|
...
Arriviamo così agli anni Ottanta: gli anni della ristrutturazione,
gli anni del totale sfaldamento dei gruppi e del movimento di massa
Come reagirono le intelligenze politiche che f no ad allora avevano
fatto riferimento alla libreria e a tutto ciò che essa rappresentava?
Gli anni Ottanta iniziano simbolicamente e materialmente con la
sconfitta degli operai Fiat e la famosa marcia dei quarantamila colletti
bianchi o quadri intermedi della Fiat in appoggio al piano padronale.
Decine di migliaia di operai vennero messi in cassa integrazione, esclusi
dalla fabbrica dove, nonostante le promesse, non sarebbero più rientrati.
Venne in questo modo decapitata la parte più combattiva della classe
operaia. Un'autentica tragedia che ne trascinò molte altre e in altre città
industriali del nord. Nelle vicende torinesi le conseguenze furono
particolarmente drammatiche: nei periodi successivi si suicidarono circa
300 operai in cassa integrazione e più di duemila finirono quasi
impazziti, in cura all'Istituto di Igiene e Prevenzione Mentale di Torino
che, al tempo, era diretto dallo psichiatra Agostino Pirella. L'anno
precedente (nel '79) c'era stato il 7 Aprile e cioè l'arresto delle
migliori intelligenze espresse dal movimento. Da quella data in avanti gli
arresti si susseguirono per anni in maniera ininterrotta. In questo clima
molte delle librerie del circuito Punti Rossi vennero chiuse o
criminalizzate e molte non avrebbero più riaperto. Chiudemmo anche la
Cooperativa Ar&a che rappresentava il più organico tentativo di creare
una struttura editoriale produttiva che avesse la forza di confrontarsi con i
grandi organismi di distribuzione editoriale che, com'è noto, sono da
sempre uno dei nodi strategici della diffusione della cultura in Italia.
Nell'Area avevamo riunito sotto un unica sigla editoriale una decina di
case editrici autogestite (Squi/libri, Librirossi, Edizioni del No, Coop
Scrittori, Edizioni delle Donne, Lavoro Liberato, ecc.) che,
complessivamente, pubblicavano un numero di titoli sufficienti da
permetterci l'accesso alle Messaggerie Italiane che era e rimane
l'organismo distributivo più importante del panorama editoriale italiano.
Questo ci permetteva, per la prima volta, di arrivare praticamente in tutte
le librerie e con un progetto che manteneva le differenze e metteva in
evidenza la ricchezza culturale della produzione. Comunque anche l'Area
si dissolse insieme alla miriade di organismi che erano la struttura
portante della comunicazione antagonista. Il panorama culturale e
politico complessivo era desolante e ti toccava leggere sul Corriere
della Sera personaggi come Leo Valiani (uno dei padri della
Costituzione) che affermava che quando è in pericolo la democrazia
anche la tortura nelle carceri può diventare un mezzo lecito. D'altronde il
quotidiano ufficiale del PCI, l'Unità, scriveva anche di peggio e un
suo giornalista che si chiamava Ibio Paolucci mi è rimasto
particolarmente impresso per la volgarità dei suoi articoli. Dopo un
periodo di assestamento, finalmente nel 1981 ci fu un tentativo di risposta
sulla base del convincimento o meglio dell'intuizione del fatto che ciò
che non era riuscito ai corpi militari, ai corpi separati dello stato da,
'63 (il caso SIFAR), alle stragi, ovverosia una svolta autoritaria
somigliante a una specie di colpo di stato, stava avvenendo in quel
momento e veniva attuato più o meno palesemente con metodi violenti
ma democratici. Sostanzialmente avveniva una modifica profonda e
anticostituzionale della sfera delle libertà individuali: cambiavano,
attraverso le legislazioni speciali, i codici e i fondamenti dello stato di
diritto. Abbiamo allora organizzato un grande convegno nazionale alla
Palazzina Liberty di Milano, al quale parteciparono più di duemila
