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Quando arrivano gli anni in cui non c'è più nulla, anche la
Calusca scompare
Quando chiudiamo la libreria nel 1985 è proprio perché c'è molta
stanchezza: Si sarebbe potuto andare avanti ma non c'erano più le energie
soggettive per proseguire. Non era solo una questione di soldi: la Calusca
era talmente nota che se avessi lanciato una sottoscrizione nazionale la si
sarebbe salvata ugualmente. Non c'era proprio più la volontà. Posso
anche assumerla soggettivamente come responsabilità: in tutto ciò, oltre
al politico infatti, si è frantumato anche il privato, nel senso che il mio
matrimonio con Sabina, che è stato un elemento determinante nella
gestione dell'equilibrio di questo lungo percorso degli anni Settanta
nell'esistenza della libreria, si è rotto. Per causa mia suppongo, nel senso
che avevo iniziato una relazione con un'altra donna, a suo modo anche lei
straordinaria. Questo saltare della struttura familiare, che ripeto, e stato
un elemento di equilibrio e di ricchezza creativa che permetteva i ritmi da
10 ore al giorno passate in libreria con centinaia di persone che venivano
e con un incrocio di 50 riviste e due circuiti di distribuzione, fa
collassare tutto, interamente, e non a caso finisce tutto quanto insieme.
Non è tanto l'aver incontrato in quel periodo un'altra donna, che potrebbe
anche sembrare banale o normale, il fatto è che è proprio in quel periodo
che avviene tutto: crisi della comunità reale, dissoluzione di
un'esperienza politica e umana, crisi della libreria. Così sono andato
anch'io fuori di testa. Tra il 1985 e il 1987 sono stato molto male: ero
fuori casa, disperso nelle abitazioni della città che mi ospitavano, però
non era la stessa cosa che avere il luogo con tutti i tuoi libri, tutte le tue
riviste, il tuo mondo, la tua riflessione e la tua donna solidale e
appassionata. Bevevo molto, una volta sono stato privo di memoria per
due giorni a causa dell'alcool. Mi ero completamente sfatto di alcool o di
tranquillanti perché non riuscivo a capire esattamente dove stavo
andando.
Come ne sei uscito?
Dopo la crisi venne il momento di inventare una nuova situazione,
senza però dimenticare tutto quanto era stato. Inventare un'altra
situazione voleva dire dotarsi nuovamente di strumenti, di comunità reali
più o meno inventate o accettate. Questo è stato il mio percorso degli
ultimi anni: mettermi a lavorare come ricercatore una dimensione
nella quale posso acquisire saperi dalle nuove élite mantenendo
contemporaneamente i miei saperi andando a osservare come il livello
alto della tecnologia, dell'innovazione tecnologica, delle nuove forze
produttive abbia la sua ricaduta nel sociale con la frantumazione di
migliaia di soggetti nell'eroina, nell'emarginazione o nell'omologazione.
Oltre a occuparti della Calusca oggi lavori dunque come
ricercatore?
Sì, lo faccio da libero professionista per una società milanese, il
Consorzio Aaster che lavora pressoché esclusivamente con le istituzioni
ovverosia lavora con il CNEL, con il CENSIS, con la Regione Lombardia
e altre realtà di questo tipo. Recentemente abbiamo fatto una ricerca per
la CGIL sulla Lega Lombarda che è durata moltissimi mesi. L'anno
scorso abbiamo invece realizzato una ricerca che ha portato alla prima
conferenza nazionale sull'immigrazione. Non sono un dipendente di
questa società, che peraltro è stata fondata da un mio amico e compagno,
perché ritengo di essere soggettivamente troppo irregolare per
identificarmi completamente in un progetto di ricerca che, comunque la si
metta, richiede comunque qualcosa di più di una prestazione
professionale, richiede, cioè, anche un'adesione più profonda. I rapporti
amicali mi consentono invece di aderire alle ricerche più
corrispondenti ai miei interessi e nelle quali posso a mia volta dare un
risultato migliore di collaborazione. Questo lavoro oltre all'indubbia
anche se limitata funzione economica, mi ha permesso di acquisire
intelligenza e saperi per così dire sul campo. Molti pensano che
lavorare con le istituzioni sia una forma di contaminazione e
probabilmente in generale è abbastanza vero, ma io penso che uno in
possesso di una sua relativa maturità, di identità e di saperi non debba
temere questo confronto. Certamente è sempre una sfida perché non sai
mai se fornisci più intelligenza tu a loro o se sei tu a prenderne. Però io
penso che Oggi sia indispensabile stare nel punto più alto della ricerca
e contemporaneamente che sia indispensabile vivere anche nei luoghi
dove più visibile è la ricaduta dei grandi processi di trasformazione o
dove la mutazione del paradigma tecnologico accenna a dare delle
risposte diverse dalla semplice integrazione-accettazione.
