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Ma l'amor mio non muore
Primo Moroni
[da: Maledetti compagni, vi amerò. La sinistra antagonista nelle
parole dei protagonisti degli ultimi vent'anni di conflitto, a cura di
Romano Giuffrida, con la collaborazione di Marco De Filippi, Roma,
Datanews, 1993, pp. 15-44]
La cultura, fondamento e fonte d'ispirazione per la lotta, prende
a essere influenzata da quest'ultima e questa influenza si riflette
in modo più o meno palese sull'evolversi del comportamento dei ceti
sociali e degli individui come sull'evoluzione della lotta stessa.
Amilcar Cabral
Era il 1976 e nel libro Vivere a sinistra. Vita quotidiana e impegno
politico nell'Italia degli anni '70 di Emina Vukovic, c'era un capitolo
dal titolo "Primo e Sabina della libreria Calusca di Milano" dedicato
alla storia di quella che, negli anni Settanta, era diventata la
principale libreria alternativa italiana, 'un punto di riferimento'
come disse allora Primo Moroni, proprietario insieme alla moglie
della libreria dei non organizzati, dei cani sciolti, di un'area
indefinibile che va dai bordighisti, ai protosituazionisti, ai
consiliari, agli internazionalisti, agli anarchici, agli anarco-
comunisti, ai comunisti libertari. Da allora sono passati oltre
quindici anni e la Calusca, dopo un periodo di chiusura avvenuta
non casualmente proprio nel cuore di quegli anni Ottanta che avevano
visto l'azzeramento repressivo delle esperienze movimentiste dei due
decenni precedenti, con una festa che ha riunito vecchi e giovani
militanti, intellettuali rivoluzionari, incazzati della prima e
dell'ultima ora, ha recentemente riaperto nel cuore della vecchia
Milano in coabitazione con uno dei più attivi centri sociali
cittadini. Vera e propria memoria storica della nuova sinistra e
della sinistra rivoluzionaria italiana (ma non solo), Primo Moroni,
attraverso la sua storia personale e quella della libreria, è dunque
una figura emblematica per ricostruire le vicende di quest'ultimo
quindicennio antagonista.
All'epoca dell'intervista rilasciata a Emina Vukovic sia io sia Sabina,
che in quel tempo era mia moglie, adesso lo è ancora ma non viviamo
insieme, stavamo costruendo un circuito di librerie e di distribuzione
come struttura intermedia del movimento. Il lavoro della nostra libreria,
la Calusca, si era cioè orientato a creare una struttura intermedia per la
diffusione di centinaia di giornali, riviste e altre pubblicazioni antagoniste
di vario genere in tutta Italia. Nasce così la Cooperativa Punti Rossi che
coordina l'attività con altre 65 librerie in qualche modo nate sul modello
della Calusca (alcune si chiameranno con lo stesso nome e cioè Calusca 1,
2 o 3), e con svariati Centri di Documentazione. Questi luoghi di
produzione culturale e politica erano sparsi dal Nord al Sud in diverse
regioni d'Italia e la loro funzione era quella di distribuire e diffondere
materiali che altrimenti sarebbero stati conosciuti da pochissime persone.
Era una struttura intermedia di servizio che faceva sì che ogni singola
sede recuperasse i materiali informativi dei gruppi che gravitavano nella
sua area e li mandasse alle altre sedi con un continuo interscambio: una
soluzione abbastanza originale al problema dell'oligopolio della
distribuzione editoriale. Era il 1976, un anno determinante che segnerà i
destini di più di una generazione: l'anno della svolta politica in Italia. Nel
'76 infatti ci sono le elezioni, c'è la grande avanzata del Partito
comunista, molti degli ex aderenti ai gruppi organizzati, primo fra tutti
Lotta Continua, danno indicazione di voto a sinistra. Si forma quel mito
del sorpasso della Democrazia Cristiana o comunque della sinistra che
sorpassa i tradizionali partiti di governo. È un mito collettivo che
determina il più alto quorum elettorale del PCI dal dopoguerra fino a quel
momento. Complessivamente la sinistra, compreso il PSI, che allora non
era ancora craxiano, raggiunge il 49,50% dei voti. Per noi, come area
della libreria, il '76 è anche determinante perché si dissolvono la gran
parte dei gruppi, cioè Lotta Continua, Servire il Popolo. Lo stesso
Movimento Studentesco o meglio il Movimento Lavoratori per il
socialismo, così come si chiamava allora entra in crisi. L'unica che ha
una lunga complessa ricomposizione è Democrazia Proletaria la quale
prima è Avanguardia Operaia, poi si «incontra con il PDUP, e nasce
Unità Proletaria da cui, infine, si fonda, come partito, DP. La
dissoluzione dei gruppi libera comunque una massa enorme di energie di
militanti che erano abituati a stare all'interno delle organizzazioni, e non
è un caso che quello sarà l'anno di massimo sviluppo della cosiddetta
Autonomia Operaia Contemporaneamente c'è un terzo aspetto che
caratterizzerà quell'anno ovverosia si formano, soprattutto a Milano, i
Circoli del proletariato giovanile composti essenzialmente da
giovanissimi. È un fenomeno che sorprende un po' tutti, nel senso che
anticipa il '77 bolognese. Il Settantasette bolognese infatti avviene
quando quello milanese in qualche modo è finito o quantomeno si avvia a
esaurirsi, anche a causa del grave trauma generazionale verificatosi in
seguito alla famosa manifestazione contro l'inaugurazione della Scala del
7 dicembre 1976.