persone mentre tutta la zona circostante era presidiata da un numero
equivalente di poliziotti. Il convegno durò due giorni e tentò di dare una
risposta ad alcuni quesiti di fondo mentre uno degli obiettivi era quello di
rifondare una rete nazionale di collaborazione e di solidarietà. Nacque
così il Coordinamento dei Comitati Contro la Repressione. Uno degli
aspetti surreali della fase riguardava, per esempio, la figura di Pertini, il
Presidente più amato dagli italiani. Durante il suo settennato è avvenuto
di tutto e il contrario di tutto. L'immagine di Pertini è stata un'invenzione
della televisione e dei partiti, un falso storico e politico: che lui possa
essere stato in buona fede o meno non so dirlo, però sostanzialmente, è
stato usato come coperchio per una pentola che cuoceva di tutto e
tutto era pessimo e al di fuori dei più elementari principi democratici. Si
pensi che a un certo punto i termini della carcerazione preventiva erano
stati portati a dodici anni per cui uno, al limite, poteva essere assolto o
prendere una pena di pochi anni e aver già scontato una condanna
preventiva di molto superiore o del tutto iniqua. In questa situazione la
fase terminale del Partito comunista rivelava tutte le ambiguità che si
trascinava dietro fin dal 1945 e il suo intrinseco statalismo. In questo
senso, e malgrado lui, Berlinguer è stato forse il segretario di Partito
comunista occidentale più tragico di tutto il dopoguerra. La sua linea
politica e la sua strategia sono state interamente riassorbite e
strumentalizzate dalle varie lobby di potere, non è riuscito a difendere
nessuna delle conquiste operaie, ha contribuito alla demolizione di interi
pezzi dello stato democratico e non ha capito neanche una virgola di
quello che stava avvenendo in termini di trasformazioni radicali nei
processi materiali della società italiana e, più in generale, nel panorama
internazionale. Nessuno oggi è in grado di dire se fosse o meno cosciente
del disastro che contribuiva a determinare e, d'altronde, PDS o
Rifondazione che siano, la gran parte dei comunisti non pare in grado di
capire, di avere gli strumenti per decifrare e interpretare sia i processi
politici cui hanno partecipato, sia le trasformazioni strutturali in atto. La
nostra risposta dell'81 fu quella di raccogliere attorno a noi gli avvocati
più intelligenti, i magistrati più disponibili, le intelligenze di ricerca non
ancora incarcerate o fuggite all'estero e riprendere in mano i fili di tutta
la vicenda per capire cosa stesse succedendo in termini di modifica degli
assetti istituzionali, e conseguentemente discutere degli spazi di libertà e
della pratica politica in una situazione così, una situazione in cui cioè eri
costretto ad appiattirti sulla repressione. Non si facevano più progetti
politici, né esistenziali: tutto era incentrato sulla risposta da dare.
Dovevi combattere contro i braccetti speciali delle carceri, contro
l'articolo 90. Dovevi lottare perché migliaia e migliaia erano in carcere,
perché c'erano le torture, perché nei processi politici non c'era più diritto
di difesa, perché dovevi raccogliere i fondi per gli avvocati, perché
dovevi mandare migliaia di libri o milioni in denaro nelle carceri. A un
certo punto credo che ci siano stati oltre 8000 compagni in carcere, di cui
in seguito verranno condannati circa in 5000 su un numero di 40.000
inquisiti e più di 100.000 indagati. Sono cifre da paese latino-americano:
nessuna nazione occidentale ha avuto una fase così repressiva. Sono
episodi da dittatura. Tutto questo ha inciso sul vivere a sinistra in
maniera drammatica, ha significato diventare per tre anni uno specialista
di codici, di processi, di sistemi carcerari nella loro evoluzione storica.
