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Settembre, '88

Marx/Bakunin

L'articolo di Clark è interessante perché, come Clark dice, il pensiero di Bakunin, ed in generale dell'anarchismo hanno trovato una nuova vitalità nei riferimenti culturali dei movimenti sociali dei nostri giorni. E ciò a prescindere dalla polemica fra Marx e Bakunin di oltre un secolo fa.
Mi sembra che nell'articolo di Clark si possono prendere in considerazione alcuni temi fondamentali.

1) Idealismo e materialismo. Sostiene Clark (p.30 I col.): "la visione bakuniniana della realtà ... è completamente materialista" ed in ciò non si differenzierebbe dalla visione marxista della realtà. Cerchiamo di vedere che cosa significa ciò in relazione al materialismo o idealismo che caratterizzano i riferimenti culturali di molti movimenti sociali dei nostri giorni.
Partiamo dalla critica di fondo di Bakunin a Marx (p.30 II col.): la critica al determinismo economico. Diversamente da Clark, io penso che l'interpretazione dei testi e della pratica politica di Marx nel loro complesso, non autorizza a ritenere che Marx (altro è il discorso per "certi marxisti") pensasse che una realtà economica che si sviluppa meccanicamente al di fuori della coscienza degli uomini, produca meccanicamente questa coscienza e così le forme politiche dell'agire umano. A mio parere Marx pensava che la realtà economica fosse il prodotto di un'azione cosciente dell'uomo. Dunque che non si può parlare di determinismo economico. Certo è che Marx pensava che l'oggetto essenziale della coscienza umana era ed è la natura nella sua inviolabile materialità e specificamente il problema della manipolazione della natura per la sopravvivenza dell'umanità stessa. Che le possibilità di questa trasformazione sono innanzitutto date storicamente (le forze produttive) e poi modificabili nel rispetto delle leggi oggettive della natura. Infine che i rapporti di produzione si costituiscono storicamente in relazione all'impiego più efficace delle forze produttive e che le istituzioni politiche non sono altro che la proiezione ideologica (in senso negativo) di questi rapporti di produzione. Volendo si potrebbe perciò dire che l'"economia" (per Marx) "determina" l'orizzonte essenziale della coscienza dell'uomo, benché sia l'azione cosciente dell'uomo a trasformare questa "economia" e non viceversa.
Ed in ciò sta l'essenziale del materialismo di Marx. Senza bisogno di attribuire a Marx, perciò, un "determinismo economico" inesistente (ripeto che altro è il discorso per "certi marxisti"), si può vedere chiaramente la differenza da Bakunin. Clark attribuisce a Bakunin il merito di una visione più larga di quella di Marx, poiché Bakunin ha affermato che l'orizzonte della coscienza umana avrebbe ad oggetto temi più vasti di quello economico (la produzione) e precisamente quelli della realizzazione della "libertà e della collettività", temi che potrebbero entrare addirittura in contraddizione con quelli dello "sviluppo economico". Ma la lotta per la libertà (e per tutti quei valori che vi sono connessi) implica che l'uomo viva in una società non libera. La società non libera sarebbe la società storica, società statuale o organizzata politicamente, contrapposta alla sola società qualitativamente diversa: la società primitiva con il suo schema culturale di organizzazione (nota 8 a p.37/38). Clark sviluppando il pensiero di Bakunin, afferma poi (nota citata) che la società primitiva è la società dell'abbondanza, e perciò una società essenzialmente egualitaria in cui gli uomini sono padroni della loro attività, padroni della circolazione dei prodotti di questa attività (citazioni in parte di Sahlins e Clastres), insomma una ocietà libera. Anche ammessa, a puro titolo di ipotesi, la validità di questa rinnovata immagine del "paradiso perduto", si presenta questo problema fondamentale - problema decisivo per capire che cosa voglia dire oggi lotta per la libertà - : da dove proviene il decadimento della primitiva società libera, nella società storica, statuale, politicamente organizzata, caratterizzata dal dominio? Qual è il "peccato originale", secondo Bakunin e Clark? Per Marx la società primitiva è indigente, caratterizzata probabilmente da una sorta di comunismo primitivo fondato su risorse estremamente scarse (ed è questo il suo "peccato originale"). è la necessità di sviluppare le forze produttive che fa evolvere i rapporti di produzione e con essi le istituzioni politiche. Questa è una spiegazione materialista ed intelleggibile proprio perché materialista. Ma, ammessa la ipotesi bakuniniana (o almeno quella ipotesi che oggi Clark fa propria) del "paradiso perduto", come spiegare che un uomo dotato di un orizzonte di coscienza più vasto di quello economico e dominato dal bisogno di libertà, abbia prodotto le società storiche caratterizzate dal "dominio"? Non esiste altra soluzione che quella di ammettere che nello stesso uomo dotato di un così vasto e nobile orizzonte di bisogni (addirittura prevalenti sui bisogni di beni materiali), ci sia una possibilità di volontà perversa: quella di dominare i suoi consimili. I quali, dominati, diverrebbero così gli unici depositari della volontà buona, quella non più di libertà, ma, ahimè, solo di liberazione. Per Marx lo sviluppo delle forze produttive, rende i rapporti di produzione capitalistici obsoleti ed anzi ostacolo alle forze produttive stesse ed apre perciò la via alla società comunista ed alla estinzione dello Stato ecc. Una spiegazione materialista e perciò comprensibile. Che dire della prospettiva che Bakunin/Clark hanno dinnanzi? Il prevalere della volontà buona su quella cattiva dovrebbe in sostanza restaurare nei suoi fondamenti il comunismo primitivo, anche al prezzo della rinuncia alla crescita della disponibilità dei beni materiali. Ma come pervenire a questa prevalenza della volontà buona se non attraverso la conversione delle coscienze opache dei dominati e l'estirpazione dei perversi dominanti? Dove stia il materialismo di una tale concezione è difficile dire. Ma io dico che è anche difficile dire dove si trovi la sua intelleggibilità. E, per verificarlo, torniamo ai nostri giorni.