Che cos'era successo?
In quella manifestazione i cortei sono due, uno dei gruppi, che andrà
alla Statale, e un altro che invece si incunea in via Carducci per andare
alla Scala. Lì avviene un episodio drammatico: c'è un imbottigliamento
del corteo a opera della polizia, soprattutto via Carducci non permette vie
di fuga laterali. Ci sono migliaia di persone e una grande confusione. A
un certo punto avviene un errato lancio di molotov dalle file dietro e le
bottiglie vanno a colpire le prime file del corteo. Una ragazza, una
ragazza bellissima, rimane pressoché bruciata. Starà molto tempo in
ospedale e, se ricordo bene, ci sarà anche una sottoscrizione per
permettere gli interventi di plastica al viso e al corpo, ma ancora oggi
porta sul corpo le tracce di quelle ustioni. Fu terribile, un trauma per tutti
nel vero senso della parola. Quindi succedono molte cose nel '76: la crisi
dei gruppi, l'avanzata del Partito comunista, la nascita dei Circoli del
proletariato giovanile e, non dimentichiamolo, l'arrivo e la diffusione a
livello di massa dell'eroina. Questo dei Circoli del proletariato giovanile
è uno degli aspetti più nuovi e interessanti di quel periodo. Se volessimo
usare un'immagine metaforica, si potrebbe dire che così come venivano a
finire, o esaurivano il loro compito storico, le organizzazioni politiche
verticali della Nuova Sinistra, ugualmente, e attraverso i fili impalpabili
dei processi sociali, gli stessi comportamenti soggettivi diventavano
orizzontali Fino a quel momento tutti gli organismi politici e sociali
della Nuova Sinistra avevano lottato per conquistare spazi di agibilità
vicino o dentro al centro storico della città. Questa tendenza aveva un suo
senso storico: significava rappresentarsi con forza verso i centri del
potere, significava anche rappresentare gli esclusi proprio nei luoghi
deputati a produrre l'esclusione. L'andare verso il centro voleva dire
portare il conflitto e le nuove forme di rappresentanza nel cuore del
sistema e proprio là realizzare forme comunitarie di contropotere.
Esemplare, per esempio, nel caso milanese, è la vicenda del quartiere
Ticinese, quello dove c'era la libreria Calusca, che nei miei racconti
definisco sempre il triangolo dei destini incrociati. Nel senso che una
tipica e storica città radiale come Milano tende a far sì che la gente si
muova dentro triangoli che, dalla base larga della periferia, si spostano
verso l'angolo acuto del centro storico. Il quartiere Ticinese è appunto
una zona che si pone come luogo di frontiera equidistante tra centro e
periferia e proprio per questi suoi esiti storici (qui c'era una parte della
città romana, poi di quella medioevale e quindi di quella spagnola),
risulta essere un luogo esemplare di molti e possibili incroci di soggetti
sociali diversi. Ed è forse per questi motivi che, negli anni Settanta il
quartiere registrava la più alta concentrazione di sedi politiche d'Europa.
In uno spazio ridotto c'era la sede di Lotta Continua, quella del
Manifesto, quella di Avanguardia Operaia, una sezione del Movimento
Studentesco, c'era uno dei primi collettivi femministi radicali, c'era la
redazione di CONTROinformazione, la redazione di Primo Maggio,
una sede del PdUP. E poi ancora: la sede della rivista Rosso e quella
del Coordinamento Organismi Autonomi Zona Sud. Tutto ciò era
distribuito nello spazio di poche centinaia di metri, quindi anche tutti i
locali, i bar, le osterie, erano segnati dalla presenza di massa di questa
specie di territorio liberato estremamente complesso. Molte
manifestazioni partivano da lì. Tutto il quartiere era stato modificato dalla
presenza dei politici.
