Caso "prezzi agricoli"
Il paradosso dei prezzi agricoli si può esprimere, semplicemente, come segue: in tutta Europa i salariati spendono una parte rilevante del loro salario per acquistare i prodotti alimentari dell'agricoltura e dell'allevamento. Nello stesso tempo questi stessi prodotti vengono in grande quantità distrutti dallo Stato, per mantenere alto il prezzo di quella parte che viene messa sul mercato. Per distruggere questa grande parte di prodotti agricoli, lo Stato li acquista ai produttori a dei prezzi di fantasia, calcolati solo sulle necessità di fornire un reddito minimo "ragionevole" alla forza lavoro applicata in agricoltura, ed un profitto "ragionevole" agli imprenditori agricoli ed una "ragionevole" rendita ai proprietari delle terre. Non sarebbe più semplice che lo Stato pagasse una indennità di disoccupazione alla maggior parte dei lavoratori agricoli non necessari alla produzione, espropriare gli imprenditori-non lavoratori e proprietari parassiti eliminando la necessità di pagare i loro profitti e rendite, e regalasse (o quasi) grano, frutta, carne etc. ai salariati dell'industria? Dal punto di vista dei costi per lo Stato sarebbe quasi lo stesso, a prescindere dalla possibilità di destinare, inoltre, i surplus agricoli gratuitamente, alle popolazioni del mondo che muoiono per fame. Invece no. Perché? Nonostante il grande esodo di forza lavoro avvenuto negli ultimi decenni dall'agricoltura, ancora oggi la popolazione impiegata come forza lavoro e il ceto di proprietari, imprenditori, mediatori ecc. che vivono di questo settore è fortemente eccedente rispetto alla necessità della organizzazione produttiva, capitalistica, del settore. Il pure enorme sviluppo dell'impiego industriale e nel settore terziario non ha assorbito ancora a sufficienza la popolazione, ai diversi livelli impiegata nel settore agricolo. Ai lavoratori manuali dell'agricoltura probabilmente importerebbe meno che agli imprenditori e commercianti e proprietari del settore (che si conservano sempre la possibilità di manovrare con piccole o grandi speculazioni) di essere ridotti a degli assistiti da una specie di cassa integrazione agricola, chiara ed esplicita. Ma in generale l'intero settore resiste a questa prospettiva perché una tale situazione svelerebbe in pieno la precarietà della condizione lavorativa o imprenditoriale nel settore e porrebbe in chiare lettere il problema: impiegare una più ampia quota di forza lavoro dalla agricoltura nei settori industriali e dei servizi. Un problema difficilmente risolvibile in un momento in cui il sistema economico capitalistico nel suo insieme, non può sviluppare fra le altre quella forza produttiva specifica che è la forza lavoro senza mettere in pericolo i suoi profitti. Il risultato è che i salariati occupati, con le tasse e con i prezzi esagerati dei prodotti agricoli, debbano mantenere (con una dissimulata cassa integrazione) non solo i lavoratori dell'agricoltura ma anche gli imprenditori ed i commercianti e i proprietari di questo settore. E con tutto ciò, enormi quantità di prodotti agricoli, vengono costantemente distrutti.
La struttura del settore è in realtà complessa perché vi sono presenti non solo i lavoratori salariati, ma anche i lavoratori pagati in natura, e non solo gli imprenditori capitalisti ma anche i percettori di rendite fondiarie, oltre che ovviamente gli speculatori commerciali. Tutto questo intrigo di forze sociali parassitarie non può essere sciolto che per mezzo di un massiccio processo di industrializzazione (cioè meccanizzazione) dell'agricoltura ed un trasferimento di tutta la forza lavoro eccedente all'industria ed ai servizi. Diminuita dei costi assistenziali, la produzione agricola potrebbe essere venduta a prezzi bassissimi e regalata alle popolazioni del mondo che muoiono per fame. Naturalmente questa possibilità esisterebbe solo se lo sviluppo dell'impiego della forza lavoro nei settori industriali (naturalmente anche in quelli della trasformazione industriale dei prodotti agricoli) aumentasse: il che vorrebbe dire trasformare in forze produttive dalle forze socialmente parassitarie. Ma, come abbiamo già visto, la soluzione della crisi capitalistica non comporta un maggiore impiego di forze produttive, e fra queste principalmente della forza lavoro, ma un blocco delle forze produttive e fra queste la forza lavoro, e perciò lo stagnare in aree precariamente assistite di grandi quantità di forza lavoro agricola, praticamente disoccupata, insieme al mantenimento di prezzi abnormemente alti dei prodotti alimentari, alla distruzione di grandi surplus alimentari, e al mantenimento in condizioni di affamamento di vaste popolazioni del mondo.
Il blocco dello sviluppo delle forze produttive provocato dai rapporti di produzione capitalistici, è la conta di tutto ciò. Non è possibile uscirne senza una trasformazione dei rapporti produttivi, che vuol dire una rivoluzione politica radicale..
(x) oppure non si riferisce ad una realtà dotata di una dinamica propria (anche se non assolutamente indipendente),
(xx) ove si dice che il concetto di "educazione ad un'idea" fa parte di un tipico bagaglio idealistico, e perciò da respingere.
(giugno '85)