Vasti movimenti sociali ai nostri giorni sono percorsi dalla cosiddetta polemica contro la "modernità". La "modernità" oggetto della polemica è costituita per l'essenziale dalla cultura europea dall'Illuminismo ad oggi, sia nelle sue componenti conservatrici (la cultura della borghesia) che nelle sue componenti rivoluzionarie (specialmente di ispirazione marxista). La polemica contesta in primo luogo il modello "produttivistico" da cui tutta questa cultura nel suo insieme sarebbe marcata. Il modello produttivistico sarebbe responsabile, in tutte le sue versioni, della repressione dei più autentici bisogni umani e sarebbe responsabile pertanto, in tutte le sue versioni, di una mostruosa società ultra-accentrata, massificata e sommamente illiberale, nella quale non vi sarebbe più spazio per la fantasia, la gioia, il gioco, l'uomo essendo per intero, fino nel più intimo recondito della sua personalità, asservito all'idolo della produzione di beni materiali. Non è difficile vedere le analogie di questa polemica con la polemica bakuniniana, fatta propria da Clark (e non solo da lui, naturalmente) contro la società statuale, organizzata politicamente, condizionata dalla adozione di tecnologie implicanti il massimo di concentrazione del "dominio" (su questo ultimo punto tornerò in seguito), ecc. Sul terreno più raffinatamente filosofico questa polemica si fa carico di un attacco (desunto anche da non nuovissime filosofie del "tramonto" dell' Occidente) contro la "soggettività" illuministica, borghese, e, perché no, marxista, che starebbe alla base di tutti i meccanismi di utorepressione dell'uomo "moderno" e che sarebbe elemento essenziale del modello produttivistico. Questo ultimo aspetto della polemica non sembra più facilmente assimilabile al bakuninismo e all'anarchismo classico, che invece hanno sempre valorizzato la "soggettività" umana. Ma come vedremo in verità questo contrasto non è poi in definitiva così grande. Oggi, più esplicitamente di ieri, queste correnti culturali che riflettono ed influenzano concreti movimenti sociali di notevole importanza, esigono la pura e semplice abolizione della dialettica uomo/natura in nome della esaltazione della pura "naturalità" dell'uomo liberato da una diabolica trinità spirito/soggetto/cultura che sarebbe il fondamento della più crudele delle alienazioni, oltre che padre e madre della gerarchia di fabbrica, della polizia, dei manicomi, e del perverso asservimento della vita alla tecnica. In genere la polemica antimodernista si concentra sulla civilizzazione europea occidentale degli ultimi due secoli, ma non mancano puntate più indietro.