E' il pensare con il corpo di Vittorini
Sì, sostanzialmente sì: anche i cyberpunk dicono tenere i piedi in
strada e la testa nelle tecnologie. Più o meno si tratta sempre di fare
questo gioco ed è per questo motivo che la riapertura della Calusca serve,
perché ci deve essere un'agenzia di riferimento che fa rete con la città
come storicamente ha sempre fatto: luogo di movimenti non solo
milanesi o nazionali ma, se riuscirà, internazionali. Non poteva essere
così quattro anni fa: oggi sì, vuol dire probabilmente che fa parte dei
nuovi segnali nell'aria.
Di tutta questa storia degli ultimi quindici anni, oggi che cosa
resta?
Di tutto ciò restano delle minoranze sparse in giro per l'Italia che
hanno salvato parti consistenti di identità, nonostante il carcere o i
processi, che a loro volta pero hanno difficoltà a metabolizzare il nuovo
moderno, cioè la nuova fase, che è globale, che è fatta di innovazione
continua e che non permette più di avere come riferimento una figura
forte come la classe operaia Queste sono minoranze sparse in tutta
Italia che, a volte, si sono incrociate con nuove composizioni giovanili: è
il caso dell'area padovana e in parte dell'area toscana. Nel caso di Milano
la distruzione è stata veramente profonda, totale radicale, non si è salvato
quasi nulla. A volte si fanno delle critiche ai giovani del centro sociale
Leoncavallo: nessuno si rende conto però che non c'è stata città in Italia
in cui le figure politiche di riferimento, gli organismi, le culture le riviste
siano scomparse così totalmente come a Milano. A Milano ricostruire e
molto più difficile: quelli del Leoncavallo possono essere apparentemente
meno dialettici in rapporto ad altri centri sociali nazionali ma, in realtà,
non è cosi: e una condizione obbligata per chi sta dentro, nel punto
centrale nel cuore della ristrutturazione finanziaria, economica,
produttiva, tecnologica che produce un nemico che forse è poco visibile
ma che ti tritura quotidianamente. A Milano non hai spazi di socialità
dati: città come Padova o Bologna ne hanno molti di più con l'effetto
positivo di un maggior tempo per il soggetto di riflettere sul proprio ruolo
nel mondo. Le risorse anche a Milano ci sono ma andrebbero
socializzate. Nell'ultimo decennio non c'è stata la possibilità di
trasmettere la memoria, che non è la mitizzazione delle lotte dei decenni
scorsi, perché i cicli di lotte finiscono e il compito delle intellettualità e
proprio quello di immaginarne altre (altrimenti è una regressione tipo
quella che io vedo in Rifondazione Comunista che rischia di essere un
tornare indietro per attestarsi su un'identità precedente, non tenendo
conto che molti strumenti del passato sono spuntati in rapporto alle
realtà di organizzazione dei poteri attuali) ma atterrebbe alla possibilità di
offrire uno spettro di riferimento complessivo, di strumenti e di
conoscenza che sono l'esatto opposto dell'omologazione dentro una
formazione politica. E' una soggettività critica dotata di una forte
strumentazione interpretativa che è utile per modificare se s essi in
rapporto al mondo, in rapporto al proprio privato, al rapporto uomo-
donna, al rapporto follia-ragione, al rapporto con il denaro.
Prima hai citato i cyberpunk. Qual è il tuo giudizio su questa
corrente che è andata affermandosi anche in Italia negli ultimi anni?