Tutte le riviste che escono in quel periodo sono ultra-specializzate sul
carcere, sulla magistratura, sulla polizia, sulle forze dell'ordine. Mi
ricordo anche della pubblicazione di manuali di sopravvivenza nel
carcere. Questo intendevo quando dicevo che eri costretto ad
appiattirti sulla repressione: non avevi né le forze né la capacità di fare
nient'altro che quello perché dovevi difendere i tuoi amici, i quali
facevano comunque parte della tua storia, della tua vita anche se eri
lontanissimo dalle loro scelte. Questa situazione fece scomparire
moltissima gente: è la distruzione della comunità reale che diventa
drammatica e totale. Rimangono dei piccoli gruppi, le riviste una a una
muoiono tutte, credo che le ultime a morire siano
CONTROinformazione e Primo Maggio nell'85, la fase finale. La
libreria diventa pressoché ingestibile. E ciò al di là del fatto che fosse
stata sfrattata per motivi di speculazione immobiliare: in realtà non aveva
più una funzione, non c'erano più materiali di informazione, non c'erano
più quelle case editrici che avevano prodotto la cultura degli anni
Sessanta e Settanta come Mazzotta, Savelli, Bertani; sparisce dai
cataloghi editoriali anche tutta la cultura prodotta allora, ma non solo
quella più sovversiva: dalla Feltrinelli spariscono tutte le collane
inventate da Giulio Maccacaro, un grande scienziato che rovesciò la
figura del tecnico socializzando il sapere senza produrre la
mercificazione o la verticalità baronale. Viene eliminata anche tutta la
corrente della psicanalisi critica. In realtà non si trovava più la cultura
che giustificasse quella libreria: o ci adattavamo all'andazzo e cioè, in
quel tempo, significava avere libri esoterici, diventare esperti di
Castaneda, di René Guenon e di tutti gli stregoni e gli sciamani apparsi
sulla faccia della terra (che arrivano come conseguenza diretta
dell'introduzione massiccia, soprattutto da parte delle donne, della
psicoanalisi junghiana), oppure niente. C'erano poi libri riguardanti il
corpo, l'alimentazione, l'igienismo, e poi ancora: la grande letteratura
della crisi e quindi Roth, Walser, Musil, la Mitteleuropa della crisi tra le
due guerre, quella della frantumazione dell'unità dell'individuo. Però è
poco soddisfacente gestire una libreria così, nel senso che lo fa già bene
una buona libreria di cultura borghese: non c'è bisogno di costruire una
libreria alternativa come punto di riferimento per queste cose.
Nell'intervista del 1976 avevi sottolineato la grande importanza
che la libreria aveva nel campo della didattica alternativa: anche
tutto ciò era scomparso?
Ci stavo appunto arrivando: in quel periodo dalla libreria se ne va
anche quella componente straordinaria degli insegnanti. La libreria aveva
avuto sempre due sale dedicate alla didattica alternativa e quindi alla
produzione di strumenti di conoscenza diversi da quelli del libro di testo
inteso come volano autoritario della lezione. La libreria stessa ha
prodotto una parte rilevante di strumenti didattici sia per i bambini della
scuola elementare che per quelli delle medie e delle superiori. Abbiamo
collaborato alla realizzazione e alla diffusione dell'unica enciclopedia di
sinistra esistente in Italia. Si chiamava Io e gli Altri e l'aveva
prodotta Angelo Ghiron, un ex partigiano che faceva l'editore a Genova.