Ora quello che mi interessa sottolineare è che la impostazione strettamente idealistica di questa cultura dei movimenti, rende perfettamente inintelleggibile quella che potremmo chiamare la loro "strategia di lotta". Per sapere come lottare e per che cosa, è necessario farsi un'idea del come mai ci troviamo nella situazione in cui ci troviamo. Non ripeterò l'analisi materialista del marxismo. Basta ricordare che per il marxismo è perfettamente comprensibile che l'umanità si sia materialmente confrontata col problema della sua materiale sopravvivenza e che con un tale problema continui a confrontarsi (qualsiasi lettore di quotidiani dovrebbe esserne al corrente). E che le forme di questo confronto implicanti aspetti via via storicamente desueti e contraddittori (dei quali fa parte l'asservimento del proletariato e tutto quanto vi è connesso), possono essere superate solo in avanti (per così dire), cioè appropriandosi di tutto ciò che è positivo nel passato (di cui fa parte lo sviluppo delle forze produttive) ed instaurando rapporti di produzione nuovi in una società di liberi produttori associati, nella società comunista. E non indietro, cioè bloccando lo sviluppo delle forze produttive o addirittura facendolo arretrare. Sulla questione dei "fini" tornerò al punto seguente. Quello che ora mi preme sottolineare è che, quale che sia il "valore dei fini", questa cultura postmoderna non può esimersi dal porre all'origine del decadimento nella società moderna una "naturalmente" perversa tendenza insita nello stesso uomo, pur tanto bisognoso di realizzarsi nella sua libera naturalità. Cioè con un assunto strettamente idealistico, perfettamente inintelleggibile, come risulterebbe perfettamente inintelleggibile il come del realizzarsi della "strategia di lotta" contro questa componente naturalmente perversa dell'uomo. Se non con una sorta di predicazione (non di propaganda e agitazione, attività che comportano "soggettività", disciplina, azione ecc.) o di presentazione come aristocratico esempio di personalità depurate dal vizio assurdo della soggettività e del produttivismo. L'efficacia di una tale "strategia" si lascia facilmente immaginare da sola, anche perché non manca di precedenti. Certo è - e questo è forse il punto essenziale - che in momenti di difficoltà e riflusso delle lotte del proletariato, la tendenza del singolo a rinchiudersi romanticamente (il "romanticismo" non è una novità) in se stesso ed a fare "movimento" di autodifesa con i suoi simili, è molto forte. è questo forse uno degli aspetti della realtà dei movimenti sociali negli USA ed in Europa Occidentale, al quale stiamo assistendo.
Ma vediamo cosa si può trarre e dire dalla considerazione degli obbiettivi che Clark/Bakunin si propongono.

2) La questione dei fini. Clark ricorda che, contrariamente a Marx che vedrebbe "l'attività produttiva come la realizzazione principale del futuro essere umano comunista", per Bakunin "il socialista (libertario) si appropria del suo diritto concreto alla vita e a tutti i suoi piaceri sia intellettuali che fisici o morali. Gli piace la vita e intende godersela appieno" (p.32 II col. e p.33 I col.). Sono certo che tutti potranno riconoscere la parentela del discorso bakuniniano con molti slogans correnti nei movimenti di oggi ("prendersi la vita", "lavoro zero" ecc.). Nessuno può negare (e Clark non lo fa) che per Marx l'obbiettivo della società comunista è il soddisfacimento dei bisogni di carattere superiore e sempre più sofisticati dell'uomo, attraverso la produzione di beni materiali ed immateriali in forma non più di merci ma di immediati valori d'uso. Clark e i bakuniniani obbiettano che tale fine sarebbe irraggiungibile perché la produzione a questo alto livello implicherebbe di necessità una società dispotica, nella quale il bisogno fondamentale di libertà verrebbe per primo frustrato. è implicito che per salvaguardare la libertà dell'uomo sarebbe, dal loro punto di vista, necessario rinunciare alla disponibilità di beni sia materiali ssia immateriali inesistenti in natura e che perciò debbono essere prodotti in modo sempre più complesso quanto questi stessi beni sono più complessi. Viene qui in questione la stessa concezione di libertà dell'uomo. In generale, per un marxista, la libertà per l'uomo di esercitare le sue facoltà più elevate e di godere della vita dipende essenzialmente dalla sua possibilità di liberarsi dai bisogni più elementari, per procurarsi i mezzi di soddisfacimento dei bisogni più sofisticati. L'uomo meno libero è quello che deve lottare per la sopravvivenza quotidiana; ed, in tal senso, per un marxista non vi è mai stato un uomo meno libero dell'uomo primitivo.
Il fine che ci indica Clark e che anima molti movimenti sociali dei nostri giorni, è quello di ritornare ad una economia di sussistenza ed al soddisfacimento dei soli bisogni materiali più elementari. In una condizione del genere io credo che sarebbe più giusto parlare di una condizione dominata dallo stato di necessità e non di libertà. Oggi qualcuno dei movimenti guarda al modello dell'economia artigianale, qualcuno alla società feudale, qualcuno guarda più indietro ancora all'uomo primitivo.
Come mai questa apparente stranezza di proporre il passato come modello del futuro? Le spiegazioni devono per forza essere diverse per Bakunin e per Clark. A mio parere le spiegazioni sono queste. Per Bakunin (come del resto ai suoi tempi era già stato detto) si trattò di una reazione al capitalismo da parte dei ceti di artigiani e contadini piccoli proprietari che tentavano di resistere al processo di proletarizzazione per conservare la loro autonomia relativamente privilegiata di un passato abbastanza recente che, comunque, non aveva nulla a che fare con l'uomo primitivo dell'età della pietra. Una tale spiegazione non può valere per Clark e per i movimenti sociali dei nostri giorni. L'impetuoso sviluppo economico nei paesi capitalisti del secondo dopoguerra, aveva fatto nascere il mito della società capitalistica avviata verso l'"opulenza", ed aveva scatenato un'ondata di "consumismo" febbrile in tutte le classi sociali, compreso il proletariato. La immagine dell'Unione Sovietica era brillante. Si diffuse l'idea che ancora maggior benessere, in termini di beni prodotti di ogni genere, specialmente se si passava dal capitalismo al socialismo, era concretamente sperabile per le grandi masse proletarie. La doccia fredda dei decenni della seconda metà del secolo ha creato un grande disorientamento. La crisi profonda in cui il capitalismo si trova dalla fine degli anni '60, ha ridotto di molto e drasticamente l'aria del benessere generale nel mondo capitalistico. Il tracollo dei miti del socialismo reale ha fatto cadere il modello di futuro semplicisticamente coltivato a livello di massa, dando (io dico: apparentemente, e su questo tornerò in seguito) ragione alle peggiori previsioni bakuniniane sulle possibili conseguenze di un "socialismo statalista" di ispirazione marxista.