In qualche modo i cyberpunk italiani sono nati in Calusca a partire
dalla saletta data in gestione ai punk nel 1985. Lì è nata la rivista
Decoder che oggi rappresenta la punta più avanzata e sociale di
questa tendenza. Dall'iniziale rivista e poi nata la Cooperativa editoriale
Shake e la rete telematica autogestita Cybernet. Io credo che l'incontro di
Gomma, Raf, Paoletta, Marina, Rosy, Filopat e Gianni con la Calusca
fosse quasi un fatto scontato perché i luoghi metropolitani si attirano a
vicenda per affinità, i messaggi lanciati da un luogo giusto si
incrociano con i bisogni e la ricchezza soggettiva ne viene potenziata.
Con i punk prima e con i cyberpunk dopo, lo scambio di intelligenze,
saperi e progetto è stato paritario. E' stato un arricchimento reciproco. Io
credo che il cyberpunk sia la prima risposta, il primo sensore antagonista
dell'epoca del postfordismo. Dopo la lunga teorizzazione punk che
vedeva nell'espansione delle nuove tecnologie il realizzarsi della profezia
orwelliana del Grande Fratello e quindi l'ipotesi di un mondo dominato
dalla falsificazione mediatica, i cyberpunk rovesciano completamente
questo vissuto angoscioso decidendo di confrontarsi con il nuovo
paradigma tecnologico piegandolo a proprio vantaggio. L'uso sociale
delle tecnologie diventa in questo modo la nuova frontiera del
confronto antagonista con il nuovo assetto produttivo. A me questo
sembra un percorso di grande e nuovo interesse anche se immerso nella
tradizione rinnovata delle controculture. Nella mutata condizione storica i
cyberpunk ripercorrono la strada dei grandi movimenti hippies e beat
degli anni Cinquanta e Sessanta. Le controculture hanno proprio questa
straordinaria funzione storica: quella di anticipare i successivi movimenti
più politicizzati. In questa fase, del resto, io penso che non sia consentito
avere speranza nella fuga o nell'esodo. Occorre, a mio giudizio e ancora
una volta, stare dentro e contro.
Hai fatto un riferimento critico alla teoria dell'esodo che negli
ultimi tempi è stata avanzata da alcuni settori intellettualizzati
dell'area dell'ex autonomia operaia Per molti, però, quella teoria ha
solo il senso della provocazione
Sì, in un certo senso è anche una provocazione che però ha una sua
solida base teorica e ha radici nella difficoltà di immaginare una sinistra
oggi. Noi stiamo vivendo in effetti una transizione epocale da un sistema
produttivo a un altro. Alcuni dicono che questa è la seconda rivoluzione
industriale, altri la terza, ma tutti concordano nel considerare l'epoca
attuale come una fase di passaggio strategica dei modi di produzione e
del conseguente assetto della società. Per dirla con Marshal Berman che
ha scritto uno dei più bei libri degli anni Ottanta: L'esperienza della
modernità essere moderni vuol dire essere parte di un universo in cui,
come ha affermato Marx, tutto ciò che sembrava solido e conosciuto si
dissolve nell'aria in un tempo brevissimo. Tutto questo produce
spaesamento, angoscia, senso di perdita e non è sufficiente il ricorso
alla memoria o alla tradizione delle lotte precedenti per superare questa
condizione. In questo senso se è indubbiamente comprensibile che molti
compagni del movimento siano entrati in Rifondazione Comunista per
continuare ad avere magari una bandiera di riferimento, ciò nondimeno
non credo che la soluzione sia quella. Il capitale, la borghesia, vecchia o
nuova che sia, sono forze rivoluzionarie che storicamente sono costrette a
rivoluzionare continuamente i mezzi e rapporti di produzione e con essi
l'intera gamma dei rapporto sociali. Compito degli antagonisti è attuare
un'eguale e rovesciata rivoluzione delle proprie forme di lotta. Qualsiasi
nostalgia del passato, per quanto straordinario esso possa essere stato,
rischia di essere una scelta regressiva e frustrante anche se concordo
dialetticamente con l'affermazione che la lotta degli uomini contro il
potere è anche la lotta della memoria contro l'oblio. E' vero peraltro che