Nata inizialmente per i ragazzi divenne in realtà uno strumento di lavoro
per gli insegnanti. Abbiamo poi affiancato all'enciclopedia una serie di
libretti chiamati "Per leggere e per fare" che venivano spesso realizzati
insieme ai bambini delle scuole elementari. Basti pensare che
l'enciclopedia vendette più di cinquantamila copie e che i libretti
vendevano mediamente diecimila copie per capire quanto forte fosse il
movimento per una didattica alternativa. Tra l'altro le iniziative furono
molte e diversificate anche con altri centri di produzione come le edizioni
Ottaviano e il Centro di Documentazione di Pistoia con i quali abbiamo
realizzato la collana "Rompete le righe". Sempre nel campo della
didattica, ma nell'ambito operaio, abbiamo prodotto praticamente l'unica
serie di strumenti di lavoro per le 150 ore insieme alla CELUC e al
meglio degli studiosi in circolazione in quel momento. Tra il '79 e l'81
avevamo più iscritti noi al Centro di documentazione scuola che la CGIL
Scuola di Milano: questa ne aveva 800, noi ne avevamo 2200. Di questi,
con la legge sulla pensione baby, più di 1000 danno le dimissioni e si
mettono a fare altro. Capiscono che non è più possibile avere agibilità
nella scuola e se ne vanno. Quella fu un'altra tappa della restaurazione
autoritaria molto forte che avveniva ormai ovunque: nella fabbrica, nella
scuola, nella società e che, ripeto, stava drammaticamente riuscendo
soprattutto grazie alla collaborazione, radicale, totale e completa delle
forze di sinistra.
Tu prima hai fatto riferimento alla diffusione di massa
dell'eroina che proprio in quegli anni coinvolge migliaia e migliaia
di giovani, molti dei quali proprio provenienti dalla delusione della
militanza degli anni precedenti. Non tutti però caddero in quella
trappola che sembrava fabbricata apposta, dopo la repressione e la
carcerazione dell'antagonismo, per chiudere con il decennio della
rivolta. Quale fu la risposta politica alla strategia della droga?
Il movimento giovanile di risposta all'eroina è stato, nella sua sintesi
più radicale, il movimento punk. Il movimento punk, per la cultura da cui
provenivo io, era difficile da capire. Tra l'altro inizialmente i punk non
erano tra i frequentatori della libreria - ci arriveranno un po' più tardi -
perché vi era una visione troppo politica, se non da parte mia, da parte
dei frequentatori della libreria: anzi, credo che molti non li volessero
proprio vedere in giro, li consideravano deviazioni piccolo-borghesi.
Fu grazie a un episodio che coinvolse i punk milanesi che la loro
dimensione politica assunse un peso specifico differente. Con il
finanziamento di un assessorato della Provincia, in quegli anni venne
realizzata da sociologi di sinistra una ricerca sulle bande giovanili nella
quale i punk non si riconobbero. Così andarono a contestare la
conferenza stampa del convegno e durante la protesta si tagliarono il
torace con lamette da barba e distribuirono volantini sporchi di sangue ai
congressisti. Io stesso feci un volantino molto duro contro quella ricerca
perché i sociologi che avevano realizzato il lavoro erano ex militanti della
sinistra rivoluzionaria, per cui ritenevo fosse particolarmente grave che
non avessero capito cosa rappresentasse, in termini di risposta all'eroina,
il movimento punk. Il volantino piacque molto ai punk i quali lo
fotocopiarono per conto proprio e lo presero a modello come strumento
di comunicazione. Da quel momento incominciarono a venire in libreria
ma con idee molto chiare: loro non volevano far distribuire le loro
fanzine o le autoproduzioni musicali perché erano contrari alla gestione
commerciale dei materiali ma, tutt'al più, chiedevano di autogestire uno
spazio in proprio. Allora decisi di dar loro una saletta. Da quella saletta
più tardi è nata la rivista underground Decoder. In quel periodo questo
è stato l'unico episodio di vivacità giovanile a Milano di fronte alla
disgregazione e alla sconfitta del decennio precedente. E non era poco
perché, come dicevo prima, quegli anni sono comunque stati un periodo
molto drammatico: oltre ai suicidi cui facevo riferimento, vi era un
disagio psichico che si diffondeva. Molta gente era andata fuori di
testa, altri avevano scelto forme opportunistiche di carriera o di
abbandono, tutti, in ogni caso, esprimevano a loro modo un forte disagio
per ciò che era successo e stava succedendo.