Di fronte alla caduta di concrete speranze di elevazione del livello di consumo di massa in vista dello innalzamento della qualità oltre che della quantità dei bisogni da soddisfare, ha indotto una sorta di sindrome di disperazione in mezzo a vasti strati popolari e specialmente fra i giovani che vedevano (e vedono) davanti a sé un futuro sempre più oscuro. Da ciò l'inalberare parole d'ordine di "NO FUTURE" e il ritirarsi "romanticamente" nella dimensione del privato, sia dal punto di vista economico (sviluppo del bricolage artigianale nel ghetto, ricorso all'assistenza pubblica in forma stabile ed istituzionalizzata), che dal punto di vista culturale (sviluppo di "libertà" di espressione e di rapporti interpersonali, che non costano niente né agli utenti né al capitale, di livello qualitativo e quantitativo infimi). Da ciò anche l'atteggiarsi dei movimenti sociali a strumenti di difesa (no a questo e a quello) del privato dei loro militanti. Tutti i filoni culturali "antimodernisti" hanno trovato ampia eco ed amplificazione in questa situazione, ivi compreso Bakunin e l'anarchismo tradizionale. Il disgusto del presente e la sfiducia nel futuro hanno dato dignità culturale al richiamo di un passato in gran parte mitico, allo scopo di giustificare il ripiegamento, nel presente, (il romanticismo è per definizione passatista). La rinascita del fondamentalismo religioso ha accompagnato la cultura postmodernista e gli integralisti cattolici e protestanti sognano il medioevo. Le femministe la società dell'età della pietra. I postmodernisti più moderati e prudenti suggeriscono di tornare almeno alla rivoluzione francese (liberté, égalité, fraternité) ecc. Fa una grande impressione vedere autorevoli uomini di potere della società borghese, suggerire come una avanzata soluzione culturale ai giovani e non giovani, emarginati e materialmente impoveriti, di rinchiudersi nel ghetto della autosufficienza moderatamente assistita e nei "sani" piaceri delle feste sull'erba e dell'erba e di una sessualità a buon mercato.
Spesso questa controrivoluzione culturale, rievocando le tematiche dei progenitori del postmoderno (es. De Sade) o facendo proprie quelle dei suoi più conseguenti sostenitori contemporanei (es. Bataille) giunge coerentemente alla inevitabile conclusione che l'idealistica distinzione fra una volontà buona ed una volontà perversa non può essere fatta (e certo -idealisticamente- questa distinzione non può essere fatta) e che perciò anche la volontà di dominio di alcuni su altri fa parte di una naturalità dell'uomo che non si può giudicare. Al massimo difendersene, se non rispondere occhio per occhio. (vedi il fenomeno di bande di huligani di ogni tipo). La pretesa di superare idealisticamente la soggettività illuministico-borghese, che, come abbiamo visto, dovrebbe segnare uno spartiacque nei confronti dell'anarchismo tradizionale (bakuniniano), rivela tutta la sua vanità in un quadro sociale degradato, in cui alla comunicazione intersoggettiva (non "soggettiva" in senso borghese), che in embrione appare realmente solo nella solidarietà di classe, si riduce ad una comunicazione povera di contenuti fra "soggetti" borghesi in tutto, meno che nella loro indigenza materiale. Così in effetti, questo spartiacque fra l'individualismo dell'anarchismo tradizionale, ed un presunto ideale comunicativo extrasoggettivo, nei fatti non trova neppure modo di iniziare ad esistere.