vi sono fasi intermedie in cui gli oppositori hanno bisogno di rileggere
le trasformazioni intervenute, ovvero di rifondare il proprio progetto
rivoluzionario per ricomporre le file del movimento. Il concetto di esodo
deriva in parte da questa necessità. Il riferimento metaforico è, come
ovvio, quello degli ebrei che abbandonano l'Egitto della repressione per
andare in cerca della terra promessa, ma nel corso dell'esodo si
fermano appunto vicino al monte Sinai per dotarsi delle Tavole della
Legge, delle nuove leggi e regole. Ora io penso che l'esodo rimanendo
dentro sia un mezzo per raccogliere le tribù sparse del movimento per
creare un luogo dove darsi nuove leggi e nuovi strumenti di comunità
per poi tornare all'attacco dell'ordine costituito. Un ipotesi di questo
genere ha un suo fascino e prevede un'idea di res publica dal basso,
composta di minoranze che non hanno nessuna intenzione di diventare
maggioranza ma che si riconoscono in una nazione virtuale che e I
arcobaleno delle differenze che diventa progetto e ricchezza In questa
direzione e nei primi mesi della riapertura della libreria mi sembra che i
segnali siano molti e positivi. Sono nate due nuove riviste come
Altreragioni e DeriveApprodi mentre una rivista preesistente,
Balena bianca, è stata in parte rifondata e Decoder ha quasi
raddoppiato la tiratura. Del resto gli stessi compagni di Luogo Comune
che hanno introdotto la tematica dell'esodo, dopo un lungo periodo di
silenzio torneranno a breve a uscire con regolarità. Più in generale vi e un
grande fermento di piccoli gruppi nelle università e in molti luoghi sociali
mentre il panorama politico istituzionale è letteralmente sconvolto da
tempeste interne che sono anche l'espressione dell'invecchiamento del
ceto politico. Io credo che in questo vuoto si aprano spazi di
sperimentazione non statuale. Ciò sarà tanto più possibile a misura che
sarà arrivata a maturazione la riflessione e la comprensione della
rivoluzione in atto nelle società del capitalismo maturo e questo senza
fermarsi a gratificarsi più che tanto sulla dissoluzione miserrima del
sistema dei partiti. La colossale sbrinatura del sistema politico italiano
richiede una nuova e profonda progettualità magari abbandonando le
illusioni di incontaminata purezza creativa delle opposizioni giovanili
degli anni Ottanta. In ogni caso mi piace pensare che i movimenti non
siano mai scomparsi ma che stiano semplicemente dormendo.
Di fronte a un'affermazione come quella che fa Franco Piperno
ovverosia che il comunismo in realtà non bisogna aspettarlo esso è
già tra noi, latente, qual è la tua posizione?
Ne sono sempre stato convinto, anche quando ai tempi di Potere
Operaio Piperno diceva cose diverse. E' indubbio che il movimento che
chiamiamo genericamente comunista, è un processo storico che non ha
un inizio e una fine con la presa del potere. L'ideologia della presa del
potere è dei gruppi verticali organizzati degli anni Settanta che hanno
elaborato questa interpretazione un po' spuria del concetto leninista di
potere secondo le tappe classiche, cioè sciopero generale, insurrezione,
disintegrazione dei poteri, dell'esercito e della polizia. In realtà un uso
più flessibile di questo concetto ti fa interpretare il comunismo come un
movimento tendenziale che avviene attraverso un procedimento
semplice: tu nasci in una società del capitale nella quale sei costretto o ad
aderire o a inventarti un'altra strada. Per inventare un'altra strada devi
però contrapporre un'elevata capacità di produrre saperi e di proporre un
modo diverso di vivere dentro la società del capitale. Questo è il processo
comunista che parte dalla trasformazione del soggetto per diventare
movimento collettivo, per diventare cioè comunità e intelligenza
collettiva. Credo che la cosa più drammatica per l'élite economica e
politica degli anni Settanta sia stata non tanto l'azione dei gruppi politici
verticali organizzati quanto il processo reale complessivo dei soggetti.
