ALLA SCUOLA DEL PRIMIN
"Ricordando le fantastiche affabulazioni di Primo Moroni"
a cura dell'Archivio Primo Moroni
Milano, 28 maggio 2011
Prima di andare a descrivere i dispositivi che presiedono alla messa a valore e al disciplinamento della città contemporanea, abbiamo pensato di fare un passo indietro accennando - perché il tempo oggi disponibile permetterà solo di accennarvi - alla pratica di racconto-analisi-intervento che Primo Moroni ha condotto nel corso degli anni, ancora prima di dar vita alla Calusca, partecipando direttamente e in prima fila alla "grande contesa" sugli spazi metropolitani che ha visto battersi, nel secondo dopoguerra, su un lato della barricata i soggetti sociali presenti nei quartieri milanesi e sull'altro lato varie "cordate" del capitale e dello Stato.
Vogliamo, quantomeno, accennarvi perché il suo modo di descrivere questa lunga e reiterata disputa contiene, a nostro avviso, elementi utili sia a fare da sfondo storico ai processi politici, economici e giuridici oggi in corso - le "lunghe ombre del diritto"... - sia ad alimentare le potenzialità critiche e oppositive delle soggettività sociali che continuamente si riproducono.
Questo nostro intervento introduttivo ha per titolo Alla scuola del Primin. Il sottotitolo, "Ricordando le fantastiche affabulazioni di Primo Moroni", riprende una dedica posta in esergo a Quelli che Milano, un bel libro di "Elfo" e Matteo Guarnaccia che deve molto al modo che Primo aveva di raccontare le storie segrete di questa città.
Primo Moroni stesso, anche quando scriveva, teneva ad annoverarsi tra coloro che praticano il "racconto orale". Era un "narratore", quindi, con tutte le abilità, le malìe e le furbizie associate a questa nobile figura dell'arte della parola. E un narratore capace, fra l'altro, di far parlare la pietra costruita, l'architettura intesa come materiarsi di determinati svolgimenti storici, economici e socio-politici. Memorabile, per esempio, la sua descrizione della Stazione Centrale di Milano: "una cattedrale disciplinare carica di grandezza e di tenebra"; e per questa descrizione egli attinge ai reportage in cui Annamaria Ortese tratteggia la stazione come "porta del lavoro", "ponte della necessità", "estuario del sangue semplice". Sono gli anni dell'arrivo in massa degli immigrati e Primo stesso racconta di come passasse mattinate intere a osservare questi soggetti che scendevano dal treno e non sapevano da che parte girarsi, tentati di tornare indietro, poi alla fine costretti a imboccare, "sconfitti nei volti inespressivi", quella grande scalinata su cui le persone "sembrava rotolassero, sembravano acqua buia che va giù, chissà dove; così sparivano".
Certo, oggi servirebbe - e manca! - una penna o una voce in grado di sintetizzare con altrettanta forza evocativa i significati profondi della Stazione Centrale "riqualificata" lo scorso novembre [2010], nella quale invece che la tenebra da cui emergono terrificanti "come guardie di pietra le statue dell'Agricoltura, del Commercio, della Guerra e della Pace" regna la tiepida e studiata luminescenza di una sequela di vetrine in cui si specchia un "eterno presente" senza storia e senza memoria.
Milano è "difficile da raccontare", secondo Primo Moroni, "perché le vicende storiche l'hanno portata a essere una inesauribile divoratrice di se stessa" (Milano, istruzioni per l'uso). L'età media delle sue case è la più bassa d'Italia, e questo continuo distruggere e costruire fa sì che "girando per le strade molto è da immaginare mentre alcuni luoghi a volte scompaiono per riapparire casualmente". Milano, quindi, come "una città da immaginare" perché nel suo "divorare se stessa" cela, riduce ed elide la stratificazione delle proprie presenze, la complessità dei propri significati storico-sociali.