3) Lo Stato - il partito e l'avanguardia rivoluzionaria. è pacificamente ammesso che Marx intendeva per società comunista, una società nella quale lo Stato fosse estinto. Tuttavia egli sostenne (e con lui i comunisti marxisti, in modo principale Lenin) che per arrivare alla società comunista bisognava passare per una fase intermedia nella quale il proletariato si servisse dello Stato per l'esercizio della sua dittatura sulla borghesia sconfitta, ma non scomparsa né domata. Bakunin/Clark è proprio questo che contestano: che il proletariato possa fare uso dello Stato per promuovere la transizione al comunismo. A loro parere (e naturalmente non solo a loro parere) lo Stato è, e non può essere altro, che lo strumento di dominio di una classe particolare: la burocrazia. Essi sostengono che lo Stato si rende necessario in una società produttivistica, altamente tecnologizzata, nella quale perfino il dominio della borghesia si rivela insufficiente allo sviluppo del capitalismo. Essi, di contro, pongono come immediato obbiettivo una società "federata", non statuale e sottolineano -giustamente- che questo obbiettivo è differente anche da quello definito da Marx come "società comunista", nella quale i singoli e i singoli gruppi non sarebbero "federati", ma per così dire, "fusi", in cui l'attività individuale diventerebbe completamente sociale (p.32 II col.). La tesi anarchica è giustificata dalla assunzione che in ogni caso, in qualsiasi fase, non è concepibile una avanguardia politica dirigente che operi nel senso della transizione alla società comunista (nella quale evidentemente essa non avrebbe più alcun ruolo), e perciò come non è concepibile uno Stato in transizione verso il comunismo, così non è neppure concepibile un partito (come espressione di una simile avanguardia) che guidi la classe fino alla realizzazione della società comunista. E ciò perché qualsiasi gruppo dirigente non può mancare di cedere alla tentazione di costituirsi in classe dominante (p.35 I col.).
Questa affermazione è gravida di implicazioni e conseguenze, a prescindere dalle considerazioni che si possono fare (e che Clark fa) sulla paradossale facilità con cui nel passato (ed anche ai tempi di Bakunin) le organizzazioni libertarie si sono trasformate in organizzazioni altamente autoritarie (nota 18 a p.38). Vediamo quali possono essere queste implicazioni e conseguenze.
La fondamentale implicazione è che (per quanto ciò possa apparire paradossale) la volontà dell'uomo, nella sua naturalità, è essenzialmente perversa. Tolto infatti dal controllo dei consociati e messo in condizioni di dominare, egli inevitabilmente diverrà "dominatore". Così da una idealistica esigenza di distinguere una volontà buona da una volontà perversa, attraverso la coerente conclusione che idealisticamente non si può giungere alla distinzione fra volontà buona e volontà perversa, si giunge alla ulteriore conclusione che l'unica volontà che naturalmente esiste è quella perversa, di dominio.
Altrimenti non si spiegherebbe l'assunto che chiunque sia messo nella condizione di dominare, necessariamente lo farà. Dunque l'unica soluzione sarebbe un federalismo che consista in un equilibrio attraverso il controllo reciproco degli egoismi aggressivi di ciascuno degli uomini che compongono la collettività. Altro che restaurazione del paradiso perduto, e altro che instaurazione di una nuova intersoggettività che prescinda dall'egoismo soggettivistico "moderno" e borghese!! è naturale che, da questo punto di vista, il processo "rivoluzionario" verso un tale tipo di comunità non può essere che il prodotto di una rivolta spontanea degli egoismi repressi dei dominati, divenuti maggioranza cosciente (da minoranza cosciente che sono), per conseguenza della propaganda dell'ideale libertario. Ma perché i propagandisti di questo ideale farebbero questa propaganda? Per rendere coscienti gli oppressi della necessità di diffidare di tutti i loro consimili, ed in primo luogo degli stessi propagandisti (p.es. Clark e Bakunin)? Il paradosso nel quale ci si mette su questa via è bene illustrato da una proposizione di Clark (p.36 I col.). "Se il movimento è di per se stesso gerarchico (e per Clark/Bakunin un movimento diretto da una avanguardia è di per se stesso gerarchico) attirerà tutti quelli che trovano attraente la carriera di leader politico rivoluzionario er il loro desiderio di status (specialmente se l'impegno ideologico chiude loro le vie tradizionali al potere)". Ma perché mai costoro dotati naturalmente di un desiderio di status avrebbero scelto un impegno ideologico che chiude le vie tradizionali (e certo meno rischiose) al potere? Ciò è completamente incomprensibile. A meno che Clark intenda dire che si tratta degli scarti sociali che non possono far carriera nel regime borghese a causa dei loro handicap, e che prendono opportunisticamente un impegno ideologico che consenta loro di accedere al potere nel movimento rivoluzionario. I fatti storici starebbero a smentire un simile assunto, ma -soprattutto- si tratterebbe di un assunto che implicherebbe uno stato di inferiorità senza rimedio nel movimento rivoluzionario, che risulterebbe composto da uomini che si ribellano ai dominatori di alta qualità della borghesia per sottomettersi pecorilmente ai dominatori handicappati che gli si offrono nel movimento, solo sulla base di qualche chiacchiera ideologica. Io credo che le cose stiano diversamente. E precisamente penso che sia materialisticamente comprensibile (come anche gli anarchici comprendono e ammettono) che la coscienza di classe si sviluppi prima in un'avanguardia e poi si allarghi anche per opera di questa avanguardia alla classe nel suo insieme e che ciò avvenga in virtù anche di ciò che l'avanguardia dice e fa. Per esempio io non penso che Bakunin e Clark siano definibili degli scarti sociali ambiziosi che abbiano cercato o cerchino soddisfazione alla loro ambizione frustrata nel movimento rivoluzionario. Per dei marxisti, come -io