Sono convinto che la gran parte delle centinaia di migliaia di operai che
facevano il sindacato dei consigli non avessero poi nemmeno talmente
chiaro uno schema ideologico di riferimento. Avevano però una
condizione di classe che, tramite un humus complessivo che li circondava
e grazie alla soggettività di cui erano portatori dentro il degrado del
processo produttivo, l'hanno rovesciata, proponendo una critica
quotidiana del fordismo attraverso il comportamento dentro la fabbrica,
nella produzione e nell'autorganizzazione politica. Altrettanto hanno
fatto le parti più intelligenti dei movimenti sociali. Quello che è stato,
quindi, è un processo che difficilmente avrebbe potuto non lasciare tracce
profonde. Credo che decine di migliaia di soggetti siano segnati
inesorabilmente da tutto ciò e che nel loro corso quotidiano continuino a
produrre uno scambio comunicativo che fornisce questo tipo di
indicazioni. E' una filigrana interna alla società.
Oggi, che contenuti e che obiettivi può avere una possibile
opposizione?
I luoghi oggi sono determinanti, nel senso che fuori vi è un
processo di sussunzione complessiva della vita e delle economie, della
cultura: tutto è merce. Poi ci sono dei luoghi, invece, dove questo viene
rifiutato. Io credo che questa sia una fase in cui chi ha la capacità, la
credibilità, la soggettività di avere luoghi, può non tanto fare progetto
politico, a mio modo di vedere, almeno in questa fase, quanto invece
fare un'altra cosa che è strategica e indispensabile: trasformare quei
luoghi in centri di ricerca, o per lo meno una parte della loro attività
destinarla alla formazione e alla ricerca. Se il sapere è diventato una
merce produttiva, direttamente in quanto tale, o inglobato nella macchina,
nella tecnologia o nell'informazione, che è la sua estensione più grande,
si devono fare di nuovo scelte esistenziali ma se la scelta esistenziale non
è nutrita da una cultura sofisticata e complessa, cioè di continua
produzione e autoproduzione, la scelta si limiterà a produrre solo disagio
esistenziale Dalla rivolta esistenziale all'autoproduzione del soggetto
c'è un passaggio strategico che è la capacità di impadronirsi di strumenti
di conoscenza diversi che permettano di decodificare, di destrutturare, di
far saltare lo schema avversario: altrimenti senza questa fase di
accumulazione primitiva culturale di saperi non ne viene nulla. Dicevo
prima che i dieci anni antecedenti il '68 sono stati dieci anni di
accumulazione enorme di saperi con comportamenti quotidiani
apparentemente normali, se si esclude la visibilità degli hippies e dei
beat, però era in corso un laboratorio sociale di accumulazione di saperi
che metteva in discussione tutto. Ciò era avvenuto anche negli anni Venti
stava avvenendo nel '77, quindi è un'esigenza che appartiene al processo
storico determinato di una formazione economica e politica, che è quella
del capitale con le risposte a essa dei vari soggetti. Io ho la sensazione
che stia avvenendo anche Oggi qualche cosa di simile: se non sbaglio
nell'ultimo anno ho fatto almeno cento dibattiti in ottanta luoghi diversi
in Italia, da Vasto a Napoli, da Roma a Padova, da Badia Polesine a
Bologna, a Genova e mi rendo conto che, pur essendo minoranze quelle
che incontri, la modificazione avvenuta è forse sostanziale. Fino a
qualche anno fa tra il pubblico trovavo due terzi di persone conosciute,
ovverosia che conoscevo da almeno dieci anni, adesso verifico che c e
una gran parte di giovani sconosciuti che chiedono una quantità enorme
di informazioni e di riferimenti, superiori, per esempio alle mia personale
capacità di dare risposte. Ciò significa che è in corso qualcosa. Faccio un
esempio riferendomi ancora ai cyberpunk. In una prima fase la tentazione
di sabotare il terrorismo mediatico è stata molto forte e in parte alcune
componenti la pensano ancora così. Si andava dal semplice sabotaggio
alle cabine telefoniche al mito di Chomskij che va in galera perché sabota
un calcolatore Poi, successivamente, mi sembra che si sia cominciato a
riflettere sul come mettere effettivamente il bastone tra le ruote negli