E Primo ha cercato di restituire questi significati, a partire dal suo vissuto, dalla sua esperienza di "strada" innanzitutto. Apriamo qui una parentesi per dire che è un po' paradossale aver intitolato Alla scuola del Primin questo nostro intervento, quando si sa che Primo fu un autodidatta, uno che venne rifiutato dal sistema scolastico normale, trovandosi perciò in compagnia di altri grandi autodidatti di quegli anni, come Danilo Montaldi e Giorgio Cesarano, coi quali non a caso stabilì ponti assai significativi sul piano del pensiero e dell'approccio critico.
Ancora, riflettendo su come fare "ricerca urbana", Primo afferma che "si può parlare della città in molti modi. Esiste ormai una bibliografia così vasta da essere quasi inutilizzabile. Certamente si può limitare il campo, si può parlare ad esempio della città a partire dalla rivoluzione industriale o dalle grandi megalopoli del Sud del mondo; ma in ogni caso ci si trova di fronte a un compito sterminato. In questo senso molti scelgono di fare astrazioni teoriche, sintesi possibili ma così facendo si perde una parte della vita, delle percezioni del mondo che si formano dentro la città".
E Primo qualifica come luoghi queste percezioni, questi "vissuti della città". Per lui i luoghi "sono i quartieri letti come microsistemi sociali che producono non solo lo spazio di appartenenza ma anche la personalità di chi vi abita. I quartieri [...] come territori che producono cultura, universi vitali di riferimento, destini contraddittori".
Quindi serve una "memoria dei luoghi", di quanto i territori hanno lasciato dentro le vite di coloro che li hanno frequentati, per capire il perché, altrimenti indecifrabile, di certi "luoghi punti di incrocio e di incontro" che costituiscono "una risposta che i soggetti danno" alla propria marginalizzazione e "al continuo tentativo di rinchiuderli nella separatezza delle case".
È una stratigrafia esperienziale e storico-sociale, di forte valenza conflittuale, quella che per Primo si tratta di effettuare. E allora il film Malamilano ce lo mostra mentre, nei cortili di corso San Gottardo e sulla Darsena, rievoca i comportamenti proletari, in ispecie giovanili (e irregolari/ribelli), calandoli nella vita del Ticinese, lungo un arco temporale che va dalla fine della Seconda Guerra mondiale - gli anni della Ricostruzione e delle speranze di riscatto svanite, i "duri" anni Cinquanta della repressione scelbiana e dello strapotere padronale, i successivi Sessanta con l'arrivo degl'immigrati ecc. - fino agli anni Settanta, quando questo quartiere vide la più elevata concentrazione di sedi politiche extraparlamentari della città. E, su un piano più generale, così sintetizza questa sua modalità narrativa: "nel raccontare Milano, quindi, terrò presente continuamente questa lotta incessante tra vissuto di strada e disciplinamento" (privatistico, lavoristico, sicuritario), che consente di "aggirarsi in questa città comprendendone l'intima drammaticità e il valore oramai sbiadito di molti suoi luoghi".
Il Ticinese è proprio uno di questi luoghi che si sono sbiaditi, che hanno smarrito i loro significati peculiari, dimettendo quella ricchezza e diversità di comportamenti che ne faceva il quartiere della tolleranza per tutte le diversità possibili, dell'irregolarità praticata in ogni stagione: sotto il fascismo, quando le soggettività politiche proletarie erano state represse, così come negli anni del secondo dopoguerra, con le trattorie in cui si trovavano i lavoratori insieme agli sbarbà de vita. E il racconto di Primo permette di capire anche come si può diventare (oppure non diventare) operaio nel Ticinese e nel Bottonuto, con una pluralità di scelte di vita possibili diverse da quelle proprie di un quartiere monoculturale come è invece il Vigentino, un quartiere esclusivamente operaio dove il destino di operaio è quasi l'unico possibile: "Questi giovani del Bottonuto provavano un grande rifiuto all'idea di andare in fabbrica, tutto al contrario di via Ripamonti, nella zona dove ero vissuto prima, dove c'era una grande morale operaia" (Da "Don Lisander" alla "Calusca"). è una somma di comportamenti diversi che poi in parte entrano nel mondo del lavoro, nel mondo operaio, in parte invece no.
