forme di trasmissione e comunicazione culturale, necessari al loro pieno funzionamento.

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Ma si badi: il porre il problema dell’organizzazione della cultura a livello specialistico non vuol significare affatto il porre il problema della cultura come problema degli “intellettuali". Anzi, affrontare il tema dell’organizzazione della cultura specialistica in modo esplicito e dettagliato è a nostro avviso il primo passo per negare l’esistenza di un problema generico degli intellettuali. Gli specialisti sono lavoratori come gli altri, che si qualificano per la particolare competenza della loro attività e non già per l’appartenenza ad una classe speciale.
Quello che bisogna superare è proprio il carattere di classe e di categoria particolare degli intellettuali, carattere ancora presente in URSS nel periodo staliniano dove, pur sotto l’immagine delle alleanze fraterne, veniva ancora ammessa l’esistenza di tre classi distinte: degli operai, dei contadini e degli intellettuali.
Il carattere di classe dell’intellighenzia è a nostro avviso, all’origine dei maggiori vizi sostanziali e non solo formali dell’esperienza culturale staliniane. Ponendosi come gruppo distinto l’intellighenzia marxista si trovava di fatto in una situazione paradossale per le seguenti ragioni:

1) La sue zone di attività si collocava immediatamente sotto le alte dirigenze politiche e immediatamente sopra la classe operaia e contadina. Questa collocazione era motivata da due postulati:
a) che la funzione politica fosse già di per sé sintesi della funzione politica e di quella culturale, per cui le istituzioni specificatamente culturali non potessero essere che sottocommissioni politiche speciali. Sfuggiva qui completamente che tale sintesi era un fine da conseguire, e la si dava sempre ed in ogni momento per avvenuta;
b) che la capacità direttamente creativa delle masse fosse ancora insufficiente, per cui il loro potere politico e culturale dovesse essere ancora delegato sia agli alti organismi direzionali, sia agli alti organismi culturali.

2) Ne discendeva che l’intellighenzia, vivendo all’ombra della cattedrale del centralismo politico, non poteva né dialettizzare con gli estremi vertici cui era sottoposta, né conricercare, in collaborazione con le masse, nuove vie, essendo ad esse sovrapposta proprio perché partecipava del carattere autoritario dei vertici. La funzione dell’intellighenzia veniva così a ridursi da un lato alla conferma o ripetitiva o elogiativa del potere politico dei vertici stessi e dall’altro alla trasmissione, in veste culturale, delle idee de quel tipo di potere andava via via esprimendo.
È inutile insistere qui sul fatto che il potere politico ricambiava largamente tale servizio con particolari privilegi economici e di prestigio concessi agli intellettuali, i quali finivano per addormentarsi (e talvolta persino dell’ultimo sonno, grazie a qualche convulsione della classe politica), niente affatto scossi dalle prediche periodicamente fatte alla loro inefficienza proprio da coloro che quella inefficienza chiedevano continuamente come condizione per la permanenza degli intellettuali nella “classe speciale” e silenziosa.