I punk, comunque, erano i nuovi giovani che prendevano coscienza
della loro identità e della situazione che si trovavano a vivere
Molto spesso erano i fratelli minori di molti militanti degli anni
Sessanta e Settanta Ma questi ultimi, o almeno quelli che non erano
fuggiti o in clandestinità e che rimanevano quantomeno attenti alla
situazione politica e sociale che si andava determinando, come
reagirono al diverso stato di cose che si era concretizzato davanti
ai loro occhi?
Per molti, a quel punto, la riflessione sugli anni Settanta divenne
indispensabile perché la sconfitta non solo coinvolgeva tutti i movimenti
ma anche quella forza principale che aveva permesso la conquista degli
spazi di libertà all'esterno, nella società, cioè il corpo centrale della classe
operaia, il sindacato dei consigli, che erano stati fatti fuori in tre o quattro
anni dal Partito comunista e dal sindacato confederale. Da quella
riflessione e dalla rilettura storica di quel periodo il paradosso che
emergeva e diventava evidente era la constatazione che, durante gli anni
di forza del movimento, c'era stata la lunga stagione della strategia della
tensione poi, con quella di Brescia del '74 e in coincidenza con l'inizio
della crisi del movimento e con i nuovi indirizzi del PCI, le stragi si erano
interrotte di colpo fino a quella di Bologna che venne compiuta sei anni
dopo. La domanda politica del perché le forze della strategia della
tensione per tutto quel periodo non avessero fatto più attentati aveva una
risposta molto inquietante e anche drammatica. Il fatto era che in Italia,
ormai da anni, si stava attuando una svolta istituzionale tale e quale a un
autentico e strisciante colpo di stato e la cosa spaventosa e
impressionante era che veniva gestito, coperto e appoggiato dal sindacato
e dal Partito comunista. Questo fu un dramma politico culturale di
enorme complessità perché un Partito comunista sostanzialmente votava
la gran parte delle leggi speciali che erano tutte in deroga ai principi
costituzionali e allo stato di diritto. Non che il PCI sia stato mai
particolarmente libertario: l'ideologia del gruppo dirigente del PCI è stata
piuttosto repressiva da sempre. Da ciò però passare direttamente alla
gestione della repressione fu una modifica del quadro complessivo tale da
far sì che quella che prima era stata la strategia della tensione, fatta
essenzialmente di trame occulte, diventasse invece palese e direttamente
gestita dai ministri, dal governo come strategia complessiva: era un'altra
cosa rispetto alle bombe ma con obiettivi altrettanto violentemente
repressivi. L'unica spiegazione da dare a posteriori è che queste forze
occulte si sentivano soddisfatte della svolta istituzionale in corso e non
avevano bisogno di fare le stragi come strumento di pressione. Però
questo poneva una serie di questioni non irrilevanti perché grandi
pensatori come Asor Rosa, come Cacciari, come Tronti, che in quel
momento erano nel Partito comunista ma che erano stati anche molto
vicini alla cultura e all'elaborazione teorica del marxismo critico della
Nuova Sinistra, non capirono che cosa stesse in realtà succedendo e non
fecero niente se non alcune battaglie genericamente garantiste. Altro e
con altri mezzi sarebbe stato il problema più radicale da affrontare:
mutava il sistema produttivo, mutava il complesso del sistema dei partiti
e della centralità democristiana e dello schieramento internazionale,
tutto ciò significava che si stavano modificando interamente le regole del
gioco, gli spazi di libertà individuali e che, conseguentemente, tutte le
culture che erano di segno opposto venivano fatte fuori. Se poi si pensa
che a tutto ciò si aggiunse il dramma dei processi politici con il problema
dei pentiti e dei dissociati ci si rende conto che cosa significasse
vivere a sinistra in quegli anni…
Questo è un punto nodale del dibattito degli anni Ottanta:
pentitismo e dissociazione creano infatti una spaccatura irreparabile
nell'ambito delle analisi e della prassi politica della sinistra
rivoluzionaria. Come sono andate le cose e che tipo di riflessi aveva
questa questione nell'ambito generale della sinistra?