credo- per degli anarchici, dirigere vuol dire orientare la opinione ed il comportamento della classe, e non credo che fatalmente chi si trovi nella possibilità di sviluppare questo ruolo di orientamento lo trasformerà in ruolo di "dominio". Se così fosse dovremmo pensarlo in primo luogo di Bakunin e di Clark. Io trovo che il discorso sulla volontà perversa sia esso stesso fondamentalmente sbagliato. Le avanguardie rivoluzionarie coscienti, lo sono perché capiscono una verità obbiettiva, materiale -e cioè che il loro destino è legato a doppio filo a quello della classe, dal che deriva la loro scelta di lottare per l'emancipazione della classe nel suo insieme. E non perché la loro volontà sia buona o perversa. Ci sono militanti più fermi nelle loro decisioni e altri meno decisi. Ma la perversità di una loro naturale tendenza alla sopraffazione può essere tranquillamente messa da parte. Per i borghesi è lo stesso: non è una perversa volontà di dominio che li muove, ma la coscienza, fondata oggettivamente e materialmente, che è loro interesse "dominare" il proletariato. La perversità non c'entra. Ecco perché io penso -come ogni marxista- che è perfettamente normale che un'avanguardia della classe, nel partito oggi, nel partito e nello Stato della dittatura proletaria domani, possa agire per l'emancipazione del proletariato attraverso l'estensione e l'approfondimento della coscienza e dell'impegno di tutti i proletari nella lotta organizzata contro la borghesia, fino all'esaurimento del ruolo stesso dell'avanguardia.
Ma, ci dice Clark, l'esempio del "socialismo reale" sta a dimostrare l'esattezza delle previsioni bakuniniane, sul destino inevitabilmente repressivo di ogni avanguardia che si voglia avanguardia dirigente (p.35). Io ritengo che qui ci troviamo di fronte ad un equivoco, molto diffuso e che ha molto influenzato la sindrome di disperazione di vasti movimenti sociali dei nostri giorni.
Che un'avanguardia cosciente possa esistere ed esista, senza che in alcun modo debba presupporsi una sua fatale tendenza a costituirsi in classe dominante, non vuol dire che si tratti di una avanguardia onniscente. La rivoluzione si impara facendola ed anche facendo giganteschi errori, alcuni dei quali possono essere cos gravi da ridare fiato alla vecchia borghesia o anche a lasciare spazi entro cui una nuova borghesia (e non una burocrazia) si costituisca e si imponga attraverso un processo controrivoluzionario. La storia avanza a zig-zag. Questa spiegazione, che Clark rifiuta (p.36 II col.), a me sembra perfettamente ragionevole. Naturalmente mi rendo ben conto che non si può liquidare una vera e propria tragedia storica, come quella degli sviluppi del "socialismo reale", in poche righe. Ma qui quello che interessa non è un'analisi dettagliata del "che cosa è concretamente avvenuto", ma solo di suggerire un metodo, un approccio alla questione che non ci obblighi ad accettare il fatalismo pessimistico di Clark/Bakunin.
Un'altra implicazione -a mio parere- errata della tesi Clark/Bakunin è quella per cui la produzione attraverso l'impiego di tecnologie sofisticate comporterebbe di necessità la formazione di una burocrazia che conosce ed amministra queste alte tecnologie, fatalmente portata a costituirsi in classe dominante. Non ripeto qui le considerazioni fatte sopra sulla assenza di ragioni logiche per ritenere qualsiasi "quadro" nel movimento o nella società, un dominatore ed un sopraffattore. Mi limito ad osservare che -nella interpretazione marxista- i rapporti politici (p.es. quelli di dominio) derivano dai rapporti di produzione e non da inesistenti rapporti tecnologici. Il livello tecnologico è un livello delle forze produttive. è ben vero che il livello di sviluppo delle forze produttive (e perciò della tecnologia) entra in rapporto con i rapporti di produzione, ma nel senso che ad un certo livello di sviluppo tecnologico i rapporti di produzione (nel nostro caso capitalistici) non sono più idonei allo sviluppo delle forze produttive ed è proprio questo che li rende obsoleti ed apre la via alla società comunista. La tesi di Bakunin/Clark è invece che lo sviluppo delle forze produttive "tecnologie avanzate" apre direttamente la via ad una società capitalistico-burocratica, come inevitabile ed irreversibile risultato. In verità abbiamo già assistito a trasformazioni della società borghese, dirette a migliorare il controllo delle moderne forze produttive supersviluppate. Ma assistiamo oggi anche agli insuperabili limiti che anche i più "trasformati" meccanismi della società borghese (che non ha mai cessato di essere tale nonostante i "tecnocrati"), pongono allo sviluppo ed all'impiego delle forze produttive disponibili. Dunque anche la supposta società capitalistico-burocratica ha già raggiunto il suo limite storico, tende al collasso interno ed è sempre più esposta alla contraddizione di classe. Perciò in se stesso lo sviluppo delle forze produttive lungi dal consolidare il capitalismo, in qualsiasi forma, più o meno burocratica, lo porta al suo limite storico e l'ulteriore sviluppo delle forze produttive (specialmente la tecnologia) impone, richiede il superamento del capitalismo verso la costruzione della società comunista, in cui sia estinta ogni burocrazia ed ogni Stato. Il rapporto di produzione non è un rapporto tecnologico, ma un rapporto concernente la disponibilità dei mezzi di produzione. La scienza dello scienziato e del tecnico è una forza produttiva di cui si dispone in diversi rapporti di produzione, capitalisti o comunisti, il cui mantenimento, superamento o instaurazione ex novo dipende dall'esito del conflitto politico aperto dalla loro capacità maggiore o minore di sviluppare, fra l'altro, anche la scienza dello scienziato e del tecnico. Scienziati e tecnici sono sempre stati posti al servizio dei rapporti di produzione (e relativi rapporti politii) e non mai il contrario. Così è sempre stato nel passato e non c'è motivo di ritenere che sarà diversamente nel futuro.