Solitamente, questo "vissuto metropolitano", "questo vissuto individuale della vita quotidiana resta senza linguaggio, senza concetto, senza accesso critico al proprio passato, il quale non si trova consegnato da nessuna parte. Non si comunica. è incompreso e dimenticato a beneficio della falsa memoria spettacolare del non memorabile" (Guy Debord). Viceversa Primo, restituendo vividamente questa complessità di esperienze, riesce a inscrivere delle storie anche minori, delle storie di alcuni gruppi di ragazzi o addirittura delle vicende individuali, nel più ampio contesto del conflitto, della contraddizione. E così facendo egli sopravanza ampiamente gli studi di sociologia urbana del tempo, arrivando a tematizzare esplicitamente la questione della singolarità, del divenire singolo.
Quando parla di "strada", di comportamenti innovativi legati alla "strada", Primo mostra tutto l'attaccamento che ha sempre mantenuto verso i suoi compagni delle bande del Bottonuto. Li racconta nella loro umanità, nelle loro prerogative (i nomignoli, gli stilemi linguistici, le prodezze e le disavventure), in una ricostruzione - che qui non possiamo riportare estesamente ma che può per esempio essere letta nel libro La luna sotto casa - che comprende anche le loro scelte di vita successive. Tra queste scelte grande peso ebbero quelle legate alla nascita dei nuovi locali serali della Milano di quegli anni, che in buona parte videro protagonisti questi soggetti di "strada". è quindi qualcosa che oggi si potrebbe definire "cool".
Al riguardo, facciamo un altro breve inciso proponendo un brano tratto dal Sistema delle marche, cultura del consumo e nuovi linguaggi della comunicazione, un libro di Nello Barile dedicato alla questione di come questi comportamenti vengono oggi inscritti nel sistema delle merci e di come quest'ultimo li "legge". Figura chiave di questa "lettura", di questa decodifica, è il cool hunter. Magari alcuni non sanno chi sia costui: il cool hunter è un individuo che "grazie alla capacità di condividere valori, linguaggi e stili di vita dei giovani" è in grado di "individuare, selezionare e campionare le tendenze più innovative che stanno nascendo nella ‘strada' trasformandole [...] in un prodotto commerciale. Si tratta pertanto di un contro-etnografo dotato di una risorsa rara e ambita dalle aziende: l'autenticità".
Ecco, ciò che il cool hunter oggigiorno fa come triste mestiere per alimentare il ciclo produci-consuma-crepa, oggi edulcorato come sistema delle "merci cariche di valori simbolici" ecc. ecc., Primo lo faceva (a partire dalla sua esperienza diretta) per testimoniare e amplificare il significato oppositivo, di tensione verso una scelta di rottura con l'esistenza normalizzata, che tutti questi comportamenti almeno in nuce contenevano. E lo faceva tracciando cerchi via via più ampi, a partire da scelte "minori" - come può essere quella del giovane della banda del Bottonuto che, di ritorno dall'America, fa la rentrée in quartiere col macchinone per realizzare la sua "grande giornata", l'evento della sua vita - fino ad arrivare al processo in cui si producono soggettività politiche antagoniste che poi diventano collettive.
La microfisica moroniana dei comportamenti oppositivi e difformi è oltremodo utile per chi voglia conoscere per davvero la nostra città, in quanto tralasciando un simile approccio si correrebbe il rischio di avere una immagine indifferenziata di Milano o caratterizzata al più da categorie general-generiche come "prima" o "dopo il boom", nella quale a un certo punto arrivano i "capelloni", che formano le loro comunità, poi c'è "Barbonia City", poi c'è il movimento studentesco, poi gli anni Settanta ecc. Ma prima, accanto e in mezzo, che cosa c'era? Che cosa accadeva? Quali erano i fili tra le situazioni, i "canali sotterranei" tra i quartieri, il dipanarsi e l'intrecciarsi delle vite?