C'è stato per un lungo tempo un problema linguistico. Noi abbiamo
sempre pensato che il pentito in realtà non esistesse: il vero pentito per
noi era il dissociato, colui che, di fronte allo Stato, riconosceva di avere
sbagliato e chiedeva una diminuzione di pena in virtù del fatto che
rinunciava alla propria identità e alla propria storia precedente. Il pentito
ufficialmente riconosciuto tale da magistratura e media invece era la
classica figura del delatore, dell'informatore o, se vogliamo, dell'infame
e del traditore. Questo pentito scambia la propria libertà personale
mandando in galera altri. Quindi ogni discussione in merito è inutile. Il
dissociato è invece una figura più complessa e più pericolosa perché
rappresenta un progetto politico ben preciso. La dissociazione ha
prodotto un equivoco e una frattura di interpretazione politica dei concetti
etici che sottintendevano un comportamento di sinistra che non si è
mai più ricomposta. La legge sulla dissociazione non è stata un passo
nella direzione del superamento dell'emergenza, come anche da sinistra
molti intendevano e intendono ma, al contrario, è stata una legge
perfettamente emergenziale. Questa interpretazione è fondamentale ma
anche il manifesto, che pure è un giornale che se non c'era bisognava
inventarlo, è rimasto fermo a questa visione della dissociazione come
superamento dell'emergenza. Tutto ciò per noi era sbagliato:
l'emergenza era il nuovo metodo di governo nella fase di transizione tra
un sistema produttivo e un altro, e la gran parte di quelle leggi che erano
state elaborate non erano più emergenziali semplicemente per il fatto
che erano entrate nel diritto normale modificando la filosofia che
sottintendeva tutta la sfera delle libertà individuali. La giustizia, diventata
tutta premiale, assumeva una logica di scambio, il diritto di difesa doveva
legarsi a quella logica di scambio e la tragedia culturale di vedere dei
marxisti, come quelli del Manifesto appunto, che appoggiavano questo
tipo di tendenza provocava un disagio molto profondo. Tornando alla
libreria che, come dicevo, ha avuto 600-700 arrestati tra coloro che
facevano parte del nostro schedario, ha scontato anche alcuni riscontri
commerciali non irrilevanti, perché tra quelli arrestati, 280 avevano un
rapporto rateale con noi, il che ha significato che in due anni abbiamo
perso circa 40 milioni di lire per vendite rateali: non potevamo certo
mandare i bollettini di pagamento in carcere a gente che aveva preso 10
15 o 20 anni di galera. E' un riscontro bottegaio della repressione però, su
una struttura economica fragile come quella di una libreria alternativa, ha
avuto comunque un effetto devastante perché, naturalmente, agli editori
non gliene fregava assolutamente niente se le fatture le dovevi pagare tu,
libraio, e non i tuoi clienti perché impossibilitati a farlo. Ciò nonostante,
per un certo periodo, prima che arrivasse questo disastro della
differenziazione carceraria, organizzando sottoscrizioni, abbiamo
comunque mandato libri e riviste gratuitamente a centinaia di carcerati.
Poi tutto questo si è frantumato.
Da questa frantumazione, politica, culturale, individuale che ha
investito le generazioni a cavallo tra il decennio dei Sessanta e
quello dei Settanta, come ne sono uscite e come hanno attraversato
gli anni Ottanta la teoria e la cultura elaborate allora?
