Perché la pena? Vincenzo Ruggiero Anche quand'era in vita consideravo Primo Moroni un grande 'etnografo urbano'. Lui rideva quando lo definivo così, in quanto sosteneva di aver trovato, in quella che io chiamavo 'etnografia', un'alternativa alla condanna cui lo destinavano i suoi studi medi tecnico-professionali. Quando a scuola gli davano una lima per mettere in piano un cubo di ferro, si rendeva conto che le sue abilità risiedevano altrove. Primo Moroni raccontava che il suo abbandono della scuola fu suggellato dal lancio rabbioso di quel maledetto cubo contro il muro e, se ricordo bene, dal conseguente scontro fisico con l'assistente tecnico-pratico di 'aggiustaggio', il quale non immaginava per il suo allievo un futuro senza lima, morsa e regolo. Quel lancio rabbioso del cubo di ferro è stata la nostra fortuna. Etnografo urbano, sociologo di strada, Primo Moroni osservava e descriveva, parlava e lasciava parlare; la sua era una sociologia militante in un periodo nel quale 'sociologo' era un insulto. E' su questo sfondo che va considerato il suo e il nostro lavoro sulle tematiche del carcere e della devianza; se qualcuno accusava la nostra produzione scritta di essere 'un po' sociologica' non si rendeva conto del complimento che ci rendeva: ci insultava, al contrario, chi riteneva quella produzione un po' 'politica'. Chi ufficialmente disprezzava la sociologia, in fondo, fondava la propria 'politica' su dati sociologici prodotti da agenzie istituzionali, come il Censis o la Cisl. Il nostro era un tentativo di condurre ricerca indipendente, di raccogliere le esperienze di chi ci viveva intorno, di addizionarle alle nostre, e di trarne riflessioni e formulazioni collettive. I rapporti con detenuti, ex-detenuti, parenti dei medesimi, ma anche con operatori della giustizia, assistenti sociali, avvocati e giudici, erano la linfa del nostro lavoro. Ma anche in questo caso occorre precisare il senso della nostra relazione con il 'politico'. Occuparsi di carcere negli anni '70 e '80 dello scorso secolo era come pronunciare una sorta di auto-denuncia; il carcere veniva considerato il luogo per eccellenza nel quale la 'sovversione' doveva essere annientata, ma simultaneamente il luogo dove la stessa sovversione poteva divulgarsi. I comitati per la difesa dei detenuti politici venivano presi di mira dagli inquirenti e dai mass media in quanto 'agenti esterni e interni' della lotta armata, organismi di trasmissione del dissenso e della rivolta tra militanti in custodia e complici o simpatizzanti in libertà. Ricordo che alcuni attivisti, purtroppo, facevano propria questa interpretazione inquisitoriale e mediatica, quando ad esempio guardavano con sospetto a iniziative contro il sistema carcerario che non si ispirassero ai leader 'naturali' di quelle iniziative, vale a dire alle organizzazioni armate e ai loro militanti detenuti. Dopo tanti anni possiamo dirlo: il nostro lavoro con Primo Moroni non si ispirava a Renato Curcio (scusa Renato, non ti offendere), ma piuttosto al Michel Foucault di 'Sorvegliare e Punire' e al Victor Hugo de 'I Miserabili'. Ecco un elenco sommario, apparentemente contraddittorio, di che cosa secondo noi costituiva e costituisce l'universo carcerario:
- il carcere non è rivolto ai detenuti, ma a coloro che esigono continue rassicurazioni in merito all'esemplarità della propria condotta; - il carcere è il tributo pagato da chi non riesce a dimostrare che la sua condotta è meno dannosa di quella di coloro che lo condannano; - il carcere non è altro che un periodo di riposo violento, una forma di cassa integrazione degradante e non pagata, per chi viene espulso dal ciclo dell'economia criminale in quanto 'esuberante'; - il carcere, in periodi e sistemi di piena occupazione, seleziona forza lavoro coatta, alla quale affida le mansioni più avvilenti e faticose; è carcere produttivo (si vedano i gulag sovietici); - il carcere, in periodi di esuberanza di lavoro, assume funzione distruttiva, deve eliminare il surplus di energie disposte ad occuparsi: è carcere improduttivo che sa soltanto annientare; - il carcere, quando inflitto ai minori, è una forma di nonnismo sociale erogato a chi deve 'pagare' per diventare come la maggioranza degli adulti; - il carcere, quando inflitto alle donne, è un avvertimento affinché non diventino come gli uomini; - il carcere, quando inflitto agli stranieri, è un monito rivolto a tutte le persone socialmente vulnerabili: non crediate di poter commettere reati senza possedere status, protettori, alleati e complici nel mondo ufficiale; - il carcere traduce in sofferenza la nozione volgare di scambio e commercio: il creditore si appropria del corpo e della mente del debitore, che è incapace di farsi commerciante; - il carcere non intende risocializzare, ma soltanto vendicarsi, producendo handicap psico-fisici; - il carcere serve ad abbassare le aspettative sociali di chi lo subisce: una volta in libertà, gli ex detenuti accetteranno qualsiasi occupazione e retribuzione; - il carcere è l'estensione del mercato del lavoro sommerso, destinato a chi si trova suo malgrado in una 'porta girevole' che lo conduce periodicamente dal lavoro mal retribuito al lavoro semi-legittimo, da qui al lavoro extra-legale e, appunto, alla detenzione; - il carcere, in quanto crea opportunità di lavoro, è un contributo, una tassa, estorta da chi altrimenti sfuggirebbe al computo fiscale; - il carcere eroga servizi in condizione coercitiva a chi quei servizi non ha ricevuto in libertà; - il carcere è un deposito di esseri umani, un concentrato di problemi creati da chi non è in grado di risolverli; - il carcere è parte dell'industria della sicurezza, troppo remunerativa per concepirne l'abolizione. pubblicato sulla rivista Come 2007 |