Come mai era stato possibile un fenomeno così particolare?
Negli anni Cinquanta-Sessanta il Ticinese era un quartiere
malavitoso, un quartiere abituato ad accettare i diversi, credo
addirittura considerato perso dalla proprietà edilizia ai fini della
speculazione proprio a causa di questa sua tradizione storica. Così,
quando sono arrivati i politici, i residenti, come avevano sempre fatto,
hanno affittato le loro case ai diversi. Ed è stato un moltiplicatore della
diversità: c'erano le puttane, i contrabbandieri, i ladri, ora arrivavano i
sovversivi di sinistra. Questa generazione politicizzata e
intellettualizzata sceglieva come modello culturale diverso l'andare
nelle case di ringhiera ritenendole più umane e ciò anche se gli stessi
proletari che ci vivevano volevano andarsene per avere finalmente le case
con il bagno Ci sono state così moltissime occupazioni di appartamenti
e ciò ha favorito la formazione di un vero e proprio ceto politico nel
quartiere: un quartiere diventato in breve tempo tutto rosso.
L'atteggiamento dei Circoli del proletariato giovanile fu invece una
sorpresa perché invertì la tendenza in auge fino ad allora di avere una
sede nel centro della città dalla quale poi andare a fare l'intervento
politico nei quartieri della periferia o davanti alle fabbriche. I Circoli
nascono invece dentro il territorio, nell'hinterland. La cintura
metropolitana era formata da quartieri di costruzione relativamente nuova
ossia erano stati fabbricati verso la fine degli anni Cinquanta. I giovani
nati in quei quartieri hanno impiegato 15, 16 anni a recuperare un'identità
territoriale, a rendersi amico il territorio e a pensare che loro, la vita
liberata, la volevano non semplicemente nella sede politica centrale ma
nel loro quartiere e senza interventi esterni. Da qui tutte quelle definizioni
sul tipo Indiani metropolitani o simili: avere un circolo, infatti, voleva
dire stare nelle riserve, esclusi dalla ricchezza del centro storico, fino
alla domenica, giorno in cui raggiungere il territorio dell'uomo bianco
e fare le autoriduzioni del prezzo del cinema o della discoteca. Anche i
giornali che loro stampano nei quartieri non sono più così
immediatamente politici come potevano essere Falce e Martello,
Bandiera Rossa o simili. Loro li chiamano Felce e Mirtillo oppure
si denominano a seconda delle riserve di appartenenza: così il giornale
di Pero si chiama La Pera è matura, quello di Sesto San Giovanni
Sesto senso e via di seguito. L'esperienza dei Circoli è difficile da
definire: quello che è certo è che essi invertono il meccanismo di uso
sociale della città e hanno meno cultura politica degli ormai dissolti
militanti dei gruppi politici verticali in qualche modo riassorbiti
dall'Autonomia.
Torniamo a parlare del 1976, anno che tu dici essere cruciale per
le vicende politiche italiane e, in particolar modo, della sinistra
italiana
Quello infatti è anche l'anno in cui si scioglie Lotta Continua con il
Congresso di Rimini. La dissoluzione di LC ha l'effetto di lasciare senza
direzione politica una massa molto elevata di militanti della città,
soprattutto operai. Nel 1976 nasce poi Radio Popolare. La comunicazione
fino a quel momento era fatta essenzialmente di riviste e di giornali, c'era
già da circa un anno Canale 96, la prima radio della sinistra, la quale però
faceva più riferimento ad Avanguardia Operaia ed era quindi espressione
di un gruppo organizzato. Radio Popolare, allora era direttore Biagio
Longo, ebbe però subito un grande successo perché trasmise in diretta
tutta la nottata tremenda degli scontri del 7 dicembre di cui parlavo
prima: le cariche della polizia, i feriti e, con quei mezzi di allora,
significava dover ogni volta trovare un telefono, infilarsi da qualche parte
per trasmettere le notizie. Insomma in quell'anno ci fu un clima di
passaggio straordinario. Noi, come collettivo della libreria, lo
avvertivamo però in maniera un po' diverso da come lo sentivano tutti.