ingranaggi così perfettamente oliati delle macchine comunicative
moderne. La risposta non poteva che essere la necessità di conoscere in
profondità la nuova e mostruosa macchina comunicativa. Ed è nel corso
di questo processo di riappropriazione di competenze che si scopre la
possibilità di usarla per fini diversi e nel contempo si scopre anche la
fragilità complessiva delle nuove tecnologie Ciò significa che mentre
acquisisco conoscenza mi rendo conto che posso pure gestire le mie
conoscenze in maniera diversa. Non è che la cosa sia nuova nella storia
dei comportamenti collettivi: è noto che una parte rilevante del
movimento operaio all'inizio dell'Ottocento era luddista, sabotatore,
perché pensava che con le macchine utensili si era affermato
definitivamente il potere del capitale, dell'ascesa del capitale sull'uomo e
quindi bisognava sabotarle. Da lì si forma la figura moderna
dell'antagonismo che, dentro al processo complessivo capitalistico
produrrà il conflitto. Ora, credo che il percorso fatto da coloro che sono
ancora identificabili nell'area della controcultura radicale, come i
cyberpunk per intenderci, abbiano messo in moto lo stesso meccanismo:
hanno scoperto che un uso sociale delle tecnologie poteva essere
rovesciato addosso al potere. Allora questo è uno dei tanti sensori di
un'avvenuta metabolizzazione della distruzione, della lunga fase
distruttiva degli anni Ottanta: c'è, ma nessuno glielo ha insegnato, è
avvenuto come percezione soggettiva ed è nutrita di tante culture che
precedentemente erano frammentarie e che in quell'elaborazione hanno
trovato sintesi. E' particolarmente rilevante quanto avviene in questo
modo perché è un percorso che si snoda contemporaneamente nel mondo
occidentale: senza che si siano mai conosciuti hanno pensato la stessa
cosa contemporaneamente a Londra, nel Texas, ad Amburgo o a Milano.
Il che vuol dire che nei cicli storici sostanzialmente c'è un periodo
distruttivo che frantuma e macera i soggetti, poi c'è però anche una
ricomposizione che rimette in moto delle intelligenze, parziali,
minoritarie, collettive, ma che sono i sensori della trasformazione in atto.
E' una trasformazione che si vede anche in altri ambiti: il movimento
degli studenti, la Pantera e poi ancora la gente che ricomincia a fare
controinformazione autogestendo l'informazione. E' un processo unico,
anche se diversificato, che magari avrà teoricamente una sua possibile
disarmonica sintesi tra qualche anno, ma è un processo in atto. Sono
ricominciati larghi frammenti di laboratorio sociale che ancora non
possono essere progetto politico. L'unica cosa che si può dire è che si sta
attivando una stimolazione delle intelligenze che porta a considerare i
saperi un elemento determinante del piacere di stare al mondo, un
nutrimento complessivo della soggettività quotidiana. Questa
trasformazione sta avvenendo nei fatti, per percorsi che sono paralleli, in
una somma di microstrutture e di comportamenti la cui unitarietà è data
dai fatti reali, ed è un elemento di risposta esistenziale in atto nell'età
della tecnologia flessibile nella quale si incrociano lira di dio di
riferimenti, dai situazionisti agli operaisti agli storici della Resistenza.
Come ci si sia arrivati fa parte dei processi reali, non è che cl sia una
spiegazione sociologica: fa parte di tanti frammenti che prima
rimanevano separati e che invece lentamente si fondano nel soggetto
creando la sua identità. Questo è un processo in atto che richiede, nella
sua fase intermedia, un continuo afflusso e una stimolazione di saperi e di
informazioni: altrimenti si neofondamentalizza nel punto raggiunto, crede
che quello sia un punto di arrivo che gli ha permesso di confrontarsi,
invece è semplicemente il tempo storico necessario alla formazione del
soggetto perché dia la risposta alle modificazioni della forza innovatrice e
rivoluzionaria del capitale. Chi fa oggi un progetto politico complessivo
in realtà opera una sola determinazione: mischiarsi col mondo in tutte le
componenti, socializzando al massimo tutti i saperi di cui si è portatori.