Ed ora a proposito di qualche conseguenza delle tesi Clark/Bakunin. Ogni avanguardia politica o che tale si voglia definire diviene sospetta. Ancora di più qualsiasi partito è visto soltanto come strumento per soddisfare la volontà di dominio di soggetti ambiziosi. Oggi questa idiosincrasia verso il partito ha largamente influenzato i movimenti sociali e gli stessi "partiti" che tendono sempre più a mascherarsi paradossalmente da movimenti. A mio parere il disorientamento dovuto agli avvenimenti storici degli ultimi decenni ed a cui ho fatto cenno ha amplificato la credibilità di tesi come quelle di Clark ed a sua volta la diffusione di queste tesi ha contribuito ad approfondire il disorientamento. Il riflusso (cosiddetto) non è stato dovuto solo a ragioni "oggettive", ma soprattutto a ragioni "soggettive".

4) Le "ragioni soggettive" e la formazione della coscienza. Marx ha detto che l'umanità non si pone problemi che non può risolvere. Clark dice (p.35 I col.): "Mentre può non esserci contraddizione tra forze produttive altamente sviluppate e rapporti di produzione capitalista, c'è contraddizione tra rapporti di produzione capitalista e una classe lavoratrice preparata e organizzata per distruggere questi rapporti e sostituirli con un programma completo di trasformazione sociale." A me sembra che nel contrasto sostanziale fra queste due posizioni si possa ben vedere la differente impostazione fra marxismo ed anarchismo del problema fondamentale della formazione della coscienza. Marx avrebbe certamente escluso che in assenza di una oggettiva, materiale contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione, potesse porsi il problema del superamento rivoluzionario dei rapporti di produzione esistenti. Come abbiamo visto il materialismo marxista impone di ritenere che la coscienza è coscienza di qualcosa di esterno, di oggettivo rispetto ad essa e che per l'essenziale nella storia dell'umanità fino ai nostri giorni (in verità una "preistoria" rispetto alla futura società comunista) questo qualcosa di esterno è una natura che deve essere manipolata, lavorata nel processo di produzione dei beni necessari all'esistenza. I problemi che questo processo pone sono quelli dello sviluppo delle forze produttive e dell'adeguamento dei rapporti di produzione al livello di sviluppo raggiunto di volta in volta dalle forze produttive stesse. Dove un conflitto fra forze produttive e rapporti di produzione non si pone, non si pone dunque neppure per la coscienza il problema di una trasformazione dei rapporti di produzione esistenti. Diversamente Clark dice che una coscienza rivoluzionaria può formarsi (anzi c'è) indipendentemente dalla esistenza di problemi oggettivi materiali in relazione ai quali la coscienza si forma. Si deve ritenere che Clark si riferisca alla citazione di Bakunin (p.30 II col.), per il quale le masse lavoratrici acquistano coscienza "attraverso la loro grande esperienza storica, attraverso questa grande tradizione dispiegatasi nel corso dei secoli e trasmessa di generazione in generazione, continuamente aumentata ed arricchita da nuove sofferenze e nuove ingiustizie, che alla fine riesce a permeare e a illuminare le grandi masse proletarie". Dunque è l'esperienza della sofferenza e della ingiustizia che fa maturare la coscienza. Sofferenza e ingiustizia sono esperienze essenzialmente soggettive e direi anche estremamente relative. Volendo infatti dare a concetti come sofferenza e ingiustizia una dimensione valida universalmente (quanto meno per le grandi masse proletarie e non per il singolo o gruppi di singoli) sarebbe necessario disporre di un concetto di benessere in assoluto e di giustizia in assoluto, concetti che possono essere patrimonio solo di una concezione perfettamente idealistica. In effetti Bakunin fa coerentemente (contrariamente a quanto Clark ritiene) riferimento ad un "istinto di ribellione" (p.32 I col. e nota 6 p.37) che sarebbe proprio di ogni oppresso, nel quale vivrebbe il concetto di benessere e giustizia per la realizzazione del quale istintivamente si ribellerebbe. Ripeto una concezione idealistica, che ha forse la possibilità di spiegare le ribellioni del singolo o dei gruppi di singoli, ma non può spiegare il processo rivoluzionario che mobilita un'intera classe sociale, al di là delle reazioni psicologiche dei singoli che possono essere le più varie (sia per quel che ciascuno intende per benessere, sia per quel che intende per giustizia). La storia è piena di rivolte, per lo più povere di conseguenze, mentre le rivoluzioni (che non sono costituite da tante rivolte sommate insieme) sono assai più rare, ma con effetti decisivi per la vita umana.