3) Mentre dunque l’intellighenzia dichiarava di adempiere ad una funzione pedagogico-maieutica verso la classe operaia e contadina perché questa riuscisse a raggiungere il livello della piena facoltà e partecipazione culturale, di fatto tale divisione perpetuava e confermava, creando una barriera di definizioni e di indirizzi dall’alto là dove invece occorreva, in modo sempre più drammatico, una autentica esplicitazione delle potenzialità dal basso.
Da noi, pur in un paese dominato dal capitalismo, all’interno degli organismi politici della classe operaia si riproduceva e rispecchiava lo schema staliniano, e anche qui una analoga impostazione produceva le stesse inefficienze e gli stessi vizi. Nella nostra situazione gli intellettuali, anziché essere legati al ciclo organico del movimento operaio, venivano raccolti nelle commissioni culturali, cioè in zone particolari dei partiti, in cui da un lato ricevevano “all’interno” indirizzi dall’alto e li ritrasmettevano con il peso della loro autorità, e dall’altro venivano mobilitati “verso l’esterno” per una politica di alleanza nei confronti del ceto medio intellettuale. In questi due aspetti, estranei a un autentico contributo scientifico e a una reale partecipazione al lavoro delle masse, si esauriva la maggior parte dei loro impegni.
A noi invece sembra ormai chiaro che i compiti della cultura siano ben più vasti e profondi tanto che alla verifica scientifica si debba affidare non solo lo studio delle forme organizzative di se stessa, ma anche l’analisi di quelle proprie alla organizzazione politica, mentre questa, senza interrompersi, continua a muoversi, a produrre, a determinare.
Se, insomma, una collocazione errata della funzione culturale era strumento indispensabile di un funzionamento politico accentrato, autoritario, acritico, che oggi si respinge, rimuovere questo strumento, tradurlo nel suo contrario può essere una delle leve e delle chiavi fondamentali di apertura della situazione. Alla dimensione culturale, ben al di là dei suoi interessi o confermativi o esornativi, attribuiamo il compito della libertà di critica, della libertà di proposta, della libertà delle opinioni plurime, contemporanee ad una linea politica comune accettata a maggioranza. Se affidiamo dunque alla dimensione culturale la responsabilità di mediare la necessità della pianificazione o linea generale con l’esprimersi libero delle correnti di pensiero che quella stessa pianificazione o linea sottopongano continuamente a critica e quindi a perfezionamento, ci rendiamo conto che, proprio nell’epoca moderna, con la vastità dell’orizzonte da dominare e con la estrema difficoltà della macchina organizzativo-politica, la cultura viene ad assumere un significato ed un peso assolutamente nuovi nella concezione marxistica.
Quale si pro fila dunque essere il compito generale degli specialisti culturali delle varie materie all’interno dello Stato socialista e quello dei movimenti operai nei paesi ancora capitalistici?
Le risposte a questi interrogativi sono certamente diverse, perché sono diverse le condizioni oggettive dei due casi. Tuttavia ci sembra che una corrispondenza sia implicita tra l’aspetto costruttivo negli Stati socialisti e l’aspetto di anticipazione rappresentato dai movimenti operai nei paesi capitalistici, volta a conferire un carattere egemonico alle loro iniziative di lotta.
Il compito degli specialisti culturali è allora quello di distruggere la funzione culturale come attribuzione di una classe speciale per estendere quella funzione a tutta il corpo dello Stato e del movimento operaio e contadino, e consentire così il superamento della fase politica accentratoria-burocratica verso una fase politica realmente democratica.
Perduto il suo potere mediato (cioè mutuato agli organi politici centrali e supremi) dove e come potrà lavorare lo specialista?
Divenendo lavoratore tra gli altri dovrà rispondere della sua ricerca e della sua opera non più dinanzi agli organismi direttivi politici, ma in base alle esigenze e ai risultati di una verifica sociale. La ricerca dello specialista non potrà più essere determinata da una prestabilita linea dall’alto, ma determinata dalle esigenze dal basso. Così lo storico anziché collaborare ai falsi del “Breve corso” o con fermarlo, sarà a disposizione di tutta la nazione o di tutto il movimento che vuol conoscere, capire, scrivere la propria storia reale, dove di ogni vicenda particolare sia tenuto conto nella vicenda generale e viceversa. Il cittadino sovietico o l’operaio organizzato nei movimenti operai socialisti ha diritto di scrivere e non solo di leggere la propria storia e la propria verità, ha diritto di collaborare insieme allo specialista, che gli offre i metodi e le possibilità di tale collaborazione, piuttosto che riceverne la propria immagine deformata; ha diritto di essere un fornitore diretto di dati primi e autentici di cui si tenga conto nel piano e nell’indirizzo generale, anziché essere costretto a modificarsi e adattarsi secondo le formule generali che gli vengono dalle decisioni autoritarie.
Là dove è l'origine delle affermazioni, delle richieste, dei bisogni, deve essere lo specialista; e non già là dove si conferma, dove si conosce in modo estremamente mediato, dove si lavora unicamente alle conclusioni. È proprio dal rapporto fra lo specialista (economista, sociologo, indagatore in genere) con le masse – rapporto non romantico né “gratificante”, bensì semplicemente di informazione e di osservazione, di scambio e quindi di compartecipazione di esperienze e conoscenze – che debbono nascere i temi e contenuti particolari delle ricerche.
Nulla di straordinario o irrealizzabile: semplicemente dei centri di studio, dove non soltanto si pianifichi e si divida il lavoro di ricerca, bensì ci si tenga in continuo e sistematico contatto operativo – di raccolta e di diffusione di conoscenze – con tutto ciò che forma la vita e il lavoro, organizzato e quotidiano, delle masse.
Chi propone oggi una nuova organizzazione della cultura in questo senso non tende affatto a staccarsi dalla realtà. È l'intellettuale autocraticamente partitario che, ancora legato alla sua posizione di appartenente “speciale” (e non già, per questo, autentico “specialista”) alla categoria degli intellettuali, si è staccato dalla base e non ha saputo darle più nulla. L’intellettuale organico di oggi non può essere più, nella complessità del lavoro, “politico + specialista”: intellettuale organico è lo specialista libero da vincoli strettamente partitari, ma non dai vincoli classisti che determinano il suo indirizzo di lavoro mentre conduce la ricerca legato alla realtà dove essa matura via via nuove forme di vita associata (nelle fabbriche, nei quartieri, nei paesi).
Se oggi dunque poniamo come essenziale l’organizzazione ed il collegamento degli specialisti, ciò è perché consideriamo questo un primo momento che consentirà di passare ai nuovi e più ampi compiti sopra enunciati. Ed anche per la constatazione che, così come stanno ora le cose, i veri specialisti nelle organizzazioni di sinistra, cioè gli economisti degli uffici studi, sindacali, o altri, che predicano un autentico rapporto con i lavoratori, sono impotenti nei confronti delle alte dirigenze della politica. Riconosciuti sì, come “valenti studiosi”, le loro impostazioni o previsioni, i loro suggerimenti vengono scartati, le loro “relazioni” messe nei cassetti, seppure non postillate con sarcasmo.
Concludendo pensiamo che oggi la partecipazione politica non potrà più essere quella generica e senza effettive possibilità, cioè senza che le proposte o gli scontenti riescano a farsi decisione tecnica (con ciò dovendo ricadere nell'accettazione del governo dall’alto), ma dovrà essere scientifica, attraverso una complessa rete di indagini e di elaborazioni a tutti i livelli che consentano alla classe operaia e contadina di tendere all’autogoverno e di liberarsi dalla alienazione burocratica.