A partire dalla sua internità a queste "storie di vita", Primo riesce a leggere in maniera "allargata" i comportamenti di questi giovani - che siano comportamenti politicamente espliciti o, soprattutto in quegli anni, che non lo siano - come segni di contraddizione. Esplicita è in lui l'intenzione di "raccontare per frammenti una città - Milano - come luogo possibile della mente, dell'uso e del vissuto che una parte dei suoi abitanti ha praticato indipendentemente dalle intenzioni degli urbanisti o degli ingegneri programmatori".
Un esempio, fra i tanti possibili: "Giravamo sempre in bande di molti ragazzi, perché tutti quanti avevamo questo pallino di fare tardi. Andavamo a piedi nei locali di Brera, in quelli lungo i Navigli o sulla circonvallazione" (Da "Don Lisander" alla "Calusca"). Vengono in mente quelle "conversazioni insonni alla deriva nelle città addormentate" richiamate da Mario Lippolis, quelle "discussioni senza fine intorno ai tavoli dei ‘caffè della giovinezza perduta', [qu]egli incontri clandestini ‘in tutti i porti d'Europa', costantemente tesi alla ricerca delle possibilità d'instaurare un legame che si annunciasse come ‘l'ordine mobile dell'avvenire'", uno "spazio amicale" adeguato a quel "dialogo che si arma per far vincere le proprie condizioni".
È insomma un "racconto metropolitano", quello di Primo, "all'interno del quale i luoghi sociali si distruggono e si ricompongono sotto la spinta dei poteri, dei processi, delle risposte - affermative o negative - che i soggetti danno ai processi alti che vorrebbero inglobare le loro vite". Anche il suo era "un metodo che partiva dalla ricostruzione della microconflittualità come arnese per disvelare i rapporti di potere complessivi nella società", come scrisse lui stesso a proposito di Montaldi, attraverso le parole del suo "compagno d'armi" Franco Fiameni. E continuava: "l'analisi della microconflittualità e della giornata operaia sia dentro sia fuori la fabbrica, dall'alba al tramonto e dal tramonto all'alba, l'analisi sia dei rapporti di produzione sia dei rapporti sociali extra-fabbrica, in particolare dei rapporti con quell'universo socio-culturale rappresentato dal PCI".
E qui uno potrebbe domandarsi: che cosa c'entra il PCI col discorso dei luoghi, di quei quartieri di Milano oggi divenuti astratte definizioni amministrative, in cui "la Barona ‘dolce e disperata' è oramai solo la zona 16 così come il Gratosoglio è zona 15 e il Corvetto 14"?
La risposta sta negli anni in cui Primo è cresciuto e che poi l'hanno visto "militante politico di base", anni in cui nei quartieri popolari di Milano, pur con tutte le loro differenze, esiste ancora una socialità proletaria dal forte segno politico, in cui la sezione del Partito e la Casa del Popolo sono luoghi d'aggregazione e d'incontro tra le generazioni, di formazione dell'esperienza.
Negli scritti autobiografici di Primo, fra le altre cose, troviamo pezzi interi di storia del Partito comunista che gli storici e i politologi, a causa delle loro limitazioni metodologiche e disciplinari, nonché della predisposizione ancillare che perlopiù li caratterizza, ancora ignorano.