Quando lavoravo negli anni Settanta in Calusca, tutti pensavano che ero
più intelligente perché sapevo un sacco di cose: in realtà io ero
semplicemente il collettore di oltre duecento intelligenze che
frequentavano la libreria: così, quando parlavo, ne sapevo di più, ma
perché erano tante cose separate che continuavo a elaborare lungo
coordinate comuni. Oggi continuo praticamente più o meno a fare questo:
ormai è quasi un automatismo, forse non potrei vivere se non facendo
così, è la mia condizione vera, esistenziale, irriducibile.
Non a caso dopo anni hai riaperto la Calusca
Sì, anche se oggi sono convinto che andrebbe realizzata una cosa
molto più complessa della Calusca, occorrerebbe una libreria vera,
completa, in grado di creare confronto con un archivio gestito
intelligentemente, un posto dove stare, una via di mezzo tra un club, un
circolo, una libreria, un bar, un luogo di socialità aperto, che faccia
trasversalità con questa città, che ricostruisca reti di comunicazione anche
con le strutture professionali di questa città. La grande intelligenza degli
anni Settanta era che noi avevamo avvocati che hanno cambiato la loro
cultura giuridica, hanno usato i saperi acquisiti nell'ambito delle
università rovesciandoli contro, non svolgendo semplicemente il ruolo di
garante del processo, ma il ruolo di distruttore del significato del
processo, così come anche abbiamo avuto scienziati o medici (si pensi a
tutta l'esperienza di Medicina Democratica o di Psichiatria Democratica).
In tutti i campi ancor oggi questa capacità di stabilire reti e relazioni, di
riconoscersi nella differenza è fondamentale: solo così, infatti, a un certo
punto, le culture si mischiano producendo intelligenza reciproca. Per
questo motivo, se potessi fare una libreria vera, avendone la forza
economica e l'energia che non ho in questo momento, quella sarebbe un
luogo di incrocio delle differenze, tra i democratici, tra i rivoluzionari, tra
i teppisti di periferia e quant'altro esiste sulla piazza.
Come mai hai deciso di aprirla all'interno di un centro sociale?
E' stata nel contempo una scelta soggettiva e un incrocio territoriale
perché abito in questa parte della città praticamente da sempre. Ma questo
non è il solo motivo. Oltre alla simpatia umana e sociale per coloro che
hanno dato vita a! Centro Sociale di via Conchetta, il Cox 18, ho pensato
che riaprire la libreria in un luogo giuridicamente insicuro come un
Centro Sociale occupato e autogestito, fosse una risposta simbolica e
soggettiva al razzismo politico e amministrativo del Comune nei
confronti di questi luoghi. I centri sociali sono malvisti? Allora io mi
metto in quei luoghi, spendo la mia persona e il mio progetto proprio
in questi luoghi e mentre faccio questo creo o voglio creare, un luogo di
produzione e di ricerca culturale. Un piccolo spazio dentro un centro
sociale occupato e quindi insicuro come pare inevitabile oggi. Un
luogo che inizialmente sarà solo parzialmente libreria se lo diventerà
sarà il prodotto delle richieste, dei bisogni e della partecipazione dei suoi
fruitori ma tenterà di essere uno spazio di socializzazione di saperi, in
una società sovraccarica di dati ma povera di informazione reale. Ciò
senza nessuna illusione illuministica e, come abbiamo sempre fatto,
evitando qualsiasi equivoco con i portatori di coscienza che troppo
spesso si rivelano cialtroni o possibili nuovi padroni. Un gesto quindi
per contribuire a riempire un vuoto utilizzando solidarietà e
partecipazione delle culture creative del ghetto metropolitano. Contro
la città fasulla dell'eccellenza e alla ricerca di nuove e possibili comunità
. E', in piccolo, una situazione-cuscinetto, un'agorà tendenziale perché qui
arriva tantissima gente dalla città, dagli hinterland e da molti altri luoghi
nazionali ed esteri. La gran parte non è forse mai stata in un centro
sociale, ma è proprio per questo che si cominciano a creare quegli
incroci, quel conoscersi e comunicare nella differenza di cui parlavo
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