Questo fatto dell'essere di sinistra, per lo meno per la mia
generazione ci metto quelli che hanno fatto ricerca, indifferentemente
dai valori qualitativi e quantitativi, quelli cioè che hanno partecipato a
Quaderni Rossi, a Classe Operaia o a Potere Operaio, e poi
all'Autonomia e al movimento del '77 non ha mai significato fare un
uso della teoria marxista come di un Talmud, come cioè un punto
irrinunciabile di riferimento. Ci si richiamava al marxismo critico come a
uno strumento di conoscenza, e non come a una Weltanschauung, a una
concezione generale del mondo. Marx verrà affiancato da Fanon, da
Joyce, da Rosa Luxemburg, da Don Milani, da Sartre, da Foucault. Non
c'era un criterio: tutt'al più una trama di fondo che attraversava la storia
dall'Ottocento a oggi. Era un modo di leggere le trasformazioni
economico-produttive, ma non solo quelle perché, a quelle analisi, gli si
affiancavano Laing, Cooper, Basaglia, la grande cultura del modernismo
che va dal Faust di Goethe per arrivare a Mondrian, alla musica del
Novecento e in più mantenendo dentro tutto ciò la rivolta esistenziale
della generazione degli anni Sessanta. Quindi c'era molto Camus o
Musil, Sartre e Joyce. Il che voleva dire che alla radice tu ponevi come
problema te stesso e la destrutturazione di quello che avevi dentro come
percezione del mondo. Era capire che quello che eri come soggetto
spontaneo a 18, 19 anni era esattamente tutto quello che avevi dentro e
che però non avevi scelto di avere: ti era stato portato da altri senza che ci
fosse una difesa possibile. E' un concetto specificatamente sartriano, un
uso marxista del pensiero sartriano: per questo motivo c'è stato
quell'incrocio teorico sulle istituzioni totali, con Laing, con Cooper,
con Basaglia o con altri, dovevi destrutturare e capire allora perché nella
sessualità avevi paura della omosessualità, perché se trovavi una donna
eri geloso, perché avevi un contrasto con la figura materna o paterna che
poi trasferivi nella società. E poi ancora, che tipo di rapporto avevi con il
denaro o con il corpo: per fare ciò non era sufficiente lo strumento
marxiano, dovevi dilatarlo all'infinito con una serie di questioni che in
realtà, per lungo tempo, ti destrutturavano come soggetto perché
diventavi senza più riferimenti. Questo mantenere l'inquietudine del
mondo produce solitudine, angoscia e, a volte, determina un confine sottile
fra follia e ragione. Ti confronti con il dominio del potere rovesciando i
saperi e creandone altri. Questo non avere riferimenti od orizzonti
determinati, ma possedere gli strumenti per rendere flessibile la propria
capacità soggettiva di rapportarsi al mondo destrutturando però se stessi,
è una delle fasi più determinanti perché una volta innescato quel
meccanismo non ci si ferma più, non puoi tornare indietro. Non si ferma
più e diventa una continua dilatazione: quindi è comprensibile che una
parte dei giovani hippies degli anni Sessanta pensassero che per scoprire
ancora di più profondamente quello che realmente erano loro e che non
avevano scelto di essere, fosse necessario ricorrere all'acido lisergico,
perché sotto l'effetto dell'LSD, nel viaggio, scoprivi quello che eri
veramente e una volta terminato l'effetto allucinogeno potevi davvero
eliminare quelle parti negative che venivano individuate. Il ricorso
all'acido era un tentativo estremo: se non lo facevi con l'acido lo facevi
con una grande concentrazione e una serie di letture disordinate e
sterminate ma che a un certo punto diventavano armonia e quindi eri
capace di capire immediatamente, aprendo un testo, ascoltando una
musica, che forse tutto ciò rientrava in quella filigrana di fondo molto
diversificata che contribuiva a darti forza e capacità di analisi o di
relazione con il mondo. La sensazione è che, negli anni Ottanta, questo
percorso che era durato vent'anni andasse in malora anche perché, come
ho già detto, sparivano tutte le culture di riferimento creando questo
vuoto, questo collasso che dura tuttora. A volte, durante i moltissimi
dibattiti in giro per l'Italia cui partecipo, distribuisco bibliografie di
riferimento in relazione ai temi affrontati e mi rendo conto che non
esistono più i libri che cito: non ci sono proprio più. Per di più sono
scomparse quasi tutte le riviste di dibattito: solo ultimamente sono
riapparsi segnali di autogestione della comunicazione, il che vuol dire che
forse sta cambiando qualche cosa, ma per anni e anni non c'è stato più
niente.
1
2
3
4
|