Essendo stato interno a quel tessuto militante e avendone poi elaborato criticamente le vicende, Primo è in grado di rendere conto di una serie di questioni - da quella dell'"informazione" ("allora il partito era tutto informazione") a quella delle "armi", da quella del "doppio binario" a quella dei ceti medi, da quella del "mito dell'URSS" a quella di che cosa volesse dire per il corpo del Partito la scelta della "democrazia progressiva" - e colloca questi processi politici generali dentro un territorio metropolitano, quello di Milano, dentro la vita di un determinato quartiere. "Cos'era in quegli anni il partito? Una grande, solidale comunità con un progetto ambiguo: la rivoluzione. Democrazia, rivoluzione e la convinzione di tutti che la via al socialismo e i partiti erano una cosa ma, che una volta preso il potere, col cazzo che lo davamo indietro. Avremmo imposto criteri operai, instaurato la dittatura del proletariato. Questa convinzione da parte di tutti non andava mai detta ma era totale e assoluta. L'ambiguità si imparava rapidamente". E in questa sorta di "controstoria del Partito" emerge, ancora una volta narrata "dall'interno", il dipanarsi di quella "grande crisi nei rapporti tra nuove generazioni e PCI" che segna gli anni Sessanta e sfocia nel "biennio rosso" '68-69, prima di concludersi nel drammatico e lacerante esito di "una forma-partito che si è fatta forma-Stato".
Questo scollamento "tra nuove generazioni e PCI" segue di un decennio circa i grandi "sventramenti" del tessuto storico di Milano e le conseguenti "deportazioni" dei primi anni Cinquanta, che proseguono e concludono "democraticamente" gli "sventramenti" e le "deportazioni" che il regime fascista operò negli anni Trenta. Questi soggetti venivano espulsi dal centro ma trovavano poi spazi "amicali" in altre parti della città, a volte ritornavano sui loro passi, in un tira-e-molla che è andato avanti pressoché per tutto il secondo dopoguerra.
Lo raccontano anche altri compagni descrivendo la dinamica delle manifestazioni nel '68-69 a Milano. Allora, benché il centro della città fosse ormai sostanzialmente svuotato e morto, ancora permanevano in esso certi punti in cui vivevano strati di popolazione d'antico insediamento o immigrati giunti di recente e inseritisi nelle faglie (spaziali e temporali) dell'"alluvione immobiliarista", nonché soprattutto un sacco di giovani nullafacenti e poveri che passavano le loro giornate nei bar intorno all'Università Statale, producendo un mix affatto particolare di "tipi" e di storie. Fatto sta che questi soggetti sociali erano lì, sul posto. Sicché, quando succedeva qualcosa, si trovavano già insieme e questo loro esserci offriva la possibilità di una comunicazione politica diretta e di una risposta quasi immediata. Una dinamica, quindi, molto diversa dall'andare a fare una manifestazione in un'altra città e poi ripartire.
La storia di questi "anni di contesa e continuo scostamento" è una delle angolazioni principali con cui Primo ha guardato Milano e l'ha raccontata, per il gusto di chi lo stava ad ascoltare e nell'intelligenza di chi ancora oggi vuole agire contro.
A mo' di chiusa, una citazione con la quale Primo suggellò la decisione di riaprire "la Calusca in Cox 18", nel 1992:
"Che bel momento è l'inizio di un assalto contro l'ordine del mondo. Dal primo avvio si sa già che, prestissimo e qualsiasi cosa accada, niente somiglierà più al passato.
È una carica che comincia lentamente, poi prende un'andatura accelerata, supera il punto oltre il quale sarà impossibile ritirarsi e va irreparabilmente a sfidare ciò che pareva inespugnabile, solido, difeso, e ora invece destinato a essere messo a ferro e fuoco. Ecco, dunque, che abbiamo fatto quando, usciti dal nulla, ancora una volta spiegammo la bandiera della ‘buona vecchia causa' e avanzammo spronati dal cannone del tempo.
Molti morirono o vennero soggiogati dal nemico, altri furono appiedati e feriti, mai più li rivedremo in battaglie del genere - ad altri ancora mancò il coraggio, a chi si lasciò riprendere - oso dire, però, che mai la nostra formazione scartò dal suo obiettivo: distruggersi anima e corpo" (La penombra che abbiamo attraversato e il notturno che ci pervade).
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[Con questo intervento l'Archivio Moroni introduceva, il 28 maggio 2011, la seconda giornata della serie "le lunghe ombre del diritto" dedicata a Milano. I materiali degli incontri sono reperibili all'indirizzo: http://www.inventati.org/apm/penale/index.php?step=incontri]