Questa confusione fra rivoluzione e rivolta domina anche i movimenti sociali dei nostri giorni. Anzi potremmo dire che nei movimenti sociali dei nostri giorni il progetto rivoluzionario sembra caduto ed aver lasciato il posto ad un progetto di istintiva e spontanea rivolta, che ribolle in ogni piega della società senza esprimere una forza in grado di rovesciare la società borghese. Ma come spiegare, dal punto di vista marxista, la relativa arretratezza della coscienza rivoluzionaria, in un momento di acuta contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione, quale (mi sembra) possiamo dire che è l'attuale? Poiché la realtà materiale pone oggi il problema che può essere posto e risolto, ma l'umanità tarda, a quanto pare, a prenderne coscienza. Bisogna, a mio parere, esaminare attentamente che cosa si intende dire quando si dice che l'umanità non si pone problemi che non possa risolvere. A mio parere questa affermazione vuol dire che l'esistenza nella realtà materiale di un problema che deve essere risolto, è condizione necessaria perché l'umanità se ne faccia carico. Ma ciò non vuol dire che sia anche condizione sufficiente. Perché l'umanità si faccia carico di un problema oggettivamente esistente è anche necessario che siano presenti determinate condizioni culturali, e cioè che esistano, ed esistano a livello delle grandi masse, gli strumenti culturali per interpretare il problema e l'ordine delle sue soluzioni. Il che non è un frutto automatico, meccanico del dato di fatto costituito dal "problema esistente". Gli strumenti di interpretazione culturale della realtà maturano attraverso lo studio, la assimilazione di strumenti concettuali, avvenimenti tutti che non si sviluppano linearmente e con gli stessi tempi dello sviluppo dei problemi oggettivi, benché ovviamente l'urgenza dei problemi sia di potente stimolo al perfezionamento degli strumenti culturali. Ora vi può realmente essere un gap anche rilevante fra la maturità di un problema oggettivo e la adeguatezza degli strumenti culturali per comprenderlo. Gap che ne ritarda inevitabilmente la soluzione.
Quando perciò si dice che il cosiddetto riflusso (attuale) non è stato dovuto solo a ragioni "oggettive", ma soprattutto a ragioni "soggettive", si vuol dire che il permanere ed il diffondersi di concezioni deboli della realtà, come quella che fa affidamento su concetti quali quelli di benessere, giustizia ed istinto di ribellione, (per non parlare di quelli di ripiegamento sul privato ecc.), costituisce realmente un fattore ritardante per la formazione di una coscienza rivoluzionaria. In questo senso il bakuninismo di Clark (e non solo suo) costituisce un fattore di attualità sventurata di Bakunin, una attualità a cui si deve far fronte. Oggi è di grande attualità il problema di combattere nei movimenti soggettivismo ed idealismo. Combattere la convinzione che sia sufficiente abbandonarsi al proprio istinto di ribellione per imboccare la via giusta della rivoluzione sociale. Combattere la tendenza a disinteressarsi dl difficile studio della realtà oggettiva e materiale (quella costituita dai problemi della produzione e dei rapporti sociali) per affidarsi fiduciosamente alla intuizione di cosa sia benessere per sé e per gli altri e di cosa sia giustizia per sé e per gli altri. Se questa battaglia culturale non sarà vinta, la coscienza rivoluzionaria non farà un passo avanti ed i problemi resteranno ancora irrisolti.
Ho cercato di mostrare perché solo una visione materialistica della realtà sia in grado di guidare verso un superamento del capitalismo verso la costruzione della società comunista, mentre una visione idealistica è destinata a far stagnare la rivolta nelle pieghe della società borghese. A mio parere, contrariamente a quanto afferma Clark all'inizio del suo scritto, quella di Bakunin è una visione idealistica della realtà, e la sua innegabile attualità nei movimenti sociali dei nostri giorni, è un elemento assai negativo.

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