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Se di una conferma le nostre tesi avessero avuto bisogno, essa ci è stata offerta dal modo con il quale è stata condotta e sviluppata all'interno dei partiti marxisti italiani la discussione sui temi che il XX Congresso sovietico, interpretando gli ultimi anni di storia mondiale, ha proposto alla coscienza socialista. Con alcune rare eccezioni, quanto più alta era la responsabilità politica degli interventi, tanto minore è stata la lealtà polemica e la chiarezza storica e ideologica e tanto maggiore la volontà di amplificare le proprie opinioni con la risonanza di una autorità messa in forse dalla stessa tematica, dalla problematica stessa della discussione; per tacere poi delle numerose galline che, passata la tempesta, sono tornate sulla via a ripetere il loro verso. Si può dire che oggi, alla vigilia di congressi e di decisioni molto importanti per l’avvenire socialista italiano non si levino dalla confusione, dalla genericità e dall’assenza di autentiche autocritiche se non poche voci, armate più di onestà che di autorità, mentre paiono trionfare le procedure autoritative e grossolanamente intimidatorie, di chi non ammette nessuna discussione di fondo su di una linea politica, che è stata anche una linea ideologica e culturale; o le operazioni diplomatiche d’un sempre risorgente mandarinato socialista.
Coloro stessi che negli anni passati erano pronti a tacitare in nome dell’unità del movimento operaio e della classe ogni istanza di discussione e di ripensamento, rischiano oggi di approfondire i solchi esistenti o di scavarne di nuovi, giocando con la memoria propria ed altrui per difendere, se non posizioni personali e di frazione, almeno diritti feudali e cosmogonie di partito. A costoro noi replichiamo che le nostre posizioni e istanze, precisamente inquadrando il loro particolare nelle prospettive generali, postulano le prime garanzie per l’unione e l’unità di tutte le forze che si richiamano al socialismo e al marxismo; unità che si attua anche nella collaborazione organica di comunisti, di socialisti e di marxisti indipendenti ad una ricerca scientifica, storica, filosofica, economica, e nello studio della sua elaborazione e circolazione ad opera di ogni settore e livello della classe. La costituzione di una cultura socialista esige una collaborazione unitaria che, oggi autonoma dai partiti, anche ai partiti contribuisca; ma esige altrettanto una coordinazione degli sforzi e delle indagini che non sia determinata da mistiche autosufficienze di drappelli o di bandiere e sia invece determinante indispensabile ad interpretare e dirigere il movimento della società italiana verso l'ordine socialista.

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Questo testo, dovuto all’iniziativa e alla stesura dei redattori di «Ragionamenti», il risultato d’una elaborazione collettiva cui hanno contribuito numerosi uomini di cultura, comunisti, socialisti e marxisti indipendenti. I redattori di «Ragionamenti» terranno conto delle adesioni, dei consensi e delle critiche; ripromettendosi di sviluppare in altra occasione temi e spunti qui sommariamente accennati. Il presente testo viene stampato come supplemento al n. 5-6 del periodico, perché la sua forma e il suo fine non debbono essere identificati con la forma ed il fine più specifico e particolare che «Ragionamenti», come luogo di studi specialistici si è proposto di perseguire.

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