Eravamo convinti che la scelta politica di investire nel Partito
comunista si sarebbe risolta in una tragedia. In questo senso le posizioni
politiche espresse dall'allora segretario Enrico Berlinguer o dai vertici
sindacali erano inequivocabili. L'intenzione generale dei sindacati era
quella ricondurre ai vertici la contrattazione esautorando i consigli di
fabbrica e quindi la democrazia di base mentre il PCI di Berlinguer
propugnava da tempo il compromesso storico e cioè l'accordo-patto
con la Democrazia Cristiana e ciò indipendentemente dalla parziale
propaganda per l'alternativa di sinistra che facevano alcuni suoi
esponenti. D'altronde, tutta la vicenda del PCI dal dopoguerra in avanti
era legata al patto di democrazia consociativa con la DC e il
compromesso storico, magari reso più concreto dalle vicende cilene,
non poteva che essere la conclusione logica delle vicende precedenti.
Eravamo cioè convinti che nei momenti di transizione (e quello era uno
di quelli), ma più in generale nella sua strategia complessiva, il Partito
comunista aveva, e di conseguenza avrebbe di nuovo fatto così, sempre
privilegiato il rapporto con i partiti dell'arco costituzionale piuttosto che
il rapporto con la classe o i movimenti. In questa direzione la difficile
situazione del capitalismo italiano e le difficoltà della Democrazia
Cristiana di governarla avrebbe, secondo la nostra ipotesi, spinto il PCI a
una rinnovata progettualità verso il compromesso storico piuttosto che
nella direzione di un approfondimento del conflitto. E in effetti
pensavamo che la DC e il padronato potevano uscire dalle proprie
difficoltà (o almeno provarci) solo con l'aiuto del PCI e del sindacato
cosa che, com'è noto, si sarebbe verificata a partire dall'anno successivo.
Per cui quell'anno alla Festa dei Navigli, la festa del quartiere che si
celebra il 2 Giugno le elezioni sarebbero state il 17 o il 15, non me lo
ricordo bene come libreria partecipammo con un grande striscione che
più o meno diceva: 15 giorni all'alba e poi termina definitivamente la
libertà in Italia perché il Partito comunista farà il patto con la DC.
Sostanzialmente, forzatura a parte, avevamo tragicamente indovinato e
avevamo anche intuito che il trauma per il movimento sarebbe stato
terribile. E in effetti, quando arrivarono i risultati elettorali in via
Volturno dove c'era la federazione del Partito comunista, quella sera
migliaia di persone ballarono e cantarono perché pensavano di avere
vinto, in quanto la sinistra aveva raggiunto il suo massimo storico: oltre il
49%. Vedere l'entusiasmo e il carico di attese di tutta quella gente era
esaltante ma al contempo angosciante perché io, Sabina, Renato (che è
stato la vera punta di diamante della Punti Rossi) e parte della redazione
di Primo Maggio (che era la rivista più importante che pubblicavo),
eravamo convinti trattarsi di un colossale abbaglio di interpretazione
politica. Sapevamo per esperienza e per bagaglio di analisi che quando il
conflitto si allarga orizzontalmente a partire dalla fabbrica per investire
tutto il resto della società il processo reale tende a uscire dal controllo
della dialettica tra governo e opposizione. Questo diventa allora un
pericolo mortale per il sistema di partiti e per la sua forma-Stato. Il PCI
aveva colto questo passaggio e avrebbe sicuramente optato, per
risolvere la crisi dello Stato e al fine di ricostruire un clima concorde
con gli altri partiti, per un percorso di unità istituzionale. Il risultato
non avrebbe potuto che essere il formarsi di una cupola di ferro sopra
e contro i movimenti e l'autonomia dei bisogni della classe. Poco più
tardi avremmo scritto che quando questo avviene il sistema politico
diventa più rigido, più frontalmente contrapposto alla società civile, non
recepisce più le spinte dal basso, ma controlla e reprime. Già nel corso
del '75 e del '76, in ogni caso, si leggeva l'esistenza di un
compromesso storico strisciante. Si intuiva il tentativo di abbandonare la
pratica della strategia della tensione (inaugurata nel tragico '69 con la
strage di Stato), per passare a un meccanismo repressivo diverso, palese
e gestito in prima persona dallo stato del sistema dei partiti. La legge
Reale, per esempio, andava in questa direzione. Quindi quella sera in via
Volturno avevamo anche noi le lacrime agli occhi, ma non per la felicità
bensì per motivi esattamente opposti. D'altronde ci rendevamo ben conto
delle grandi difficoltà politiche delle avanguardie operaie di fabbrica che
erano investite dagli effetti violenti della ristrutturazione. Li sentivamo
sempre più spesso affermare che non si poteva più esercitare il potere
operaio, che bisognava alzare il livello dello scontro. Temevamo, fin
da allora, una tendenziale clandestinizzazione dei nuclei duri in
fabbrica e sul territorio, come dimostrava la cosiddetta uscita della
corrente operaia dalla dissolta Lotta Continua Dall'osservatorio della
libreria si poteva cogliere con chiarezza un rinnovato interesse per le
pratiche armate e per le stesse Brigate Rosse. A fronte di questi processi
c'era la grande novità dei circoli giovanili nati nei grandi hinterland
metropolitani. C'era la grande diffusione di un giornale come
A/traverso che, nato a Bologna, principalmente in ambito
universitario, trovava negli studenti fuori sede un humus sociale di rivolta
sorprendente, nel mentre i suoi contenuti e il linguaggio nuovo con cui
erano comunicati venivano assunti da un intera fascia generazionale
sparsa nelle diverse città d'Italia. Era sostanzialmente il primo
movimento che vedeva insieme intellettuali colti e, per esempio a
Roma, borgatari. Ragazzi di periferia e politici super-preparati in un
rapporto estremamente flessibile e non autoritario. Tutto ciò portava
anche a una cultura completamente diversa dalla precedente, quella
basata sul concetto di militanza rigida e verticale che separava il politico
dal personale o il privato dal sociale. Tutto questo invece nel movimento
'77 veniva a cambiare: il personale è politico espresso precedentemente
dalle femministe voleva a quel punto diventare prassi collettiva e la
critica della forma-partito diveniva così definitiva e irreversibile. Il lungo
percorso della rivolta antiautoritaria iniziato con gli hippies e i giovani
delle magliette a righe degli anni Sessanta e in qualche modo interrottosi
con la stagione dei gruppi politici verticali, riprendeva di colpo rinnovato
da più densi contenuti e da una nuova e diversa composizione di classe.
In un breve periodo di tempo si assisteva così a una profonda modifica
delle culture diffuse, dei comportamenti collettivi, degli immaginari di
riferimento. Per esempio venne riscoperta interamente la letteratura che
invece prima era stata sotterrata a favore della saggistica politica. Noi lo
avvertivamo dal fatto che in libreria aumentavano vertiginosamente le
richieste di poesia, fra tutti Rimbaud, ma anche di tutta la grande
letteratura mitteleuropea, quella, per intenderci, della grande crisi
dell'unità individuale dei soggetti e delle grandi domande sul presente e
sul senso dell'esistenza. Sostanzialmente un'autentica rivoluzione
culturale ed esistenziale in cerca di punti riferimento, di nutrimenti e di
conferme. Il grande successo di un testo difficile come l'Anti-Edipo di
Deleuze e Guattari, una specie di Bildungsroman generazionale, era
l'indice più evidente delle modifiche in corso. Certamente ciò significava
anche il tramonto della storica centralità operaia e cioè di quel motore
centrale che aveva assicurato la riproduzione del conflitto e che aveva
fatto sì che qui da noi, a differenza della Francia, il '68 fosse durato un
decennio di più. E in effetti gli operai in Italia hanno avuto un ruolo
determinante. Probabilmente il nostro '68 non ha mai avuto la radicalità e
la profondità culturale di quello del maggio francese, ma lì, in Francia,
nell'inverno di quell'anno il movimento era già finito con la svolta
gollista e gli operai erano tornati silenziosi nelle fabbriche; mentre in
Italia con l'autunno caldo la centralità della fabbrica era diventata l'asse
portante di tutto il conflitto e la sua egemonia aveva investito tutta la
società. Il movimento dei consigli di fabbrica è stato probabilmente la più
complessa espressione della maturità operaia in Europa. Sostanzialmente
ha rappresentato una vasta democrazia di base sorretta dai processi
materiali che si assumeva il compito generale di rinnovare la società in
direzione egualitaria. Basti pensare che nella piattaforma dei
metalmeccanici (FLM) del '74-75, tra le rivendicazioni, vennero
contemplati il diritto allo studio, il diritto alla casa, il diritto alla
salute, cioè i contenuti, gli obiettivi generali che in genere sono di un
partito, come del resto la conquista delle 150 ore (ossia l'ottenimento del
titolo di studio) durante l'orario di lavoro e quindi a spese del padrone. Si
può dire che proprio questo grande ciclo di lotte assicurava al resto della
società quegli spazi di libertà che consentivano ai movimenti sociali di
riprodursi in continuazione.
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